sabato 29 settembre 2012

A BANCA O SCIULIO STORIA DI PESCECANI DEL NORD E DEL SUD

Autore: Carmine Cimmino

1870, ma sembra oggi. Anche allora si rastrellavano denari in cambio di interessi più alti della media. In prima fila i soldi degli speculatori del Vesuviano e dell’area Nolana.

 

Di Carmine Cimmino

Cavour il Sud forse non lo voleva. Ma quando Garibaldi glielo regalò, e Crispi gli comunicò a quanto ammontavano i depositi in argento e d’oro della Sicilia e di Napoli, il Conte fu pervaso tutto dall’ebbrezza paralizzante che oggi attanaglierebbe chi sbancasse il Superenalotto per dieci estrazioni di fila. I forzieri del Banco di Sicilia e del Banco di Napoli, le casse, le case, i muri delle case, i cessi delle case, e perfino i giardini delle case dei “galantuomini“ siciliani e napoletani traboccavano di monete d’oro e d’argento.



Un tesoro smisurato, che avrebbe potuto cambiare per sempre i destini del Sud, dell’Italia e della dinastia, se gli ultimi tre Borbone avessero disseminato il regno di sportelli bancari e avessero promosso investimenti strutturali per la costruzione di strade, di porti, di ferrovie e di scuole. Se fossero stati, insomma, una dinastia liberale. Ma non lo furono. E Alì Babà e i suoi ladroni portarono al Nord quel tesoro, e pagarono i debiti che il Piemonte aveva contratto per la guerra del ’59: e vi fu chi in Parlamento disse che era giusto così, che il Sud era obbligato a offrire generosamente il suo oro ai signori liberatori. Per ringraziarli del dono della libertà.

Poi arrivò il Bastogi, banchiere livornese, e perfezionò il dissanguamento, drenando, a vantaggio del Nord, quello che restava della liquidità finanziaria di Napoli e di Palermo. I politici meridionali, quasi tutti, non aprirono bocca, nemmeno quando venne decretata l’unificazione monetaria nel segno della lira piemontese, e si stabilì che un ducato napoletano equivaleva a lire 4, 22. Tacquero quei tali, e fu un silenzio funesto, anche nel 1866, quando venne imposto il corso forzoso della moneta, per cui, di fatto, la lira non era convertibile in metallo prezioso. I “galantuomini“ napoletani che disponevano ancora di liquidità si spaventarono.

E sul loro spavento e sulla nascente mania dei “giochi“ finanziari costruì la propria fortuna Guglielmo Ruffo, principe di Scilla, fondatore della prima banca-usura e promotore di un fenomeno che in un anno mandò a culo per terra – mi si passi la volgarità – migliaia di risparmiatori, l’economia di una città già disastrata, e le illusioni di chi progettava di costruire anche a Napoli una cultura finanziaria moderna. Nell’autunno del ‘69 il principe incominciò a rastrellare capitali, che nel gennaio del ’70 ammontavano, secondo il prefetto di Napoli, a 19 milioni di lire: un fiume di danaro, che il Ruffo convogliò nelle sue casse promettendo “di restituire, dopo il corso di 20 giorni, in oro, il medesimo valore che era stato dato in biglietti di banca, senza porre a calcolo l’aggio che allora ascese fino al 18% “.

Per mesi il banchiere mantenne la promessa, pagando puntualmente gli interessi con i capitali “freschi“ che gli venivano affidati: il meccanismo è noto, gli “squali“ americani ed europei dei giorni nostri non hanno inventato niente di nuovo. Quella follia finanziaria fu di tali proporzioni che nel 1870 funzionavano a Napoli non meno di 60 banche-usura e il primato della Ruffo veniva attaccato dalla banca Costa, che aveva conquistato la fiducia e i soldi degli speculatori del Vesuviano e del Nolano. Ma sul finire del 1870 la bolla esplose. I giornali controllati dal Governo e dai banchieri, diciamo così, patentati incominciarono a diffondere chiacchiere, dubbi e sospetti, gli investitori, impauriti, chiesero la restituzione dei capitali, Ruffo non riuscì a fronteggiare l’emorragia, anche perché il mercato dell’olio e del grano, su cui egli aveva investito, entrò in travaglio proprio quando partì l’attacco della stampa.

Non a caso. Fu il panico. I succhi amari della catastrofe i napoletani li condensarono nell’espressione “ ‘a banca ‘ o sciulio “, in cui “ sciulio “ forse deforma Scilla, nome del feudo dei Ruffo e di un mitico voracissimo mostro, e forse richiama, sarcasticamente, il verbo sciuliare, scivolare. ‘A banca ‘o sciulio è il luogo in cui si puniscono gli stupidi che, spinti dall’avidità, fanno società con volpini truffatori.

Tra le vittime della banca Costa – con un danno di 2500 lire, 600 ducati – ci fu anche Agostino Sergio, napoletano trapiantato da tempo in Sant’ Anastasia, dove possedeva palazzi e “fondi“. Nel 1858 egli aveva chiesto il permesso di istituire una cappella con altare per la messa nella sua villa e il vicario foraneo don Raffaele Notaro gli aveva riconosciuto “condizione molto civile, vistosa possidenza, bontà di costumi, e religiosità sua, e dell’ intera famiglia.“. “Un galantuomo“, insomma, che meritava di ornare la sua masseria con una cappella consacrata. La “vistosa possidenza“ del Sergio derivava dall’intreccio di molti traffici: in particolare, egli trattava legname “cerquale“ e aveva investito una parte cospicua dei suoi ducati in un’ impresa che provvedeva alla “manutenzione“ delle strade.

Nel 1883 un Antonio Sergio condivide con i Riccardi di Cercola l’appalto per l’ ampliamento delle strade Nola – Marigliano e Nola – San Felice a Cancello, e per la sistemazione degli alvei di quel distretto. Nella notte tra il 28 e il 29 aprile 1861 la “casina“ di Agostino Sergio, “sita in Sant'Anastasia, al luogo detto Capodivilla”, viene saccheggiata, probabilmente dalla banda di Vincenzo Barone. Gli oggetti rubati, che il Regio Giudice di Sant'Anastasia R. De Filippo elenca nel suo accurato “notamento“, delineano l'immagine di un corredo ricco ed elegante:

materassi e cuscini di lana di Tunisi; 6 cuscini “vecchi di lana del regno, una coverta di vagramma oscura imbottita di bambagia; lenzuole di tela di lino; un mensale per 20 persone, di un pezzo, di doga fiorata con venti salvietti simili della fabbrica di Sarno, stimato per un valore di duc.18“ ; “un altro mensale per dodici, di un pezzo, di damasco forestiere a bouquets, con 13 salvietti simili, che costa duc.20; "dodici tovaglie di filo, tessuto nostrale, con le lettere A.S. alcune, e altre con P.A. iniziali “(duc.3,60); quattro camicie da uomo, due di tela e due di mussolina (duc.1,20). I ladri portano via anche 7 lumi di ottone,"uno antico a due braccia, cinque più moderni coi cappelletti, ed un altro per cucina a due becchi ", tutto per il valore di 8 ducati, mentre 20 ducati vengono stimati "sei dozzine di piatti di cretaglia inglese di prima qualità a disegno cinese, fondo bianco con rosoni rossi e giro graticolato nero della fabbrica di New Stone, col numero di fabbrica 3122, e cioè 24 da zuppa, 18 da salvietti, 18 per frutta,12 per dessert".

Grana 80 vale un mortaio di bronzo con "pistello", 10 ducati 8 tazze "di porcellana dorate e miniate con figure di animali diversi", 90 grane i tre ferri "da stirare", mentre per le 5 casseruole, i 4 "ruoti", le 2 "pesciere", la "cocoma" e la caffettiera viene definita una stima approssimativa, poiché se ne ignora il peso. Meriterebbe un libro la poesia di questi oggetti, anche perché i loro proprietari costruirono, con ville, strade e palazzi, l’aspetto del paesaggio in cui ci specchiamo ogni momento.
(Quadro di J.A.D. Ingres, del 1832: "Louis François Bertin")

Autore: Carmine Cimmino
 

giovedì 27 settembre 2012

La doppia vita di Alfredo Pizzoni, banchiere e partigiano


Negli anni di guerra 1944-45 gli angloamericani finanziavano il CLNAI attraverso istituti di credito italiani

