mercoledì 13 febbraio 2013

Nicola Bombacci e la socializzazione





Genova, 15 marzo 1945, siamo quasi all’epilogo di una guerra spietata imposta all’Europa dalle grandi plutocrazie occidentali.
Tanti, anche nelle file del fascismo pensano a come salvarsi, qualcuno persino a come riciclarsi e comunque nessuno si fa più illusioni, la guerra è inevitabilmente perduta e le conseguenze nazionali e personali saranno gravissime.
Il 12 febbraio dell’anno precedente, il 1944, erano stati varati i primi decreti Legge sulla Socializzazione delle imprese: una riforma rivoluzionaria per il mondo del lavoro, ma anche per tutta l’economia nazionale la quale, accompagnandosi con altre riforme come quella sul libero mercato azionario, sul mercato immobiliare e della casa, sui delicati settori primari del vestiario e dell’alimentazione, e soprattutto alla legislazione Corporativa e alle Leggi sullo Stato sociale, veniva a instaurare l’unica forma di socialismo possibile: quella “dentro” la Nazione e preservando comunque l’iniziativa e la proprietà privata (senza le quali si “uccide” lo sviluppo e sconfinare nel supercapitalismo di stato), ma subordinandole agli interessi dello Stato e inquadrandole in un ottica di giustizia sociale. L’esatto contrario dello Stato liberista.
Purtroppo l’attuazione della Socializzazione finì per insabbiarsi a causa delle necessità belliche, ma soprattutto a causa di un triplice boicottaggio:
in primis quello degli industriali che, ovviamente, non volevano spartire la direzione delle Aziende con il mondo del lavoro, nè tantomeno ripartire gli utili. Questi pescecani, che sono magari disposti a farlo come “elargizioni”, fuori busta, elemosina, ma mai come atto dovuto di giustizia sociale, presero ad appoggiarsi e a giocare su due sporchi tavoli per boicottare la socializzazione: i tedeschi e i comunisti.
I tedeschi, infatti, secondo elemento del boicottaggio, ragionavano esclusivamente in termini di economia di guerra e quindi erano unicamente interessati a quel poco di produzione militare e para militare che l’industria italiana poteva garantirgli: ergo, se gli industriali gli assicuravano che questa socializzazione era una complicazione alla produzione, i tedeschi gli davano ascolto.
Terzo elemento di boicottaggio della socializzazione furono i comunisti. Presenti clandestinamente nelle fabbriche tra i rappresentanti sindacali, i comunisti boicottarono con tutte le loro forze quella riforma che, ideologicamente, li spazzava letteralmente via dal mondo del lavoro. Era veramente la fine della marxiana lotta di classe, ma questa volta non in virtù di una pace sociale in qualche modo imposta alle categorie produttive, ma per una ricomposizione sociale, ideologica e pratica che rendeva inutili e assurde le rivendicazioni di classe.
Fu così che i comunisti passarono la parola d’ordine di boicottare tutte le elezioni dei delegati dei lavoratori nel complesso socializzato. E, salvo alcune aziende, dove le elezioni si tennero con ampia partecipazione, nel complesso ci riuscirono, con l’approvazione padronale e praticamente riuscirono a far agire i lavoratori contro i loro interessi, aiutati dalla paura, dal terrore, che incutevano, forti delle prospettive che ci sarebbero state con la fine di una guerra oramai scontata nel suo esito.
Le sinistre completarono poi l’opera a guerra finita quando, accogliendo le richieste Alleate, abolirono tutte le Leggi sulla socializzazione.
In cambio gli furono concesse svariate opere del Regime, sedi e locali di altissimo valore dove si installarono i sindacati, organismi vari e quant’altro, e per abbindolare e tacitare la classe operaia, gli vennero concesse legittimazioni di rappresentanze sindacali e qualche gratifica.
Insomma un immondo baratto: in cambio di immobili e piatti di lenticchie per i lavoratori, la grande riforma socialista e rivoluzionaria venne abrogata, per sempre. Gli Agnelli, i Valletta, i Falk, gli Edison, e tutti gli altri industriali della Confindustria, che anche sotto il fascismo si erano abbondantemente arricchiti, ringraziarono.
