mercoledì 30 gennaio 2013

Tre domande di parte a un presidente di parte



 Mer, 30/01/2013

Il presidente del Tribunale della razza diventò il più stretto collaboratore di Togliatti al ministero di Grazia e Giustizia. Poi guidò la Consulta. Il Pci ha mai avuto nulla da ridere?


Illustre Presidente Napolitano, dopo aver sentito il suo vibrante discorso sul fascismo e l'antisemitismo, mi permetta di rivolgerle tre brevi domande.
La prima. Sapeva che il presidente dell'infame Tribunale della razza, nonché firmatario del «Manifesto della razza», Gaetano Azzariti, diventò il più stretto collaboratore del suo leader Togliatti al ministero di Grazia e Giustizia, dopo essere stato Guardasigilli con Badoglio? Avete mai avuto nulla da ridire, lei e il suo Partito, sul fatto che poi, grazie a questi precedenti, lo stesso Azzariti sia diventato presidente della Corte costituzionale fino alla sua morte nel 1961?
La seconda. Sapeva che il primo concordato tra lo Stato italiano e gli ebrei fu fatto nel 1930 dal regime fascista? Una commissione composta da tre rappresentanti degli ebrei e tre giuristi varò un concordato in cui, scrive De Felice, «il governo fascista accettò pressoché in toto il punto di vista ebraico». Il presidente del consorzio ebraico, Angelo Sereni, telegrafò a Mussolini «la vivissima riconoscenza degli ebrei italiani» e sulla rivista ebraica Israel Angelo Sacerdoti definì la nuova legge «la migliore di quelle emanate in altri Stati».
Terzo. Presidente, ha mai detto e scritto qualcosa sulle centinaia di italiani, comunisti, antifascisti e a volte anche ebrei, che fuggirono dall'Italia fascista e furono uccisi nella Russia comunista con l'avallo del segretario del suo partito, il sullodato Togliatti? In Italia, persino sotto il Duce, avrebbero avuto una sorte migliore.
Nota. Anche Napolitano era stato fascista dei GUF - Gioventù Universitari Fascisti.

Appendice a cura di Sociale:

http://www.youtube.com/watch?v=_OmcTMWoDZc
http://www.italiasociale.net/storia07/storia300409-1.html

http://www.italiasociale.net/storia07/storia021009-1.html

Per chi non lo sapesse il consenso per Mussolini ed al fascismo fino al 1938  è stato costante ed  intorno al 96/98%. Altro che democrazia.
Poi la guerra voluta dai banchieri e dalle grandi lobby perchè lo stato sociale (la socializzazione dell'economia in primis) di Mussolini e la  
Volksgemeinschaft di Hitler ne segnavano la fine. Come pure la fine di tutto il capitale speculativo.
Il resto sono tutte pezze a colori dei vincitori che hanno fatto di tutto per nascondere queste verità storiche e che a monito di altri tentativi simili falsamente li vogliono mostri a tutti costi.

http://pocobello.blogspot.it/2012/11/il-comunismo-gerarchico.html

FURONO FASCISTI - Italiani voltagabbana 1/7
http://www.youtube.com/watch?v=4PfOw1VutJ0


Aderirono alla R.S.I. (non tradirono)
http://www.youtube.com/watch?v=XXrAtdvDgfE


Sempre a cura di SOCIALE

È tutto molto penoso: a Veneziani, che scemo non è, fanno scrivere sul Giornale solo quello che fa brodo per la solita polemica fritta e rifritta tra comunisti e fascicti (o quel che ne resta). Ci sono ben altri argomenti da opporre, in materia, e si trovano nel libro di F. Giannini, "Uno schermo protettore..".
Tipo: gli ebrei sono stati rastrellati solo DOPO l'arresto di Mussolini... Com'è che PRIMA, così tanti ebrei TEDESCHI venivano a stabilirsi in Italia? Venivano a gettarsi da soli nella "bocca del lupo"? E poi: queste famose "leggi razziali" come vennero applicate? Blandamente, alla lettera? Il motto era "discriminare, non perseguitare".
Poi c'è un altro argomento, non contenuto nel libro di fILIPPO Giannini: come mai nella Guerra di Spagna, quando gli ebrei italiani non avevano nulla di che lamentarsi in quanto ebrei, erano così ben rappresentati tra le fila antifasciste? Lo fecero notare a Mussolini, che si adombrò non poco... Erano tutti gli ordini del Cominter
n, e, vien da pensare, legati al movimento sionista.