di: Gianfranco La Vizzera

Lo storico Lucio Villari, in un’intervista rilasciata anni fa al Corriere della Sera, rievocando il ruolo svolto da talune forze occulte nella caduta del fascismo, rammentò quanto affermato nel corso di un colloquio dal banchiere Raffaele Mattioli: “Il colpo di stato del 25 luglio 1943 l’abbiamo gestito a Milano, alla Banca Commerciale”.
L’Istituto di credito, fondato nel 1894 principalmente da elementi di origini israelite, era strettamente legato all’ambiente politico liberale.
Al sorgere del fascismo, i vertici della banca dapprima si mostrarono ostili verso il movimento di Benito Mussolini, ma in seguito al fallimento di Ansaldo, Ilva e Banca di Sconto, e avendo la Commerciale rilevato una cospicua quota delle partecipazioni industriali di tale banca, mutarono radicalmente atteggiamento, identificando i nuovi interessi nell’industria con quelli coincidenti dei magnati della metallurgia che, in alternativa alla sinistra, e con rassegnazione, si videro costretti a fornire ai fascisti i fondi indispensabili alla Marcia su Roma.
E le medesime forze che contribuirono economicamente all’ascesa al potere del fascismo, il 25 luglio 1943, secondo la citata dichiarazione del banchiere Mattioli, ne determinarono pure il crollo e continuarono a ordire la trama intessuta da tempo anche dopo il cosiddetto “armistizio” dell’8 settembre. Nell’autunno di quell’anno, infatti, a presiedere il CLNAI, Comitato di liberazione nazionale alta Italia, venne chiamato Alfredo Pizzoni, estraneo alla sfera politica, ma esponente del mondo finanziario, il quale ricopriva cariche dirigenziali nel Credito Italiano (l’odierna UniCredit Banca). Pizzoni, nel periodo travagliato della guerra civile, si occupò appunto di reperire i fondi occorrenti al sostentamento delle bande partigiane.
E per risolvere i problemi di natura economica relativi al mantenimento delle formazioni, il CLN milanese costituì un comitato finanziario, composto dall’industriale Enrico Falk, dal funzionario del Credito Italiano Luigi Casagrande e dall’avvocato socialista Roberto Veratti. I tre membri del comitato cominciarono subito il lavoro, riunendosi ogni sabato a Milano, in un salottino della sede centrale della banca, situata in Piazza Cordusio. Cercarono finanziamenti soprattutto fra gli industriali ritenuti “amici”, e fra quanti si mostravano desiderosi di acquisire meriti presso i probabili vincitori del conflitto. Inizialmente il comitato riuscì a raccogliere 10 milioni di lire, considerevole cifra per l’epoca, poi giunse una somma più ingente, circa 50 milioni, proveniente dal CLN di Torino, che aveva avuto accesso ai forzieri della IV Armata dell’Esercito italiano, la quale al momento della resa senza condizioni dell’8 settembre si trovava nella Francia meridionale. Fondamentale fu l’appoggio che prestarono a Pizzoni due alti dirigenti del Credito Italiano, i consiglieri delegati Mino Brughera e Giovanni Stringher. I quali, non solo diedero adeguata copertura a Pizzoni consentendogli di comparire fra i dipendenti della banca, pur non svolgendo attività lavorativa regolare, ma gli assicurarono anche il necessario supporto logistico e finanziario per le complesse operazioni finanziarie che ben presto Alfredo Pizzoni portò a compimento nella sua infaticabile ricerca di fondi. Inoltre, Brughera e Stringher accordarono al “banchiere della resistenza” pure un credito di 35 milioni di lire. Il “prestito” di una rilevante somma da parte della banca a un privato, però, poteva suscitare sospetti e quindi, per far pervenire al CLNAI il denaro erogato, senza lasciarne traccia nella contabilità, vennero utilizzate due società compiacenti, le acciaierie Falk e la Edison. La banca concesse dei crediti in conto corrente, e le due società firmarono regolari ricevute senza ritirare il denaro che, invece, sarebbe andato direttamente a Pizzoni. E un’analoga operazione finanziaria venne attuata con la Banca Commerciale (divenuta in anni recenti, in seguito a fusioni con altri istituti di credito, Banca Intesa e successivamente Intesa-San Paolo).
Oltre al consistente sostegno dei due colossi bancari, Alfredo Pizzoni trovò un concreto aiuto alla Banca d’Italia, e specificatamente nel dottor Luigi D’Alessandro, direttore generale del Tesoro della RSI, che aveva manifestato disponibilità di collaborazione con la resistenza. D’Alessandro, infatti, travalicando i poteri a lui attribuiti, si rivolse alle autorità della Banca d’Italia affinché fossero assegnati al Credito Italiano e alla Banca Commerciale alcune decine di milioni di biglietti di banca da mille e da cinquecento lire in più del previsto, motivando la richiesta con le paghe da elargire agli operai. In realtà, quei denari ottenuti da D’Alessandro servirono a finanziare le attività dei partigiani.
Un’ulteriore fonte di finanziamento venne a Pizzoni dagli Alleati. La sua designazione a capo di una delegazione che avrebbe dovuto recarsi in Svizzera per incontrare i rappresentanti degli angloamericani, consentì al presidente del CLNAI di instaurare un contatto privilegiato con gli Alleati che avrebbe avuto ricadute positive su tutto il movimento partigiano. Il 29 marzo 1944, Pizzoni giunse avventurosamente nella Confederazione elvetica. L’esito della sua missione fu anzitutto nel veder consolidato l’accordo finanziario stabilito in precedenza da un inviato di Ferruccio Parri, un certo Alberto Damiani, che prevedeva lo stanziamento, da parte degli Alleati, di una sovvenzione mensile di 10 milioni di lire e, in secondo luogo, nel miglioramento del clima dei rapporti intercorsi con gli angloamericani, che nutrivano la massima fiducia in Alfredo Pizzoni, uomo qualificato e rappresentativo del potere finanziario.
Nel luglio del 1944, Pizzoni, attraverso un suo collaboratore operante in Svizzera, Luigi Casagrande, iniziò a esercitare forti pressioni sugli Alleati richiedendo finanziamenti sempre più ragguardevoli, necessari alle accresciute esigenze delle formazioni partigiane che, con il progredire del fronte verso il Nord-Italia e l’approssimarsi della vittoria angloamericana, vedevano ingrossarsi sempre più le proprie fila. I primi interlocutori del CLNAI non furono generali o uomini politici dello schieramento alleato, bensì i servizi segreti americani e in principal modo inglesi, rispettivamente l’OSS americano (l’attuale CIA) e il SOE inglese che, incalzati da Casagrande, versarono entrambi sostanziosi fondi al CLNAI, per una somma complessiva equivalente a 100 milioni di lire del tempo.
Il trasferimento del denaro, essendo impraticabile il mezzo dei corrieri clandestini, a causa dei sempre più pressanti controlli alla frontiera, avvenne da parte britannica coinvolgendo la filiale ginevrina di una banca inglese, la Lloyds & National Provincial Foreign Bank. L’istituto di credito ricevette istruzioni in merito da Londra, rilasciando una lettera di garanzia relativa ai 50 milioni versati dal SOE. Il documento, in favore dell’ingegner Giorgio Valerio, direttore generale della società Edison, impegnava la banca ad accreditare a Valerio la somma di denaro alla cessazione delle ostilità.
Il direttore generale della Edison, ricevuto l’importante documento, lo consegnò al presidente della società, ingegner Piero Ferrerio, il quale versò tale somma al capo del CLNAI. Gli americani, invece, fornirono direttamente al movimento partigiano, in Italia, l’importo di 50 milioni di lire in valuta svizzera, che venne cambiata a Milano da Pizzoni.
Intanto, il flusso di denaro versato dagli Alleati ai partigiani si intensificò. E il 3 novembre 1944, a Bema giunse l’autorizzazione britannica di inviare altri 50 milioni agli italiani della resistenza e, a questa somma, si aggiunsero 50 milioni versati dagli americani. Pure la nuova quota di denaro concessa dagli inglesi arrivò col sistema delle garanzie bancarie. Ma in questa occasione l’importo venne così suddiviso: 30 milioni tramite l’ingegner Giorgio Valerio della Edison e i restanti 20 milioni al conte Enrico Marone, un industriale vinicolo piemontese (gruppo Cinzano). E gli americani, ancora una volta, consegnarono il denaro in valuta straniera, costringendo Pizzoni a ricorrere a complicate operazioni di cambio.
L’incessante opera di Alfredo Pizzoni, tesa a ottenere sempre più congrui finanziamenti per il movimento resistenziale, si concretò con l’accordo ratificato con gli Alleati il 7 dicembre 1944 a Roma, in una riunione tenuta nella sala reale del Grand Hotel.
L’incontro vide la partecipazione del rappresentante degli Alleati, il generale inglese Henry Maitland Wilson, comandante supremo del teatro Mediterraneo, e dei seguenti membri del CLN: Alfredo Pizzoni, Giancarlo Pajetta, Edgardo Sogno e Ferruccio Parri. L’intesa raggiunta contemplava da parte degli Alleati lo stanziamento mensile ai partigiani di 160 milioni di lire, somma di rilievo per quei tempi se rapportata ai valori d’oggi. L’entità del contributo finanziario era stato proposto dagli Alleati nella misura di 100 milioni di lire, ma in conseguenza alle insistenze di Pizzoni venne innalzato a 160 milioni. La sottoscrizione dell’accordo, fra l’altro, imponeva al CLN l’accettazione di una piena subordinazione militare alle direttive impartite dai comandi angloamericani.
Stabilito l’importo da corrispondere ogni mese, si pose il problema di far giungere materialmente i soldi alle formazioni partigiane oltre le linee del fronte. E ancora il Credito Italiano e la Banca Commerciale furono determinanti per portare a termine l’operazione. Escluse varie soluzioni che presentavano notevoli difficoltà d’esecuzione, grazie al suggerimento del solito Pizzoni, che si prestò quale garante dell’iniziativa, si decise di dividere la somma in due parti uguali e di consegnarla a Carlo Orsi (vicepresidente del Credito Italiano), e a Max Mainoni (capo dell’ufficio di rappresentanza della Banca Commerciale a Roma). Di tale somma, 100 milioni di lire (50 milioni per ciascuna banca) sarebbero stati accreditati dalle sedi di Roma alle filiali milanesi dei due istituti di credito e qui, poi, Pizzoni avrebbe provveduto a ritirarli. I restanti 60 milioni di lire, spettanti al CLN piemontese, sarebbero stati versati mensilmente alla Banca Mobiliare Piemontese, succursale di Torino, presso cui i capi piemontesi della resistenza li avrebbero direttamente incassati. Il Credito Italiano, poiché i fondi stanziati dagli Alleati figuravano nella regolare contabilità della banca, escogitò un complesso sistema per evitare l’individuazione dell’effettivo destinatario della somma. L’istituto bancario avrebbe predisposto un finto trasferimento di contante dalla sede milanese a filiali collocate in prossimità della linea del fronte, dove sarebbero stati pressoché impossibili eventuali controlli effettuati dai tedeschi o dalle autorità della Repubblica Sociale. L’operazione fu resa verosimile dall’invio di convogli, con relativa scorta armata. I pacchi, però, anziché banconote contenevano libri, mentre i soldi vennero nel frattempo distribuiti, a Milano, ai partigiani.
Il 27 aprile 1945 il Comitato di liberazione nazionale nominò Rodolfo Morandi nuovo capo del CLNAI. La guerra era finita e Pizzoni, non inserito nei giochi politici, e sgradito soprattutto a Sandro Pertini, nel nuovo contesto era divenuto scomodo per la sua appartenenza al mondo finanziario, e venne dunque sostituito perché la dirigenza della nuova partitocrazia che presto sarebbe assurta al potere, non poteva tollerare che un personaggio estraneo alla politica, ma con influenti entrature nell’alta finanza, assumesse cariche istituzionali. E l’oleografia storiografica resistenziale, che ha tramandato l’immagine di una costante precarietà economica del movimento partigiano, non accoglieva certo con favore che emergesse l’incondizionato sostegno accordato dalle banche alla resistenza. E dovevano rimanere nei recessi impenetrabili della Storia pure i massicci finanziamenti in denaro pervenuti dagli angloamericani per un totale di 1 miliardo e 300 milioni di lire dell’epoca, e documentati nei rendiconti in possesso di Pizzoni. E se prendiamo come riferimento e base di calcolo gli indici ISTAT, il denaro erogato dagli Alleati ammonterebbe complessivamente a circa 77 milioni di euro attuali, ma la cifra va considerata sicuramente approssimata per difetto.
Così Alfredo Pizzoni, conclusa l’esperienza partigiana, tornò nell’ombra. Nell’estate del 1945, riprese la sua attività in banca. E il 6 agosto di quell’anno, in virtù delle benemerenze resistenziali, il consiglio d’amministrazione dell’Istituto lo nominò presidente del Credito Italiano. Ma, come ebbe a dire l’eminente professor Renzo De Felice: “Per la vulgata, Pizzoni non è mai esistito e forse non esisterà mai”.

http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=16979

domenica 23 settembre 2012

FASCISMO CONQUISTA PROLETARIA


di Filippo Giannini

Il titolo è ricavato da un volume di prossima edizione: autori sono Martina Mussolini (nipote del Duce) e Andrea Piazzesi.