Ma torniamo a quel 15 marzo 1945 ed esattamente in piazza De Ferrari a Genova, dove un eccellente e genuino oratore, che era stato socialista, poi tra i fondatori del comunismo nel 1921 ed aveva conosciuto Lenin anche nelle ore pericolose della rivoluzione bolscevica, cioè il romagnolo Nicola Bombacci, classe 1879, un tempo chiamato il Lenin di Romagna, arringò una enorme folla che, più che altro, fu individuata negli operai delle industrie navali liguri e delle fabbriche siderurgiche e meccaniche di Sampierdarena, di Cornigliano, di Sestri Ponente, di Pegli e di Voltri, nonché della Valbisagno e della Valpolcevera.
Nicola Bombacci, come ricostruito da Bruno de Padova (http://www.italia-rsi.org/uomini/bombacci.htm) diede sfoggio a tutta la sua eloquenza rivolgendosi ai produttori genovesi:
“Compagni! Guardatemi in faccia, compagni! Voi ora vi chiederete se io sia lo stesso agitatore socialista, il fondatore del Partito comunista, l’amico di Lenin che sono stato un tempo. Sissignori, sono sempre lo stesso! Io non ho mai rinnegato gli ideali per i quali ho lottato e per i quali lotterò sempre… . Ed aggiunse: Ero accanto a Lenin nei giorni radiosi della rivoluzione, credevo che il bolscevismo fosse all’avanguardia del trionfo operaio, ma poi mi sono accorto dell’inganno… Il socialismo non lo realizzerà Stalin, ma Mussolini che è socialista anche se per vent’anni è stato ostacolato dalla borghesia che poi lo ha tradito… ma ora Mussolini si è liberato di tutti i traditori e ha bisogno di voi lavoratori per creare il nuovo Stato proletario…”.
Ricorda De Padova: “Nel contempo, tra lo stupore di tutti per quel linguaggio senza indugi, l’operaio metallurgico Paolo Carretta – presente col pubblico – salì spontaneamente sul palco e volle testimoniare della sua esperienza drammatica di comunista esule nell’URSS staliniana, fatto che consentì a Bombacci di esortare i liguri al riscatto dell’Onore nazionale dopo il tradimento dei Savoia, di Badoglio e dei massoni, ma anche tutti a partecipare attivamente alla formazione dei consigli di gestione nelle aziende perché si trattava di “Conquiste che, comunque vada, non devono andare perdute” onde galvanizzare la socializzazione in fase di compimento, dato che “Presto tutte le fabbriche saranno socializzate e sarà esaminato anche il problema della terra e della casa perché, tutti i lavoratori devono possedere la loro terra e la loro casa…”.
La genesi della Socializzazione, venne riassunta su una Corrispondenza Repubblicana del 24 febbraio 1944, attribuita a Mussolini:
Il secondo degli otto punti che precedono il testo del decreto sulla socializzazione delle imprese approvato dal Consiglio dei Ministri il 12 febbraio, dice che uno dei criteri fondamentali che hanno ispirato il decreto stesso è la rivendicazione della concezione mussoliniana di una più alta giustizia sociale, di una più equa distribuzione della ricchezza, della partecipazione del lavoro alla vita dello Stato... Già il 20 marzo 1919 tre giorni prima della fondazione dei Fasci, Mussolini così parlava agli operai di Dalmine: “Non siete voi i poveri, gli umili, i reietti secondo la vecchia retorica del socialismo letterario; voi siete i produttori ed è in questa vostra qualità che voi rivendicate il diritto di trattare da pari con gli industriali… Voi giungerete a funzioni essenziali nella vita moderna. Il divenire del proletariato è problema di capacità e di volontà… E’ il lavoro che nelle trincee ha consacrato il suo diritto a non essere più fatica, disperazione, perché deve diventare orgoglio, creazione, conquista degli uomini liberi nella Patria libera e grande entro e oltre i confini”.
Il 9 ottobre 1919 aveva luogo la prima grande adunata fascista. Ecco quel che conteneva la relazione Fabbri sul programma del fascismo, letta in quella occasione: 
“Problema sociale: 
a) sollecita promulgazione di una legge che sancisca per tutti i lavoratori la giornata legale di otto ore sull’effettivo lavoro; 
b) miglioramento di paga; 
c) partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori al funzionamento tecnico dell’industria; 
d) affidamento alla stesse organizzazioni proletarie della gestione d’industria e servizi pubblici; 
e) modificazione del disegno di legge d’assicurazione sull’invalidità e vecchiaia, fissando il limite d’età a seconda dello sforzo che esige ciascuna specie di lavoro; 
f) obbligo ai proletari di coltivare le terre; le terre non coltivate dovranno essere date a cooperative di contadini; 
g) riforma della burocrazia ispirata al senso della responsabilità individuale”.