domenica 27 gennaio 2013

QUELLO CHE GLI STORICI NON DICONO



La collaborazione tra nazisti ed ebrei e l’atteggiamento ipocrita dell’Occidente democratico

di Gianfredo Ruggiero

La Germania nazionalsocialista considerava pregiudizialmente gli ebrei come un elemento estraneo alla nazione. Durante la sfortunata Repubblica di Weimar (1919-33), quando la popolazione tedesca subì la più grande crisi economica e sociale della sua storia (a causa soprattutto degli enormi debiti di guerra imposti dalle potenze vincitrici del primo conflitto mondiale), molti ebrei, nonostante rappresentassero meno dell’1% della popolazione, raggiunsero nel settore economico-finanziario posizioni di alto livello e di considerevole benessere tali da essere additati, a causa della loro presunta cupidigia, come responsabili della stato di crisi in cui versava la Germania. A ciò si aggiungeva l’atavico antiebraismo cristiano, il nazionalismo esasperato e il mito della purezza ariana dell’ideologia hitleriana. 
L’origine ebraica di Karl Marx, il teorico del comunismo, e di parte della dirigenza socialista tedesca, contribuì a rafforzare tale convincimento su cui basò la sua azione Adolf Hitler che fin da subito adottò nei confronti degli ebrei una politica di restrizione dei diritti civili per spingerli a lasciare la Germania (judenfrei), anche attraverso il sostegno all’emigrazione. Quest’ultimo aspetto rispecchiava l’ideale della patria ebraica preconizzata da Theodor Herzl, fondatore del movimento sionista il quale, per quanto possa sembrare paradossale, concordava con i nazisti sul fatto che ebrei e tedeschi erano nazionalità distinte e tali dovevano restare.
Come risultato, il Governo di Hitler sostenne con vigore il Sionismo e l’emigrazione ebraica in Palestina dal 1933 fino al 1940-41 (1).
L’incoraggiamento all’emigrazione degli ebrei trovò però forti resistenze da parte della comunità internazionale e sfociò nel fallimento della conferenza di Evian del 1938, convocata da Roosevelt, dove i trentadue due stati partecipanti avrebbero dovuto ognuno farsi carico di un numero di ebrei provenienti da Germania e Austria proporzionale alle loro dimensioni. L’unica nazione che si propose di accogliere rifugiati fu la Repubblica Dominicana che ne accettò circa 700, tutte le altre, con motivazioni più o meno plausibili, rifiutarono ogni forma di accoglienza (L’Italia fascista, invece, pur non avendo partecipato alla conferenza, da anni attuava una politica di ospitalità nei confronti degli ebrei).
L’atteggiamento ipocrita delle nazioni democratiche riguardo l’accoglienza degli ebrei è stato condensato in una frase di Goebbels che nel marzo 1943 poteva rilevare sarcasticamente:

« Quale sarà la soluzione del problema ebraico? Si creerà un giorno uno stato ebraico in qualche parte del mondo? Lo si saprà a suo tempo. Ma è interessante notare che i paesi la cui opinione pubblica si agita in favore degli Ebrei, rifiutano costantemente di accoglierli. Dicono che sono i pionieri della civiltà, che sono i geni della filosofia e della creazione artistica, ma quando si chiede loro di accettare questi geni, chiudono loro le frontiere e dicono che non sanno che farsene. E’ un caso unico nella storia questo rifiuto di accogliere in casa propria dei geni »(2).