Questo articolo è dedicato a tutti quei lavoratori (operai, tecnici o impiegati) che hanno perso il lavoro o che sono in pericolo di perderlo, come i minatori in Sardegna, gli operai a Taranto, e attingendo al pensiero di Alessandro Mezzano, posiamo scrivere: <Se in Italia ci fosse ancora la Socializzazione delle aziende, il caso FIAT non esisterebbe) ecc.

Come primo incitamento: non permettete di far chiudere le fabbriche o qualsiasi posto di lavoro. Pretendete di socializzare le aziende dove prestate la vostra opera. Lo stesso proprietario può entrare nel contesto dell’azienda socializzata, così come è stato fatto in Germania con la Mitbestimmung, che per ironia della storia l’idea della partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa, aspramente avversata dagli alti esponenti tedeschi, attecchì in Italia, purtroppo quando la guerra era ormai alla fine e i liberatori ci imposero il miraggio della privatizzazione, il mito dell’economia di mercato, strumenti per riaffermare l’egemonia capitalistica sull’economia e sulla politica. Anche l’Argentina che agli inizi del 2000 andò in default per 112 miliardi di dollari, che causò, similmente come sta accadendo in Italia, il licenziamento di migliaia di lavoratori. Fortuna volle che Qualcunoadottasse le idee mussoliniane e mettesse in atto, nelle aziende in crisi, la SOCIALIZZAZIONE, e la ripresa è stata tanto rapida che oggi, addirittura la Presidente  della Repubblica Argentina Cristina Kirckner può lanciare questo messaggio: <Chi vuole operare, imprendere, creare lavoro e ricchezza, è benvenuto in Argentina (…)>. L’esempio dell’Argentina, con grande scorno degli Usa, è seguita dal Venezuela che ha iniziato a socializzare le imprese del legno. L’esempio dell’Argentina e del Venezuela è ripreso da altri Paesi dell’America meridionale.

   Ed ora facciamo un po’ di Storia.

   Lo scorso anno preparai un articolo dal titolo: “Ancora, ancora, e ancora griderò: LAVORATORE, SEI STATO FREGATO!”; ed ecco perché: la socializzazione, prevista nei 18 punti del Manifesto di Verona, nella Rsi, fu un’altra pietra miliare della politica sociale del Fascismo. Pietra miliare derisa, disconosciuta e condannata dai politicastridi oggi, e tu lavoratore non devi continuare a farti fregare. La tua salvezza è ancora e solo nel pensiero mussoliniano, checché vogliano sostenere gli incapaci, i ladroni, i furfanti di questa repubblica, impostaci dai liberatori. Il punto 9  del Manifestoaffermava: <Base della Repubblica Sociale e suo oggetto primario è il lavoro manuale, tecnico, intellettuale in ogni sua manifestazione>. Forse, nel caos di oggi, l’articolo più necessario è il 12, che recita: <In ogni azienda industriale, agricola, privata, parastatale, statale le rappresentanze dei tecnici e degli operai coopereranno – attraverso una conoscenza diretta della gestione – all’equa fissazione dei salari, nonché all’equa ripartizione degli utili, fra il fondo di riserva, il frutto del capitale azionario e la partecipazione agli utili stessi da parte dei lavoratori. In alcune imprese ciò potrà avvenire con una estensione delle prerogative delle attuali commissioni di fabbrica; in altre sostituendo i Consigli di amministrazione con Consigli di gestione composti da tecnici e da operai con un rappresentante dello Stato, in altre in forma di cooperative parasindacali>. Quindi, tu lavoratore che stai per perdere il lavoro, con la politica sociale mussoliniana, saresti diventato partecipe anche alle decisioni aziendali, cioè saresti stato tu a decidere se l’azienda doveva essere chiusa oppure no.

Per i lavoratori che sono sul punto di essere sfrattati, ricordo l’articolo 15: <Quello della casa non è soltanto un diritto di proprietà, è un diritto alla proprietà (…)>. E Mussolini anche su questo punto non scherzava; ricordate la IACP (istituto Autonomo Case Popolari) che vide la luce nell’infausto Ventennio? Quanti appartamenti vennero costruiti e quanti ceduti alla classe proletaria? L’Italia proletaria e fascista non fu un’espressione demagogica, ma la sublimazione del pensiero e della vita che sollevò dalla palude una massa di uomini e li avviò verso la realizzazione sociale, morale, civile (da uno scritto di Gian Carlo De Martini).

  Pur essendo d’accordo con quanto scritto da Gaetano Rasi nel sostenere che l’economia corporativa, che aveva modernizzato l’Italia e aveva avviato, intorno al 1935, la seconda rivoluzione industriale italiana, che fu la base del cosiddetto miracolo economico del decennio che va dal 1953 al 1963, questo nuovo miracolo potrebbe avvenire anche oggi, a condizione che le fabbriche non chiudano, che il capitale rappresentato dall’esperienza e dalle capacità dei lavoratori non venga disperso.

    Con queste parole il professore di Scienze Politiche presso l’Università di Gerusalemme, col saggio “La Terza Via Fascista” (Mulino1990), definisce lo Stato corporativo: <Il Fascismo fu una dottrina politica, un fenomeno globale, culturale, che riuscì a trovare soluzioni originali ad alcune grandi questioni, che dominarono i primi anni del secolo>. L’Autore continua a spiegare: <Le ragioni dell’attrazione esercitata dal Fascismo su eminenti uomini della cultura europea (e aggiungerei: non solo europea, nda), molti dei quali trovarono in esso la soluzione dei problemi relativi al destino della civiltà occidentale>. Sono proprio le soluzioni sociali ad attrarre maggiormente il giudizio del professore, ebreo, di Scienze Politiche: <Il corporativismo riuscì a dare la sensazione a larghi strati della popolazione che la vita fosse cambiata, che si fossero dischiuse delle possibilità completamente nuove di mobilità verso l’alto e di partecipazione>.

   Lo Stato Corporativo era la strada che portava alla Socializzazione. Da tutto cio’ si evince il motivo per il quale i governi che seguirono nel dopoguerra, sotto il controllo della grande finanza internazionale, per evitare un libero confronto, sono stati costretti a creare una cortina di menzogne e contestualmente varare leggi antidemocratiche e liberticide, quali la “Legge  Scelba”, “La Legge Reale”, e la “Legge Mancino”>.

    Nell’ultima intervista rilasciata da Mussolini al giornalista Gian Giacomo Cabella il 22 aprile 1945 – quindi a poche ore dal suo assassinio – fra l’altro, alla domanda del perché della guerra, ebbe a dire che <le nostre idee hanno spaventato il mondo>, ovviamente spaventato il mondo dell’alta finanza; infatti la nascita dello Stato corporativo rappresentò il mezzo per superare i limiti del cosiddetto Stato liberale e l’incubo dello Stato sovietico.

   Il Diritto Corporativo tendeva a porre l’Uomo al centro della società, postulando principi dei quali citiamo alcuni dei più caratterizzanti:

1)      ridimensionamento dello strapotere dei padroni attraverso la partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa,

2)      partecipazione dei lavoratoti agli utili dell’impresa;

3)      partecipazione dei lavoratori alle scelte decisionali, ONDE EVITARE CHIUSURE DI AZIENDE E LICENZIAMENTI IMPROVVISI (quindi altro che art. 18! nda) SENZA CHE NE SIANO INFORMATI PER TEMPO I DIPENDENTI, i quali sono interessati a trovare altre soluzioni atte a non perdere il posto di lavoro;

4)      intervento dello Stato attraverso suoi funzionari, immessi nei Consigli di Amministrazione, allorquando le imprese assumono interesse nazionale, a maggiore difesa dei lavoratori,

5)      diritto alla proprietà in funzione sociale, cioè lotta alle concentrazioni immobiliari e diritto per ogni cittadino, in quanto lavoratore, alla proprietà della sua abitazione;

6)      diritto alla iniziativa privata in quanto molla di ogni progresso sociale contro l’appiattimento collettivista e le concentrazioni capitaliste;

7)      edificazione di una giustizia sociale che prelevi il di più del reddito ai ricchi e lo distribuisca fra le classi più povere attraverso la Previdenza Sociale, l’assistenza gratuita alla maternità e all’infanzia, le colonie marine e montane per bambini poveri, l’assistenza agli anziani, il dopolavoro per i lavoratori, i treni popolari, e via decendo;

8)      eliminazione dei conflitti sociali attraverso la creazione di un apposito Tribunale del Lavoro in base al principio che se un cittadino non può farsi giustizia  da sé, altrettanto deve valere per i conflitti sociali; evitare scioperi e serrate che tanti danni provocano alle parti in causa ed alla collettività nazionale;

9)      abolizione dei sindacati di classe, ormai ridotti a cinghie di trasmissione dei partiti che li controllano, e creazione dei sindacati di categoria economica con conseguente modifica del Parlamento in una Assemblea composta da membri eletti attraverso le singole Confederazioni di categoria dei datori di lavoro e dei lavoratori;

   Questi enunciati (ma non solo questi) che spiegano chiaramente i danni che avrebbero creato alla grande finanza, risalgono ai primi degli anni ’30, non sono che il logico sviluppo di quelli formulati nel 1919 e che ritroveremo espressi, ancor più lapidariamente, nel “Manifesto di Verona”.

   L’11 marzo 1945, il fondatore del Partito Comunista d’Italia (P.C.d’I), Nicola Bombacci, parlando al Teatro Universale, di fronte alle Commissioni interne degli stabilimenti industriali, fra l’altro affermò: <Il socialismo non lo farà Stalin, ma lo farà Mussolini che è socialista>. E il 13 marzo successivo, parlando allo stabilimento industriale dell’Ansaldo, di fronte a più di mille operai disse: <Fratelli di fede e di lotta, guardiamoci in viso e parliamo pure liberamente: voi vi chiedete se io sia lo stesso agitatore socialista, comunista, amico di Lenin, di vent’anni fa? Sissignori, sono sempre lo stesso, perché io non ho rinnegato i miei ideali per i quali ho lottato e per i quali, se Dio mi concederà di vivere ancora, lotterò sempre. Ma se mi trovo nelle file di coloro che militano nella Repubblica Sociale Italiana, è perché ho veduto che questa volta si fa sul serio e che si è veramente decisi  a rivendicare i diritti degli operai>.