Il ministero delle Corporazioni veniva inaugurato il 31 luglio 1926.
E Mussolini diceva con precisazione nettissima:
“La gente del lavoro fu fino a ieri misconosciuta e negletta dallo Stato vecchio regime. 
La gente del lavoro si accampò fuori dello Stato e contro lo Stato. Oggi tutti gli elementi della produzione, il capitale, la tecnica, il lavoro, entrano nello Stato e vi trovano gli organi corporativi per l’intesa e la collaborazione”.
Al congresso dei sindacati fascisti in Roma, tenutosi il 7 maggio 1928, il Duce faceva la seguente programmatica dichiarazione:
“Occorre ancora migliorare qualitativamente le nostre masse, far circolare cioè la linfa vitalissima della nostra dottrina nell’organismo sindacale italiano. Quando queste condizioni si siano realizzate, noi passeremo audacemente ma metodicamente alla terza e ultima fase: la fase corporativa dello Stato italiano. Il secolo attuale vedrà una nuova economia. Come il secolo scorso ha visto l’economia capitalistica, il secolo attuale vedrà l’economia corporativa… 
Bisogna mettere sullo stesso piano capitale e lavoro. 
Bisogna dare all’uno e all’altro uguali diritti e uguali doveri”.
E il 6 ottobre 1934 il Duce ribadiva il suo programma sociale con le seguenti parole, in cui per la prima volta veniva definito il concetto della «più alta giustizia sociale”:
“Il fascismo stabilisce l’uguaglianza verace e profonda di tutti gli individui di fronte al lavoro e di fronte alla nazione… Che cosa significa questa più alta giustizia sociale? Significa il lavoro garantito, il salario equo, la casa decorosa; significa la possibilità di evolversi e di migliorare incessantemente. Non basta. Significa che gli operai, i lavoratori devono entrare sempre più intimamente a conoscere il processo produttivo e a partecipare alla sua necessaria disciplina”.
Un logico sviluppo del concetto di giustizia sociale è la seguente affermazione fatta da Mussolini il 13 marzo 1936: “Devono raccorciarsi e si raccorceranno, nel sistema fascista, le distanze fra le diverse categorie di produttori…”.
Il 23 marzo 1936, infine, Mussolini pronunciò un discorso alle Corporazioni parlando delle “industrie-chiave» che interessano direttamente e indirettamente la difesa e la vita della nazione. In tale occasione, egli si poneva questi interrogativi:
“… L’intervento dello Stati in queste grandi unità industriali sarà diretto o indiretto? Assumerà la forma della gestione o del controllo?”. 
E rispondeva:
“In taluni rami potrà essere gestione diretta, in altre indiretta, in altri un efficiente controllo. E’ perfettamente logico che anche nello Stato fascista questi gruppi di industrie cessino di avere anche de iure la fisionomia di imprese a carattere privato… Questa trasformazione costituzionale di un vasto importante settore della nostra economia si farà senza precipitazione, con calma, con decisione…In questa economia i lavoratori diventano con pari doveri collaboratori nell’impresa, allo stesso titolo dei fornitori di capitale o dei dirigenti tecnici”. 
Sarebbe facile, come appare ovvio a chiunque conosca le manifestazioni del pensiero sociale mussoliniano, continuare; ma queste poche citazioni sono sufficienti per documentare la coerenza rivoluzionaria del fascismo, il quale non rinnega ora le proprie origini e i propri ventennali sviluppi, ma si rifà alla loro più genuina essenza travolgendo gli esterni ostacoli e le interne resistenze che si frapponevano alla piena realizzazione dei suoi altissimi fini sociali”.
Era scontato che, con questi presupposti, Bombacci si schierasse immediatamente a fianco di Mussolini, ben conscio del tragico destino che avrebbe coinvolto entrambi.