   Quale era la strada intrapresa da Nicola Bombacci? Per giungere allo Stato Organico, alla Socializzazione dello Stato, il passaggio era (ed ancora oggi dovrebbe essere) lo Stato Corporativo.

Michael Shanks, economista di vasta esperienza internazionale, già direttore della Commissione europea degli affari sociali e presidente  del Consiglio nazionale dei consumi, nel suo libro What is wrong with the modern world? (Cosa c’è di sbagliato nel mondo moderno?) indica lo Stato Corporativo di Mussolini, di fronte alla persistente crisi del liberismo e del marxismo, come l’unico modello per uscire dalle contrapposizioni vigenti nella Democrazia Parlamentare. Non c’è alternativa, conclude l’economista inglese: o lo Stato Corporativo o lo sfascio dello Stato. Ed oggi siamo sfascio dello Stato!

   A te lavoratore, la strada fu già tracciata più di ottanta anni fa, poi subentrò l’oro, Qualcuno a questo contrappose il sangue. NON TI FAR FREGARE!

   Concludiamo con uno stralcio del discorso di Benito Mussolini tenuto a Milano il 6 ottobre 1934 (riportato nel volume all’inizio citato): <(…) ho detto che l’obiettivo del regime nel campo economico è la realizzazione di una più alta giustizia sociale per tutto il popolo italiano. Che cosa significa? Significa il lavoro garantito, il salario equo, la casa decorosa, significa la possibilità di evolversi e di migliorare incessantemente). E la Storia ha dimostrato che questo avvenne, ma nel tempo del “male assoluto”. “Male assoluto” fu certamente per il grande supercapitale e per gli attuali ladroni di regime!

 

Michael di Goebbels: la recensione

Volevamo attendere l’uscita della rivista che – per causa indipendenti dalla nostra volontà – è slittata di qualche giorno rispetto alla data prevista. Poiché il libro è stato reso disponibile esattamente una settimana fa, abbiamo deciso di pubblicare qui la recensione.
 
RECENSIONE di MICHAEL
 
È il 1929 quando la Franz Eher Verlag pubblica Michael – Diario di un destino tedesco (titolo originale: Michael – Ein deutsches Schicksal in Tagebuchblättern), il romanzo scritto da Joseph Goebbels. In quell’anno, il futuro ministro del Reich è già responsabile della propaganda del Partito, è deputato al Reichstag (dove è stato eletto nel 1928), è Gauleiter della “rossa” Berlino (carica che detiene dal 1926) ed è considerato uno dei più brillanti ed efficaci oratori dello NSDAP.
Unico romanzo di Goebbels – all’interno di una ricca produzione letteraria, fatta di diari, discorsi politici, articoli di giornale e persino una pièce teatrale come Der Wanderer (Il viaggiatore) – Michael ha avuto una genesi alquanto lunga, che abbraccia un lasso di tempo di una decina di anni. Prima di giungere alla versione definitiva del 1929, infatti, il romanzo ha conosciuto due altre stesure, rimaste però solo sotto forma di manoscritto: Michael Voormanns Jugendjahre (“Gli anni della gioventù di Michael Voormann”), scritto nel 1919, quando il futuro ministro della Propaganda è ancora uno studente universitario, e Michael Voormann. Ein Menschenschicksal in Tagebuchblättern (“Michael Voormann. Il diario del destino di un uomo”), del 1923, l’anno successivo alla laurea, conseguita ad Heidelberg.
Michael narra la storia di un giovane soldato tedesco che torna in patria alla fine del Primo conflitto mondiale, e si ritrova a fare i conti con la Germania sconfitta e umiliata di Weimar. Inizialmente s’iscrive all’università, dove incontra l’amore per la studentessa Hertha Holk, e dove comincia a sviluppare il suo pensiero, che si alterna tra lo strazio di vedere la devastazione fisica e morale della sua terra e il travolgente desiderio di aiutare il Paese e il popolo a risollevarsi. Un desiderio che è permeato di ideali socialisti e che lo spingerà ad abbandonare gli studi per trasformarsi in lavoratore. Michael decide quindi di andare in miniera, per dedicare tutto se stesso al sogno di risvegliare il popolo, poiché soltato un lavoratore può parlare in maniera credibile ad altri lavoratori. Qui il suo destino si compirà. Inesorabilmente. Non prima però di avere incontrato – a Monaco, durante un comizio – l’uomo destinato a cambiargli la vita e che vedrà come faro e guida della nuova Germania e dell’Uomo nuovo: Adolf Hitler.
Pieno di fervore e d’idealismo, ma anche costellato di momenti di travolgente romanticismo, questo romanzo è inusuale rispetto al Goebbels dei diari e dei discorsi politici. E forse qualcuno rimarrà stupito, iniziando la lettura di Michael, sentendosi avvolto dal pathos e dagli slanci romantici del protagonista. Un clima che rimanda agli studi universitari di Goebbels, che nel 1922 si laureò con una tesi su Wilhelm von Schütz (Wilhelm, von Schütz. En Beitrag zur Geschichte des Dramas der Romantischen Schule, università di Heidelberg, 1922, ndr), un drammaturgo del Romanticismo tedesco. Ma poi, addentrandosi nella lettura – e leggendo di questo giovane idealista disposto a morire per il proprio Paese, della sua lotta per risvegliare il popolo e vederlo felice e unito; questo giovane studente romantico pieno di ardente passione, convinto dell’importanza di diventare prima soldato e poi lavoratore per servire una causa più grande – ecco apparire la reale natura di Michael: davanti a noi si staglia sempre più preciso e netto un romanzo politico. Che si dipana seguendo una sorta di percorso iniziatico, che porta il protagonista da soldato a studente, da studente a lavoratore. Come l’autore scrive efficacemente: «Sono i soldati, gli studenti e i lavoratori che costruiranno il nuovo Reich. Io sono stato soldato, ora sono uno studente e voglio diventare lavoratore. È necessario che attraversi tutti e tre questi stadi per mostrare la via da seguire. Mi è stato negato il diritto alla parola, ora per me è venuto il momento di agire. Ognuno al proprio posto».
L’apogeo di questa scelta è raggiunto con la decisione di diventare minatore. Una discesa agli inferi che, se da un lato ricorda il viaggio di Dante nella Divina Commedia – dall’Inferno su su verso il Paradiso –, dall’altro rammenta la discesa del Cristo dai cieli sulla terra per redimere l’umanità. Ecco allora Michael che scende nelle viscere della terra – umile tra i più umili, diseredato tra i diseredati – e si fa “apostolo” tra quegli umili e diseredati per mostrar loro la Germania del futuro. Con l’obiettivo di risalire poi con tutti loro verso la luce, lasciando quella tenebra. Che non è solo materiale ma è anche spirituale. Senza esitare neppure davanti all’estremo atto eroico: arrivare – come una sorta di Cristo socialista – al totale sacrificio di sé per il risveglio del popolo, anche a costo della vita. Un «percorso iniziato» al termine del quale sta la costruzione del nuovo Tedesco, dell’Uomo nuovo: «La Guerra mi ha svegliato da un sonno profondo. Mi ha riportato alla coscienza. Lo Spirito mi tormentava e mi spingeva verso la catastrofe, mi ha mostrato le vette e gli abissi. Il Lavoro mi ha liberato. Mi ha reso orgoglioso e libero. E ora, a partire da questi tre elementi, mi sono dato una nuova forma. Un nuovo uomo. L’Uomo tedesco, consapevole, fiero e libero, al quale appartiene il domani! (…) Un giovane Tedesco! Un combattente che attende pazientemente la propria ora! Tutti noi Tedeschi dobbiamo fonderci insieme! Attorno agli ultimi valori che ci restano! Se riusciremo a proporre agli altri popoli il prototipo di un nuovo Tedesco cui potersi ispirare, allora avremo dato forma al prossimo millennio».
Romanzo politico, dunque, ma anche romanzo in gran parte autobiografico, in cui ritroviamo non solo alcuni capisaldi ideologici di Joseph Goebbels, ma anche avvenimenti e protagonisti della sua vita. C’è il suo primo grande amore: Anka Stalherm, la studentessa appartenente a una famiglia alto-borghese della Renania che il futuro ministro conobbe sui banchi dell’università di Friburgo e che nel romanzo diventa la bella Hertha Holk di cui s’innamora Michael-Goebbels. E c’è Richard Flisges, il grande amico di Goebbels fin dai tempi dell’adoloscenza, colui che – diventato anarchico al ritorno dal fronte – lo avvicinò ai testi di Marx e di Engels, e allo spirito antiborghese. Flisges diventa nel romanzo lo studente russo Ivan Wienurovskij, prima amico e poi antagonista di Michael, che avrà con lui vari incontri-scontri parlando di Russia e socialismo. E Flisges rappresenta anche una parte dello stesso Michael, quella parte in cui non c’è corrispondenza autobiografica tra Goebbels e il protagonista del suo romanzo. Michael, infatti, è stato al fronte ed è stato ferito, come Flisges ma non come Goebbels. E Michael diventerà minatore e per un incidente in miniera perderà la vita, come accadde a Flisges. Che il 19 luglio del 1923 morì nella miniera bavarese di Schliersee. Tant’è che Goebbels scelse di dedicare il romanzo proprio al suo grande amico: «Questo libro è dedicato alla memoria del mio amico Richard Flisges, che il 19 luglio 1923, in una miniera vicino a Schliersee, andò incontro alla dura morte da valoroso soldato».
In Michael ritroviamo il rapporto di Goebbels con la religione, con quel Cristo che per lui non è l’uomo della croce e dei deserti ma è il combattente che scaccia i mercanti dal tempio; e per il quale nel romanzo scrive il dramma in cinque atti Gesù Cristo – Fantasia poetica (richiamando il Judas Iscariot, la tragedia in cinque atti d’ispirazione religiosa sulla Giuda Iscariota che Goebbels scrisse, durante il periodo universitario, nel 1918).
E c’è il socialismo. Un socialismo ferocemente antiborghese, antiebraico e antimarxista, che si scaglia contro le tre “forze” che hanno portato la Germania alla rovina di Weimar. A quello strazio in cui la gioventù non ha un futuro e il Paese è stato consegnato ai vincitori. («Borghese: è un terribile insulto. Ciò che sta cadendo, deve essere demolito. Siamo tutti soldati della rivoluzione del lavoro. Vogliamo la vittoria del lavoratore sul denaro»…. «Il denaro governa il mondo! Un’espressione terribile che si è concretizzata. Oggi stiamo andando in rovina proprio perché è diventata realtà. Il denaro – l’Ebreo: la cosa e la persona che formano un tutt’uno»… «Distribuisci i tuoi beni ai poveri: Cristo. La proprietà è furto, a mano che non si tratti della mia: Marx»). Un socialismo in cui c’è però anche tanto amore per la patria, per l’adorata Germania. E per quei lavoratori, per quel popolo tedesco, cui Michael sceglie di votarsi e sacrificarsi.
E, ovviamente, c’è Adolf Hitler, che nel libro non è mai citato per nome, ma permea di sé tutta la terza ed ultima parte del volume. L’incontro romanzesco rimanda a quello reale, avvenuto nel giugno del 1922, quando Joseph Goebbels, immerso tra il pubblico al circo Krone di Monaco, vide parlare per la prima volta Hitler. Per Michael-Goebbels, il Führer è «il profeta», colui che porterà alla salvezza la Germania. E che farà risvegliare il popolo, ridandogli forza e coesione, facendolo diventare una vera comunità popolare. È una vera folgorazione. Indimenticabile, la descrizione dell’incontro Michael-Hitler, che si chiude con queste parole: «Resto lì a lungo, gli occhi fissi sul volto di quell’uomo unico. Non è un oratore. È un profeta! Il sudore gli scorre a rivoli sulla fronte. Sul suo pallido volto, ardono due occhi che lanciano saette. I suoi pugni si chiudono. Come nel giudizio universale, ogni parola, ogni frase risuona come fosse un fragoroso tuono. Non so più ciò che faccio. È come se fossi impazzito. Grido “Hurrà!”! Nessuno se ne stupisce. Dal palco, l’uomo mi guarda per un istante. I suoi occhi blu come stelle mi colpiscono come una fiamma. Ecco l’ordine! In quel preciso momento, rinasco».
Fin dalla sua prima pubblicazione, Michael fu un libro controverso. Talvolta forse eccessivamente lodato, fu più spesso criticato eccessivamente, subendo attacchi feroci dalla stampa che sosteneva la coalizione di Weimar. «Alla prima lettura viene da ridere, alla seconda fa vomitare», scrisse per esempio il critico ebreo Heinz Pol sulla Weltbühne del 27 gennaio 1931. Ma la sua lettura resta oggi fondamentale per cogliere appieno quell’atmosfera del primo dopoguerra tedesco in cui nacque e si sviluppò il nazionalsocialismo, e per afferrare il pensiero, i sentimenti e le capacità di coinvolgimento delle masse di quegli uomini che furono i fautori e gli artefici di quel movimento – profondamente socialista e nazionalista – che ha portato alla nascita del Terzo Reich.
Dopo la prima uscita, Michael venne rieditato ripetutamente fino al 1942 e fu proposto anche per il Premio Kleist, il più prestigioso premio letterario della Repubblica di Weimar. La consacrazione definitiva giunse allorché, nel 1937, venne realizzato un compendio del romanzo, intitolato Michaels Weg zum Volk (“La via di Michael verso il popolo”), che fu introdotto come libro di testo nelle scuole secondarie tedesche.
Monica Mainardi

venerdì 21 settembre 2012

VERONA 21 SETTEMBRE 2012 CEFALONIA COMMEMORATA COL 'VIZIETTO'


Ricevo e pubblico volentieri.

di Massimo Filippini


Il 21 settembre saranno commemorati a Verona -come avviene da anni- i Caduti della Div. 'Acqui' a Cefalonia tra i quali ci fu mio Padre e ciò dovrebbe riempire il mio animo di legittimo orgoglio ma al contrario tale giorno è causa per me di indignazione verso i celebratori Civili e Militari i quali - sordi a qualsiasi richiamo – continuano a mettersi sotto i piedi la storia della tragica vicenda reiterando soprattutto la balla degli oltre 10.000 Morti della divisione 'Acqui' di cui ormai dal 2006 -grazie al mio libro I CADUTI DI CEFALONIA: FINE DI UN MITO- è stato accertato il reale dato numerico che fu di circa 1.700 Vittime come risulta dalla DOCUMENTAZIONE UFFICIALE esistente presso gli Archivi Militari (Uff. Storico dello SME e Uff. ALBO d'ORO del Min. Difesa).
Ciò spiega ad abundantiam il titolo del presente articolo riferendosi il vocabolo 'vizietto' all'inveterata abitudine di dire frottole sulla vicenda soprattutto da parte di chi ha -o meglio avrebbe- il dovere di dire il vero:le AUTORITA' MILITARI.
Infatti, malgrado le risultanze di cui sopra siano ormai inoppugnabili, gli organizzatori ed i gazzettieri della cerimonia continuano a parlare -estraniandosi dalla realtà accertata e documentata- di circa 10.000 Morti come fa l'ass.ne 'Acqui' ed il suo 'reporter' l'ARENA di Verona cui evidentemente i miei ormai 'annuali' chiarimenti in merito non hanno fatto e non fanno né caldo né freddo.
I poveri Morti di Cefalonia secondo costoro FURONO E DEVONO RIMANERE 10.000 ed il tragico della questione è che le FFAA si adeguano supinamente a tale FALSITA'.malgrado siano depositarie -come s'è detto- della documentazione che la smentisce. Ma l'epopea 'resistenziale' vuole così e...così sia.

Sulla penosa vicenda ho scritto una mail al giornale l' Arena inviandola anche al Sindaco di Verona 'padrone di casa' dell'incredibile messa in scena non perchè speri in qualche suo provvedimento del resto inattuabile ma almeno perchè si renda conto di cosa avviene nella sua città e si regoli -ma non ci spero- nel corso dell'intervento che probabilmente farà anch'egli dal palco delle ...Autorità purtroppo affette dal 'vizietto' di cui al titolo.


Quanto sopra premesso le invio -gentile Direttore- il testo dell' articolo de l'Arena di Verona cui segue quello del mio commento inviato all'Arena e al Sindaco Tosi.

1) L'Arena del 19/9/2012
Verona. Venerdì alle 10, in circonvallazione Oriani, si svolgerà la cerimonia per il 69° anniversario dell’eccidio della Divisione Acqui. La commemorazione ricorda uno dei più tragici fatti accaduti all’Esercito italiano durante la seconda guerra mondiale, tra il 12 e il 26 settembre del 1943, che vide la morte di circa 10.000 soldati italiani. Alla cerimonia, che si terrà al monumento nazionale eretto a Verona nel 1966 per l’elevato numero di veronesi caduti a Cefalonia e Corfù, parteciperanno i reduci e superstiti di quelle tragiche giornate, provenienti da tutte le Regioni d’Italia. Oltre alle numerose autorità civili, militari e religiose, locali e nazionali, saranno presenti i labari e le bandiere delle Associazioni d’Arma, combattentistiche e della Resistenza e numerosi gonfaloni di città e province decorati al valor militare.

Particolari onori saranno riservati al Medagliere dell’associazione nazionale Divisione Acqui, con le sue 27 medaglie d’oro e alla bandiera di guerra del 17° Reggimento «Acqui», decorata di medaglia d’oro al valor militare. Alla cerimonia parteciperanno anche gli alunni delle scuole medie e superiori cittadine e il gruppo storico Brigata Acqui 24 giugno 1859 San Martino e Solferino, con costumi militari dell’epoca. Gli interventi dei rappresentanti dell’amministrazione comunale, del governo e dell’associazione nazionale Divisione Acqui si terranno a partire dalle
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2)- Mio commento inviato 'anche' al Sindaco di Verona:
ALLA CORTESE ATTENZIONE DEL SINDACO DI VERONA
Egr. Sig. Sindaco TOSI, in relazione ed a commento dell'articolo odierno de l'ARENA di Verona ho scritto ad essa quanto segue di cui -come 'padrone' di casa- rendo edotto anche lei.
Con molti ossequi
avv. Massimo Filippini
(omissis)

04100 Latina
Nell'articolo si legge che la vicenda di Cefalonia "vide la morte di circa 10.000 soldati italiani" ma all'Ufficio ALBO d'ORO DEL MINISTERO DFESA risultano morti 'sul fronte' Cefalonia solo 1.639 Militari su 4.635 Morti sul 'fronte greco'.
Il libro del 2011 delle due storiche Elena Aga Rossi e Maria Teresa Giusti UNA GUERRA A PARTE riconosce e DOCUMENTA la validità di tale dato e la prima tra l'altro è membro consultivo del CISM - Comitato italiano studi militari di cui fanno parte i nostri Uffici Storici presso cui si trovano i Documenti che SMENTISCONO il dato di 10.000 morti.
Le Autorità Militari lo sanno o lo dovrebbero sapere. Sarebbe il caso che l'ARENA chiedesse loro perchè -anzichè citare i dati in loro possesso- continuano ad aderire a quelli forniti dall'Ass. ne 'Acqui' che NON hanno un valore 'storico' ma sono solo frutto dei primi anni in cui la vicenda non era stata chiarita su tale punto che per primo fu accertato documentalmente da me nel libro I CADUTI DI CEFALONIA: FINE DI UN MITO nel 2006.
Cordiali Saluti.
avv. Massimo Filippini
Orfano del magg. Federico Filippini fucilato dai tedeschi a Cefalonia il 25/9/1943
PS.
Copia di questo commento è stata inviata al Sindaco di Verona

Massimo Filippini
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Per concludere egregio direttore cosa potrebbe succedere adesso ?

N I E N T E come da consolidata prassi in voga presso i padroni del vapore in borghese e in divisa: purtroppo quando si ha il vizio di raccontare frottole disintossicarsi ...è molto difficile per non dire impossibile.
Ho però una certezza assoluta: che molti dei commemoratori di 10.000 e più Morti proveranno -specie se militari- una gran vergogna nel dire quello che diranno.
E ciò mi consola di tante amarezze.