Del resto Bombacci, già negli anni ’20, si era reso conto del carattere fraudolento del comunismo. I suoi atteggiamenti, le sue posizioni atipiche, finirono per farlo espellere dal PCdI, mentre al contempo, nonostante i dissidi e le opposte barricate, Mussolini e Bombacci erano sempre stati tra loro uniti da una profonda amicizia.
Nei primi anni di governo, anzi, Mussolini in qualche modo utilizzò Bombacci e le sue entrature in Russia, per portare avanti vari accordi commerciali con quel paese, compreso il riconoscimento internazionali dell’Urss.
Durante il ventennio Bombacci si ritrovò emarginato dai suoi ex compagni comunisti, mal visto dai fascisti, in particolare quelli con tendenze reazionarie e finì anche in gravi ristrettezze economiche famigliari. Ma potè sempre contare sulla solidarietà e gli aiuti “discreti” di Mussolini. Generosità questa che Bombacci non dimenticò mai.
L’avvento delle Corporazioni, la politica autarchica e le tante riforme sociali del ventennio spinsero Bombacci ad esprimere molte approvazioni alla politica mussoliniana. Dal 1936 Mussolini aveva anche consentito a Bombacci, esempio non unico, ma raro, nella dittatura del ventennio, di pubblicare una sua rivista, nomata “La Verità”, non a caso un nome a similitudine della Pravda sovietica.
Anche per la guerra, Bombacci si rese ben conto che, al di là della propaganda, era in atto uno scontro apocalittico con le grandi plutocrazie occidentali.
Nel pensiero e nel comportamento di Bombacci, quindi, ci fu molta più coerenza di quella di altri socialisti e anarchici, come per esempio Leandro Arpinati e Torquato Nanni, altri rivoluzionari romagnoli, tutti amici di Mussolini, che però finirono per optare, di fatto, per l’Occidente liberista degli Alleati.
Bombacci, invece, fu tra i più entusiasti della proclamazione della Repubblica Sociale da parte di Mussolini dopo l’8 settembre.
Egli vide finalmente il Duce libero dai condizionamenti savoiardi, dagli industriali, dalla Chiesa e dai Generali. Mussolini, come sappiamo, pur “prigioniero” dei tedeschi, non si fece sfuggire questa occasione storica, mai verificatasi in Italia, e procedette alle sue grandi riforme rivoluzionarie. E “nicolino”, come lo chiamava affettuosamente Mussolini, fu tra i più entusiasti e partecipi a quel progetto fin dal congresso del PFR a Verona nel novembre 1943.
Se Angelo Tarchi, ministro dell’Economia Corporativa e il prof. Manlio Sargenti, Capo gabinetto al ministero e tra gli estensori del manifesto di Verona, erano preposti alla attuazione della Socializzazione, Bombacci fu un tutto fare, tanto che Mussolini ebbe a dire: "Bombacci, che vive giorni di passione, è in prima linea tra coloro che si battono per una vera rivoluzione sociale";.
Ma Bombacci svolse anche un altro compito, assieme all’ex Prefetto e segretario di Mussolini, Luigi Gatti, si impegnò in una inchiesta a tutto campo per smascherare quegli ambienti massonici e di “putrido capitalismo” che erano stati dietro al delitto Matteotti. Il dossier, a cui aveva lavorato anche Bombacci, ovviamente sparì letteralmente una volta finito nelle mani dei partigiani, ma per fortuna ne abbimo amie notizie dal socialista Carlo Silvestri che ebbe modo di vederlo e di parlare spesso con Mussolini, Bombacci e Gatti.
Fatto sta che l’ inchiesta in RSI di Bombacci per il delitto Matteotti, la sua vecchia partecipazione, negli anni ’20, ad accordi e traffici con i Sovietici, accordi che tra l’altro evitarono all’Italia, fino al 1941, il terrorismo delle cellule comuniste (i soli atti terroristici vennero compiuti durante il ventennio da cellule politiche legate a lobby massoniche) ed infine un altra partecipazione di Bombacci, nel primo semestre del 1943, alle iniziative di Mussolini per addivenire ad una tregua con i Sovietici, giocarono sicuramente nella decisione, altrimenti ingiustificata, che condannò Bombacci a morte in quel di Dongo. Ed è questo un aspetto criminale e molto poco indagato e conosciuto.