Massimo Filippini
20 settembre 2012

P. S.
Nel messaggio all’ass. ne acqui (v. link) inviato per l’occasione da Napolitano, costui non ha fatto numeri delle Vittime perchè sa bene che NON è il caso di farli: glieli scrissi io nel 2007 prima di andare -invitato da lui- a Cefalonia dove infatti NON li fece e glieli ha ripetuti Gianfranco Ianni inviandogli il suo recente libro RAPPORTO CEFALONIA. Inoltre avrà sicuramente avuto notizia del libro UNA GUERRA A PARTE delle ‘cattedratiche’ Aga Rossi e Giusti che hanno ripetuto le stesse cose già scritte da noi in precedenza.
Una cosa giusta però ha detto -forse senza immaginarne le eventuali conseguenze- e cioè che occorre ” far luce sul decennale insabbiamento delle inchieste sui crimini nazi-fascisti, mettendo a disposizione tutta la documentazione acquisita (…) per pervenire con rigore di metodo a una valida ricostruzione storica, istituendo anche, quale simbolico atto di riconoscimento, una Fondazione per la memoria di quegli ignobili fatti”.
Bravo Napolitano ! Fate funzionare la FONDAZIONE e CACCIATE FUORI TUTTI I DOCUMENTI ! M A P R O P R I O T U T T I !!!
Soprattutto le FFAA che ce l’hanno ma li tengono ‘inguattati’ nei loro ARCHIVI dove SOLO IO -con abile colpo di mano- ebbi la fortuna di trovarli e di renderli noti.
Ma io sono solo l’ORFANO DI UN MORTO AMMAZZATO IN QUELLA PORCA ISOLA e -a differenza di Re Giorgio- NON HO ACCESSO AL SALOTTO BUONO DOVE SGUAZZANO I FREGNACCIARI !!
(PS Se NAPOLITANO lo volesse possiamo mandarglieli io oppure G. Ianni. COSI’ FINISCE QUESTA TRAGICA BUFFONATA !!)
MASSIMO fILIPPINI

http://www.agenparl.it/articoli/news/politica/20120921-cefalonia-il-messaggio-di-napolitano-all-associazione-nazionale-divisione-aqui
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L'annuale commemorazione “ufficiale” dei fatti di Cefalonia che dal 1966 ogni 21 settembre si tiene a Verona dinanzi al Monumento alla Divisione Acqui, rappresenta da sempre un evento rievocativo di grande importanza ma, da oltre un decennio, essa è proseguita senza tenere in nessun conto la verità storica venuta nel frattempo alla ribalta - e di cui rivendico la scoperta - che fu profondamente diversa da quella fino ad allora conosciuta: da ciò la spiacevole conseguenza che, stante l’ostinato rigetto di essa da parte degli organizzatori, la commemorazione si è ormai trasformata –“absit iniuria verbis”- in una farsa poco o nulla avente a che fare con quanto in realtà avvenne a Cefalonia.
I promotori della manifestazione – Ass. ne “Acqui” e Forze Armate - sembrano infatti essersi fermati –quanto a conoscenza storica degli eventi - al Comunicato sui fatti di Cefalonia del governo “ciellenista” Parri emesso il 13/9/1945, contenente un inverecondo ammasso di frottole buttate giù senza alcun valido riscontro - soprattutto documentale - ma con l’unico scopo di configurare gli avvenimenti alla stregua di un “fatto spontaneo” come tale disgiunto da quella che ne fu la vera causa cioè l’ordine di resistere che il giorno 11 il Comando Supremo del Governo Badoglio - fuggito a Brindisi dopo l’armistizio - inviò al generale Gandin, ben conscio di non poter mandare alcun aiuto e senza una previa dichiarazione di guerra all’ex alleato. Quest’ordine criminale equivalente ad una condanna a morte della Divisione Acqui è da sempre di pubblico dominio ed è ben riprodotto nel link che segue ma ai cerimonieri di Verona immersi in un’orgia di retorica senza fine sembra - come diremo - interessare poco. www.lancora.com/monografie/cefalonia/. Torniamo ora al Comunicato del Governo Parri di cui al link che precede per riportarne uno stralcio che evidenzia chiaramente l’enormità delle balle raccontate per mostrare i fatti alla stregua di un Mito Resistenziale infarcito - come tale - da un assurdo quanto improbabile “spontaneismo” (“L’annuncio dell’armistizio risvegliava nei soldati i loro veri sentimenti che si manifestavano nella decisione di dar guerra al tedesco”!) e da dati numerici delle vittime italiane e tedesche assolutamente falsi (“Totale delle perdite inflitte al nemico: uomini di truppa 1500, aerei 19, mezzi di sbarco 17. Totale delle perdite subite: uomini 9000, ufficiali 406”.) mentre è ormai un dato risaputo e incontestabile che le nostre perdite - a Cefalonia - furono di circa 2.000 uomini tra caduti nei combattimenti e fucilati nella rappresaglia seguita alla resa (che avvenne soltanto nei confronti degli ufficiali e non anche sui soldati come anche le risultanze dell’istruttoria del processo “Muhlhauser” e di una cifra di meno di un centinaio di morti tedeschi. (www.italiaestera.net/modules)
Quest’ultima cifra fu accertata dal t. col. Picozzi nella “Relazione sui fatti di Cefalonia” scritta nel 1948 ed anch’essa da me riportata alla luce - dopo cinquanta anni di “secretazione” - dalle polverose scartoffie dell’ufficio storico nella quale a seguito delle ricerche compiute “in loco” per incarico dello SME, il predetto la quantificò in “un’ottantina” di morti raccomandando (!) ai Superiori dello Stato Maggiore cui la presentò che sarebbe stato meglio che “tali cifre non fossero divulgate” come risulta dallo stralcio dall’articolo qui citato: (Stralcio dalla Relazione Picozzi: al paragrafo “Perdite dei tedeschi” è scritto: “I Tedeschi avevano al 22 settembre una forza di 8 battaglioni rinforzati da reparti di artiglieria e mortai pari a 11-12 mila uomini; i combattimenti sono durati dal 15 al 22 settembre e i loro morti in questo periodo sono poco più di 80. Non si può affermare che le perdite tedesche sul fronte a terra durante tali azioni siano state percentualmente rilevanti poiché si riducono a un’ottantina di morti, pari a circa lo 0,7% in una settimana di operazioni contro forze numericamente quasi pari. E’ forse preferibile che queste cifre non vengano mai precisate”).
Per verificare quanto sopra - in particolare i dati delle vittime italiane - ripeto per l’ennesima volta che essi sono allegati al libro “I Caduti di Cefalonia, fine di un mito” Ibn ed. Roma 2006 o secondo quanto consultabile nell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore o nell’Uff. Albo d’Oro del Min. Difesa nella Documentazione.
Qualcuno si chiederà il perché di una tale contrapposizione che si protrae ormai da più di un decennio e che è costata a me - che sono orfano di un Ufficiale assassinato a Cefalonia dai nazisti - accuse infami come quella di essere una specie di filo-nazista che “difende” gli assassini del padre con la qualifica di “revisionista” per aver da sempre ricercato e, una volta venutone in possesso, divulgato la verità. Tali accuse e insinuazioni altro non sono che la prosecuzione di un atteggiamento mentale in voga negli anni del dopoguerra, ripreso da questi imbecilli per qualificare come atti di resistenza “partigiana” anche avvenimenti dai contorni e dalle caratteristiche esclusivamente militari. Cosa c’entrino i “partigiani” solo Dio lo sa anche se nel 1993 il prof. Rochat nel risvolto del suo libro (La div. Acqui a Cefalonia Sett. 1943 Mursia ed) - additato da vari cialtroni come la “summa” dello scibile su Cefalonia - scrisse sciocchezze analoghe a quelle di quanti hanno ridotto la vicenda ad un episodio di lotta “partigiana” con annesso enorme numero di vittime campato in aria malgrado l’Autore avesse consultato - prima di scrivere il suo libro - l’Elenco dei Caduti conservato all’Uff. Storico dell’EI, che li quantifica in circa 1.700.
Del suo “capolavoro” riporto, a conferma di quanto detto, un breve stralcio: “La divisione Acqui che all’8 sett. 1943 presidiava le isole greche di Cefalonia e Corfù, rifiutò di arrendersi ai tedeschi combatté con sfortunato valore, fu sopraffatta e massacrata (…) fu la decisione dei suoi uomini a determinare la scelta di affrontare il combattimento; fu lo spirito di vendetta dei comandi e dei reparti tedeschi a provocare il massacro di 6.500 italiani, in gran parte trucidati dopo che si erano arresi”.
Quanto sopra premesso ed illustrato faccio presente al lettore che avrà trovato alquanto “severa” la mia prosa come ciò derivi dalla constatazione dell’inutilità di ogni tentativo di bloccare il ripetersi di inesattezze e menzogne come accade nelle varie celebrazioni dei fatti come quella “nazionale” di Verona.
In proposito un esempio recentissimo delle falsità storiche consumate ormai da anni nella città scaligera era anche dato dal resoconto della manifestazione del 23 settembre 2010 ancora contenuto nel sito del ministero dell’Interno in cui campeggia la foto del prefetto di Verona insieme con il generale Enrico Pino partecipanti in ruoli di interpreti principali. Il testo è il seguente: “Questo sacrificio ha aperto la strada agli anni di democrazia, pace e libertà che oggi stiamo vivendo”. Lo ha detto il prefetto di Verona Perla Stancari rivolgendosi in particolare agli studenti delle scuole cittadine presenti alla cerimonia per il 67esimo anniversario dell’eccidio di Cefalonia che si è svolta ieri nel capoluogo scaligero. Nel commemorare il tragico episodio nel quale persero la vita 10.259 soldati italiani della Divisione Acqui, che dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 avevano deciso di non arrendersi ai tedeschi, il prefetto ha ricordato ai più giovani che molti dei caduti avevano la loro stessa età e che quei valori vanno protetti con determinazione e tramandati alle future generazioni. Il momento più solenne della cerimonia è stato quando i superstiti, accompagnati dai familiari delle vittime, hanno sfilato davanti alle Forze armate e ai militari del 33esimo Reggimento artiglieria terrestre divisione Acqui. Accompagnata dal generale di Divisione Enrico Pino, il prefetto Stancari ha passato in rassegna i reparti, il sindaco di Verona e numerose autorità civili e militari”.
In primo luogo la “prefettessa” disse che i soldati italiani “avevano deciso di resistere” e ciò non è vero assolutamente.
Essi non avevano deciso un bel niente per il semplice fatto che i militari eseguono gli ordini e quindi anche quelli della Acqui non potevano decidere un bel nulla. E’ vero invece che probabilmente non sarebbe successo niente se il giorno 11 settembre il governo del maresciallo Badoglio - giunto sano e salvo a Brindisi dopo l’ignominiosa fuga da Roma - non avesse inviato al generale Gandin un “ordine di resistere” che chiunque può visionare all’Uff. Storico dell’Esercito di cui - guarda caso - fu Capo sul finire degli anni ’90 proprio il generale E. Pino del quale posseggo la lettera di ringraziamento per l’invio nel 1998 al suo ufficio del mio libro “La vera storia dell’eccidio di Cefalonia” in cui a tale Ordine infame e criminoso è dedicato un intero capitolo (Le ultime trattative. L’Ordine di Brindisi. La fine. pag. 108 e segg.). Tale Ordine che causò la tragedia è ormai noto a tutti e pertanto c’è da chiedersi come possano aver fatto il Prefetto di Verona a prendere una simile cantonata e il generale Pino ad averla ascoltata senza batter ciglio: se non erano bene informati il loro dovere era di informarsi prima o di astenersi dal raccontare certe scempiaggini - addirittura ai giovani delle scuole (!) - facendo loro credere fischi per fiaschi. I Caduti di Cefalonia - compreso mio padre - non sono merce di scambio e non vanno presi in giro perché furono delle Vittime mandate al massacro da un Ordine infame e dissennato: lo si dica chiaramente anziché piagnucolare su aspetti inesistenti della vicenda.
Sul secondo aspetto della questione - il dato delle Vittime - c’è da rilevare non tanto la reiterazione di un falso storico ma la gravità del fatto che la “prefettessa” si rivolse “in particolare ai giovani” parlando di 10.259 (diecimiladuecentocinquantanove) Soldati che avrebbero perso la vita, con ciò vergognosamente ripetendo la balla che da sempre è il “cavallo di battaglia” con cui si riempiono la bocca gli oratori “ufficiali” della cerimonia scaligera: “un eccidio di immense proporzioni” tale da riguardare quasi completamente l’intera divisione!
Eppure circa due anni fa si tenne al Tribunale Militare di Roma il processo contro l’ex sottotenente tedesco Muhlhauser accusato di aver ucciso nostri soldati a Cefalonia. Il processo - cui partecipai come Parte lesa - si svolse in due sole udienze: quella di apertura e quella di chiusura che lo dichiarò “estinto” per la morte dell’imputato, ma fu di grande valore per le verità storiche venute alla luce sia nella richiesta di rinvio a giudizio dell’imputato sia nella consulenza tecnica d’ufficio del dr. C. Gentile che quantificò le Vittime in 2.300 circa in totale facendo crollare miseramente la balla dei 10.259 (che precisione!) Morti evocati dalla prefettessa nel silenzio assenso (?) del generale Pino e tra gli applausi dei partecipanti alla Cerimonia.
Purtroppo l’Italia è il paese dove la menzogna è “istituzionalizzata” e la Verità è merce assai rara e chi la scopre ne paga le spiacevoli conseguenze come lo scrivente che ha il torto di averlo fatto venendo estromesso dall’Ass. Acqui presieduta da persona il cui genitore - pur degno del massimo rispetto - non morì a Cefalonia come il mio e dalla quale vengo indicato - le rare volte che a me ci si riferisce - con l’espressione dalla chiara allusione offensiva come “il famoso Filippini”.
Ma a me, tutto ciò interessa meno di zero: mi preme solo che le Forze Armate e non certo l’Associazione Acqui - di cui me ne frego altamente - dicano la verità perché i Morti di Cefalonia non sono di loro proprietà ma lo sono dei familiari che hanno il sacrosanto diritto di sapere perché e come morirono i loro Congiunti. La dicano senza raccontare balle, una buona volta!

Avv. Massimo Filippini

Orfano del magg. Federico
Filippini fucilato il 25 sett. 1943 a Cefalonia


http://www.rinascita.eu/index.php/index.php?action=news&id=10889
 



L'antifascismo e la riduzione dell'Italia a colonia americana

 
da "AURORA" n° 49 (Giugno 1998)

 
F. G. Fantauzzi

Il numero 2/98 della rivista "Nuova Storia Contemporanea" ospita un interessante ricerca di Salvatore Sechi riguardante la situazione Italiana al momento dell'approvazione della Carta costituzionale e della ratifica del Diktat.

Tale indagine è di fondamentale interesse storico per due ordini di motivi:

a) perché si giova di documenti «inediti o poco noti» presenti negli archivi dell'ambasciata americana, in quelli di Washington e di Suitland;

b) perché svela i retroscena politici e diplomatici del periodo più torbido della vita politica italiana del dopoguerra.

Punto di partenza dell'Autore è il viaggio che De Gasperi fece negli USA (5-20 gennaio '47) su invito del governo Truman. La prima missione del leader democristiano ebbe luogo all'interno di una situazione politica delicatissima che presentava:

* gli USA che, a causa della ulteriore temuta avanzata delle sinistre e delle destre, paventavano una perdita d'influenza in Italia;

* il Vaticano e gli ambienti economici e industriali che riponevano grandi speranze in quel viaggi e lo consideravano come un battello di salvataggio per la DC la quale,, avendo registrato notevoli perdite di consenso nelle elezioni amministrative del novembre precedente,, metteva a rischio l'opzione occidentale dell'Italia;

* Nenni e Togliatti, spiazzati per non aver intuito il «valore di legittimazione implicito nell'invito» di Truman a De Gasperi e perché vedevano in quel viaggio una sorta di rinnegamento di una improbabile «tacita intesa» diretta a tenere l'Italia in una posizione di equidistanza e di neutralità nei confronti dello schieramento bipolare che si andava delineando in campo mondiale; intesa però mai effettivamente raggiunta tra le fazioni antifasciste.

Frutto dell'immaginazione o delle personali speranze di Giorgio Amendola (cfr. "Gli anni della Repubblica", Roma 1976), tale intesa si rivelerà un clamoroso malinteso, poiché, in realtà, per carenza di autentica passione civile, di senso dello Stato e di concreta comunanza di idealità e di obiettivi, fra le formazioni politiche emerse dalla sconfitta, non vi fu mai un effettivo accordo programmatico, come con una buona dose di ipocrisia sembra ritenere Amendola.

L'indagine, a mio avviso, prosegue senza tener nel dovuto conto dei patti di Yalta, dell'immutato atteggiamento duro e intransigente degli alleati nei nostri confronti, dell'enorme prestigio del dollaro e dei risultati dell'accorto lavorio diplomatico precedentemente svolto dagli incaricati d'affari statunitensi (il Vaticano non aveva ancora riconosciuto ufficialmente gli USA) presso gli ambienti curiali e in quelli economici e industriali italiani.

Comunque sia, proprio durante quella trasferta, si verificò una serie di avvenimenti destinati a favorire il disegno politico concordato fra gli USA, il Vaticano e la DC, consistente nel preparare le occasioni per allontanare le sinistre dall'area di governo, una volta approvata la costituzione e ratificato il Diktat.

Saragat si dimise da presidente la Costituente, realizzò la scissione di Palazzo Barberini e fondò il Partito socialista dei lavoratori italiani (ma venne subito accertato che nessuno dei fondatori aveva mai lavorato un solo giorno); Nenni si dimise da ministro degli esteri e ritirò la delegazione del PSIUP dal governo e la delegazione del PRI fece altrettanto.

Tali fortunosi eventi, per altro, risultarono essere particolarmente graditi a Washington, dove i repubblicani avevano da poco raggiunto la maggioranza nel Congresso.

Tornato In Italia, De Gasperi annunciò le dimissioni del governo. Le conseguenze politiche del viaggio si palesarono molto vantaggiose per la DC. Secondo G. Amendola (op. cit.) queste furono determinanti all'instaurazione «di quell'ingerenza americana nella vita del paese che fu consacrata, due anni dopo, con la firma del patto atlantico». Nel corso della defatigante formazione del nuovo governo, ebbero luogo lunghe e pretestuose polemiche nel corso delle quali tutti gli esponenti dell'antifascismo si comportarono come se fossero privi di quel minimo di senso della realtà che è a fondamento di ogni riflessione; agirono cioè come se non conoscessero il contenuto dell'armistizio (corto) di Cassibile, di quello (lungo) del 29-9-43 e del «promemoria d'accordo» sottoscritto a Caserta il 7-12-44 dal Comandante supremo miliare alleato e dal CLNAI (Parri, Pajetta, Sogno e Pizzoni), nei quali viene imperativamente sancita la sola volontà degli alleati.

Chi legge quei documenti con attenzione rimane sconcertato non tanto dalle ovvie prevaricazioni del nemico, quanto dal meschino sotterfugio e dalla mala coscienza di chi, nel tradurre il testo in italiano, ne stravolge persino il significato, come nel caso: «Il comando supremo militare alleato esige ...» viene tradotto con: «Il Comando supremo desidera ...».

È davvero arduo sondare la levatura morale e intellettuale degli uomini che sottoscrissero trattati così in contrasto con gli interessi permanenti del proprio popolo. Non si trattò, infatti soltanto di mancanza di coscienza etica, del senso della realtà o di mero autolesionismo, bensì di vera e propria libidine di servilismo.

Gli italiani stavano vivendo il periodo del loro massimo disorientamento. Tutto era caduto e ora franava irrimediabilmente anche la mal riposta illusione resistenzialista fondata sulla speranza di un trattamento di favore che, invece, veniva sprezzantemente negato. Un periodo tristissimo nel quale s'era smarrito il rapporto di tutti e di ciascuno con la verità, la quale ha sempre significativi riflessi pratici. Non per nulla Tommaso aveva insegnato che: «La verità nel creato si trova in due realtà, nelle cose e nell'intelletto» (cfr. "De Veritate", 1, 6).

Dall'analisi del Sechi in ordine alla formazione del nuovo governo, emerge uno spaccato della situazione italiana che dimostra l'elevatissimo tasso di controllo esercitato dalle autorità diplomatico-militari di occupazione, il quale si estendeva sino alla minuta indagine personale sulle pregresse attività dei ministri e dei sottosegretari, nonché sugli atti del governo. Paradigmatico al riguardo è il caso Moscatelli-Moranino, più volte contestati, non graditi e poi riammessi con incarichi diversi, ecc.

Data l'impossibilità di formare un governo monocolore DC, a seguito di lunghe ed estenuanti trattative, ripensamenti, sospetti e negati gradimenti degli alleati di un rilevante numero di candidati, De Gasperi riuscì finalmente a varare il suo terzo governo il quale, mentre subiva dagli alleati pesanti umiliazioni, maldestramente tentava di far credere loro che gli Italiani erano stati succubi per 20 anni del fascismo e di una monarchia antidemocratica e imperialista e che, per ciò stesso, meritavano migliore considerazione. Tale governo raggiunse inusitati apici di sprovvedutezza e di sfrontatezza quando tentò di far valere le proprie opinioni in occasione della formulazione del trattato di pace con la Germania e quando avanzò pretese rivendicative sulle colonie ormai perdute per sempre. Tutto sommato, un governo che non riusciva capacitarsi che: «L'Italia non era un alleato e neppure... un cobelligerante; era soltanto un paese sconfitto a cui erano state accordate alcune concessioni, nell'ultima fase della guerra, per ragioni di convenienza politica, strategica...» (cfr. S. Romano, "Cinquant'anni di storia mondiale", Milano, 1977).