Quando la sera del 25 aprile, nella Prefettura di Milano, venne deciso lo sganciamento verso Como, Bombacci, tranquillo, con la sua valigetta necessaire, seguì il suo amico Mussolini. Salì con lui in macchina e con tutta la colonna si diressero verso Como. Lo seguì fino all’ultimo, fin nell’autoblinda bloccata a Nesso.
In quelle ultime ore, a chi gli chiedeva perchè, lui Bombacci, che in definitiva non aveva indossato la camicia nera, andava adesso a correre quei rischi mortali, lui rispose: “Mussolini è la rivoluzione socialista, dove va lui vado io!”.
Resta solo da dire che Mussolini, Bombacci e la Rivoluzione, non solo furono liquidati dagli anglo americani, vennero ripudiati dai comunisti, ma vennero anche rinnegati dai “neofascisti” missisti nel dopoguerra.
La socializzazione infatti, per un partito di destra, conservatore, da subito stampella della DC in un ottica anticomunista, era un fardello ingombrante. Per anni non se ne sentì più parlare, se non qualche accenno in sedi locali, o retorici richiami sulla stampa di partito o qualche esponente missista.
Poi quando il progetto di Michelini di fare del Msi la gamba liberale dei governi democristiani, dopo un effimero successo con il governo Tambroni del 1960 fu, e non a caso, subito liquidato e vennero varati i governi di centro sinistra, il riferimento a destra della DC diventò il Pli di Malagodi. Si aprirono così, nel partito spazi per una contestazione alla segreteria di Michelini (che però teneva strette nelle mani le borse del partito). Attorno alla figura dell” “attore” Almirante, sorse la corrente dissidente di “Rinnovamento”, la quale fece propri alcuni presupposti sociali della RSI tra cui la Socializzazione. Se ne venne così a parlare, la si dibattè, anche in opposizione alla destra di Romualdi, ma era tutta una commedia, finalizzata alla spartizione delle poltrone. Ed infatti, al congresso decisivo, quello missista di Pescara del 1965, Almirante, di fatto, liquidò “Rinnovamento” accordandosi con Michelini.
E la Socializzazione restò solo una vuota retorica, uno slogan da comizio, per abbindolare gli sprovveduti.
Il progetto di una ricomposizione socialista dell’economia, sognato da Mussolini, venne quindi tradito, per primi, dai suoi falsi epigoni.
Di questo progetto, aveva detto Mussolini a Milano a dicembre del 1944: “Qualunque cosa accada, è destinato a germogliare”.
Giustamente l’avvocato Manlio Sargenti, uno dei padri preposti da Mussolini a quel progetto, rivelò: “Purtroppo questo progetto non si è avverato. Gli italiani hanno dimenticato quella che costituiva la più originale, la più innovatrice proposta della loro storia recente. L’hanno dimenticata quelli stessi che si sono considerati gli epigoni dell’idea del Fascismo e della Repubblica Sociale”.
In altra occasione venne anche chiesto al prof. Manlio Sargenti, che come tanti aveva aderito al Msi, ma che poi ovviamente, come tanti altri, abbandonò il partito:
“Quali furono le motivazione che la spinsero alla scelta del MSI?”
Risposta: “Questo appariva come l’unico soggetto capace di continuare l’opera della RSI, della quale conservava, nel segno distintivo il ricordo. E fu appunto questa prospettiva a indurre me, come gli altri che nell’Italia settentrionale aderirono al Movimento, a scegliere questa alternativa nonostante il pericolo a cui si andava incontro”.
“Che posizione ebbe Lei quando il MSI aderì alla Nato?
Risposta: “... io fui della corrente che si oppose per i motivi che ora soprattutto si rivelano determinanti; perchè la Nato si è sempre più rivelata lo strumento della supremazia americana e del controllo dell’America sulla politica dei paesi che vi hanno aderito. Lo spirito del MSI fu perduto nel momento in cui il Movimento votò a favore dell’adesione alla Nato”.
Troppo ottimista il buon Sargenti, in realtà il Msi era già nato bacato dietro un preciso obiettivo reazionario e tramite manovre di forze reazionarie, massoniche e dell’Oss americano, finalizzate a spostare a destra la gran massa di reduce del fascismo repubblicano che di destra certo non erano.


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