Dall'esposizione del fatti, prende forma con grande chiarezza l'inutilità del tradimento del settembre '43, della cobelligeranza e della resistenza. Come opportunamente notarono i migliori commentatori del tempo, sarebbe stato più onorevole, e forse anche più vantaggioso, non accettare la resa incondizionata e continuare a combattere fino in fondo una guerra da noi stessi dichiarata.

La Chiesa, che veniva definita dall'ambasciatore americano Dunn come: «... la principale forza di stabilizzazione del paese (...)», e la DC intanto si apprestavano a realizzare un governo composto di forze politiche moderate, attraverso la cui strumentalizzazione, poi escluderanno dall'area governativa i socialisti per 15 anni e i comunisti per oltre 40. Gli USA, nella convinzione che una ulteriore avanzata elettorale comunista in Italia avrebbe inciso negativamente sui rapporti con l'URSS, avrebbe destabilizzato l'area del Mediterraneo con particolare riferimento ai disegni egemonici su Grecia e Turchia, mentre non facevano mancare all'Italia qualche assistenza economica elargita col contagocce, esasperavano le attività di controllo sugli atti del governo e su quelli amministrativi.

Oltre alle facilitazioni economiche, gli USA restituirono all'Italia le navi mercantili e i beni italiani esistenti in America a suo tempo confiscati e, al fine di assicurare l'ordine pubblico e un minimo dì capacità di difesa quando gli alleati se ne sarebbero andati, fornirono alle FF. AA. italiane armi, munizioni e mezzi obsoleti.

Il Sechi, inoltre, lascia intravedere come poi si perverrà al 18 aprile '48, alla maggioranza relativa della DC ed ai successivi innumerevoli governi monocolore, di centro, di centrodestra e di centrosinistra, in una temperie etica e politica di totale sudditanza e acquiescenza agli USA. L'intera indagine risulta essere snellita dai fardelli propri delle trattazioni politico-diplomatiche, ma, nonostante l'acutezza dei rilievi e la scorrevolezza dell'esposizione, palesa tuttavia una riluttanza e quasi un freno ad ammettere dati storici essenziali: l'inconsistenza degli orizzonti ideali e politici degli uomini di governo italiani e la servilità rispetto allo straniero dimostrata a piene mani dall'antifascismo nel suo complesso, nonché la estrema eterogeneità e incomunicabilità esistente fra le varie componenti politiche del tempo. Tale atteggiamento vagamente reverenziale, derivante dal surrettizio alone di rispetto e di quasi sacralità con il quale è stata circonfusa la resistenza, a mia avviso, nuoce alquanto all'efficacia dell'intera trattazione.

L'Italia, che i comunisti avrebbero voluta vassalla dell'URSS, diviene con la benedizione vaticana, una colonia americana e il PCI continuerà per decenni a lamentare e a fingere di non accettare: «... l'intervento diretto nella politica interna del nostro paese, la richiesta cioè, che il governo italiano sia composto in un modo piuttosto che nell'altro, che questo o quell'altro partito siano esclusi dalla sua composizione» (cfr. "Rinascita", n° 7, maggio 1947).

Torniamo alla verità

Quando diciamo che la tal persona è stata un vero magistrato, o un vero soldato, o un vero sacerdote, o una vera madre, intendiamo semplicemente riconoscere che quel che essa ha detto e fatto corrisponde a ciò che è vero, in quanto è realmente accaduto e in quanto, nei sentimenti come nella condotta, essa ha inverato quell'alto grado di umana verità che vorremmo poter riscontrare in ogni madre, in ogni soldato, ecc. E questo perché la verità non può che essere vista in rapporto con la realtà oggettiva. «Ens et verum convertuntur», disse Aristotele 350 anni prima di Cristo; talché dire «essere» (tutti gli esseri in quanto intelligibili) è come dire «vero», in un'unica realtà essendo convertibili i due termini.

Estrapoliamo ora dall'indagine in esame un elemento di qualche interesse e vediamo quel che contiene di vero. Nel corso delle polemiche che contraddistinsero la formazione del terzo governo De Gasperi, Pietro Nenni, tentando di chiarire il carattere d'emergenza che avrebbe dovuto distinguere il nuovo governo, bontà sua, inserì fra i provvedimenti straordinari da assumere, la revisione della legge sull'amnistia, in quanto, come riferisce il Sechi «in sede di applicazione ha favorito i fascisti».

Nulla di più falso. Ma anche nulla di più logico in un sistema di potere fondato sulla falsità e sull'inganno.

Francamente, un Togliatti che prepara e che fa approvare un'amnistia destinata a favorire i fascisti non è in alcun modo credibile; anzi deve essere precisato una volta per tutte che questa è una delle tante menzogne rispolverate ultimamente da certo dolciastro buonismo orientato a conseguire non proprio disinteressati traguardi. Eppure, nella pubblicistica ufficiale, quella dell'«atto di umana clemenza» di Togliatti per i fascisti è accreditata come una verità rivelata.

Togliatti, invece, fu costretto a varare il noto provvedimento legislativo e a tale scopo si propiziò il parere favorevole di De Gasperi, il quale era al corrente del fatto che (i cappellani, per la loro stessa missione, nelle carceri sanno tutto di tutti), una volta liberi, i fascisti e le loro famiglie avrebbero votato DC in funzione anticomunista. Ministro della giustizia, Togliatti non poteva non sapere che il numero dei partigiani reclusi era superiore a quello dei fascisti; e non poteva non temere che, per discolparsi in sede di dibattimento, i partigiani medesimi avrebbero chiamato in causa gran parte dei dirigenti del PCI i quali, nel corso della resistenza, avevano praticato e predicato la non distinzione fra i c.d. atti di guerra e la rapina a mano armata.

Il partigiano Franco F. Napoli (cfr. "Villa Wolkonski", ed. Europa, Como, 1996) sostiene che nel '46 i fascisti in carcere erano quarantamila, dopo l'amnistia ne rimasero seimila, nel '48 erano quattromila e, dopo il '56 nessun fascista era più in carcere. Per contro, i partigiani (per i quali in realtà era stata fatta l'amnistia), dopo il 18 aprile '48 salirono a quarantacinquemila e, nel '56, erano circa ottantamila. Va osservato al riguardo che, dall'aprile '48, si era tornati alla legalità e, quindi, si veniva processati prevalentemente su denuncia di parte.

Uno degli aspetti che maggiormente dovrebbe far riflettere è che tale legittimo procedimento non riguardò se non in maniera irrilevante i fascisti i quali, nella quasi totalità, non erano stati denunciati prima né vennero denunziati dopo l'amnistia. Perché tutto ciò? È storicamente accertato, altresì, che un buon numero di partigiani dovette espatriare clandestinamente ed altri si fecero eleggere in parlamento per non essere processati.

Lo storico non ne fa esplicita menzione, tuttavia dalla sua esposizione si staglia netta la conclusione che l'antifascismo (allora come ora) non rappresentava in alcun modo la coscienza unitaria del popolo italiano.

Chiuso il periodo delle carcerazioni facili dei fascisti e, restituita l'amministrazione della giustizia alla rnagistratura ordinaria, vennero celebrati i grandi processi a Graziani, Ricci, Pisenti, Borghese, ecc. Ebbene, se in virtù dell'antifascismo gli Italiani da colonizzatori non fossero assurti al «rango» di colonizzati, rammenterebbero che il Ministro della difesa della R.S.I., quello di Grazia e Giustizia, il Comandante della Guardia Nazionale Repubblicana e quello della Decima Flottiglia MAS furono rimessi in libertà non appena lette le rispettive sentenze, le quali recano tutte motivazioni analoghe a quella riguardante il Maresciallo Graziani: «Agì per alti motivi nazionali e morali». Siffatta motivazione accomuna, ovviamente, tutti i combattenti della R.S.I.

Molto scalpore fece il caso di Ferruccio Parri, medaglia d'oro per meriti partigiani e ex-presidente del Consiglio, il quale, nel maggio del '53, venne attaccato da "Il Meridiano d'Italia" mediante la pubblicazione delle «Prove clamorose del doppio gioco di "Maurizio"». Ne seguì un processo; il Parri però, vista la mala parata dibattimentale, sebbene i misfatti sarebbero stati compiuti a Milano e in altri luoghi del Settentrione, fece trasferire il processo a Roma.

E non se ne seppe più nulla. (cfr. Renato Carli Ballola, "1953, processo Parri", ed. Ceschina, Milano 1954).

Perché E. Parri non persistette nella tutela della sua onorabilità? Il senatore F. M. Servello, che è vivo e vegeto, ne sa qualcosa.

Ad opera di studiosi appassionati e rigorosi e, anche per gli inattesi contributi di ex-partigiani, che già negli anni 1943-45 erano stati emarginati, misconosciuti o vilmente traditi dai compagni di lotta perché non condividevano o apertamente avversavano la linea politica di totale asservimento dell'Italia agli stranieri, (linea concordata fra PCI-PSI-DC in combutta con gli ambienti monarchici e con il placet dl Stalin e del regnante pontefice), molte verità stanno venendo in luce.

Leggendo le opere di questi partigiani ribelli alla «volgata» resistenziale, si ha la netta sensazione che molte loro idee, prospettive e istanze sociali e politiche -al di là della diversa individuazione del nemico di allora- possano essere largamente condivise anche nel campo avverso.

È vero: nelle umane vicende le situazioni subiscono mutamenti, il tempo passa, gli uomini cambiano e poiché si ha ragione di credere che vi sia uno «splendore della verità», è da augurarsi che i due contrapposti schieramenti possano un giorno convergere almeno nell'amara riflessione del Col. Moscardò che, dinanzi al martirio del suo ragazzo e del cruento destino che attendeva le sue truppe, esclamò: «Meglio il cimitero che il letamaio».

La scienza storica, sia pure con esasperante lentezza, comincia a dare buoni frutti e a radicare negli animi la preziosa esigenza della verità come cultura, come modo degno di vita. Si avvicina il tempo in cui forse non si parlerà più di partigiani e di «repubblichini» in termini di faziosa contrapposizione, bensì nel senso di consolidamento di verità vere che, nel bene e nel male, ci riguardano tutti.

Solo allora gli Italiani vivranno di vita propria.

E, solo allora, l'Italia non sarà più una colonia.

F. G. Fantauzzi
http://www.aurora.altervista.org/Aurora_prima.htm