Un episodio che testimonia il rifiuto dell’America ad accogliere gli ebrei riguarda la vicenda della nave St.Louis. Partita da Amburgo il 13 maggio 1939 con 937 profughi Ebrei, la nave era diretta a Cuba dove i migranti erano convinti di ottenere il visto per gli Stati Uniti. Sia Cuba sia gli Stati Uniti rifiuteranno però il permesso d’accesso ai rifugiati, obbligando così la nave a tornare in Europa.
Anche l’ipotesi di creare, prima nell’Isola di Madagascar e poi in Palestina, uno stato ebraico fallì per la forte opposizione di Francia, Inghilterra e Stati Uniti. Fallirono anche le trattative condotte Ministro degli Affari Esteri germanico Helmut Wohltat nell’aprile 1939 con il governo inglese per un insediamento ebraico in Rhodesia e nella Guinea britannica (3).
Nonostante la sostanziale indisponibilità, che rasentava il boicottaggio, delle nazioni democratiche la politica emigratoria del governo nazista proseguì con l’istituzione dell’”Ufficio per l’Emigrazione Ebraica” con sedi a Berlino, Vienna e Praga che aveva il compito di agevolare il trasferimento degli ebrei e dei loro beni in Palestina. Furono anche organizzati dei campi di addestramento in Germania dove i giovani ebrei potevano essere iniziati ai lavori agricoli prima di essere introdotti più o meno clandestinamente in Palestina (all’epoca la Palestina era un protettorato inglese che si opponeva con forza alla colonizzazione ebraica, nonostante nel 1917 si impegnò formalmente, con la dichiarazione di Balfour del 2 novembre, a costituire il focolare ebraico in Palestina).
Fatto singolare e che nei circa 40 campi e centri agricoli della Germania hitleriana gestiti direttamente dal Mossad in cui i futuri coloni venivano addestrati alla vita nei kibbutz, sventolava per la prima volta quella bandiera blu e bianca che un giorno diventerà il vessillo ufficiale dello Stato di Israele (4).
Per liberarsi della presenza ebraica favorendo l’emigrazione in Palestina, il governo tedesco stipulò con le organizzazioni sioniste il cosiddetto “Accordo di Trasferimento” noto anche come Haavara, in virtù del quale gli ebrei emigranti depositavano il denaro ricavato dalla vendita dei loro beni in un conto speciale destinato all’acquisto di attrezzi per l’agricoltura prodotti in Germania ed esportati in Palestina dalla compagnia ebraica Haavara di Tel Aviv.
certificata HAAVARA
Certificato di trasferimento di capitali ebraici dalla Germania alla Palestina
L’accordo di Trasferimento è stato sottoscritto il 10 agosto 1933 dal Ministro dell’economia del Reich Kurt Schmitt e dal rappresentante del Movimento Sionista in Palestina  Haim Arlosoroff che agiva per conto del Mapaï, il partito Sionista antenato del partito Laburista israeliano. A questa iniziativa politico-commerciale parteciparono personaggi divenuti in seguito molto noti come i futuri Primi Ministri David Ben-Gurion e Golda Meir (che collaborava da New York)(5).
Alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, grazie all’ Haavara e ad altri accordi tedesco-sionisti, dei circa 522 mila ebrei presenti in Germania più della metà, 304 mila, poterono lasciare il paese con i loro beni superando il rigido embargo inglese. Alcuni di loro trasferirono in Palestina considerevoli fortune personali.
L’importo complessivo di danaro trasferito per mezzo dell’Haavara fra l’agosto del 1933 e la fine del 1939, fu di circa 139 milioni di marchi  (equivalenti a oltre 40 milioni di dollari). A cui si aggiungono ulteriori 70 milioni di dollari attraverso accordi commerciali collaterali. Grazie a questi trasferimenti e ai prelievi obbligatori imposti dal Movimento Sionista sulle transazion, furono costruite le infrastrutture del futuro stato ebraico in Palestina.
Lo storico ebreo Edwin Black sottolinea che i fondi ebraici provenienti dalla Germania ebbero un significativo impatto in un paese sottosviluppato com’era la Palestina degli anni ’30. Con i capitali provenienti dalla Germania furono costruite varie importanti imprese industriali, compresi l’acquedotto Mekoroth e l’industria tessile Lodzia. «attraverso questo patto, il Terzo Reich di Hitler fece più di ogni altro governo negli anni ’30 per sostenere lo sviluppo ebraico in Palestina» conclude Edwin Black(6).
Questa intesa portò successivamente ad un accordo commerciale tra Governo tedesco ed organizzazioni ebraiche con il quale arance e altri prodotti coltivati in Palestina venivano scambiati con macchinario agricolo tedesco(7).
Una immagine singolare che sintetizza meglio di altre la collaborazione tra nazisti tedeschi ed ebrei sionisti è la medaglia commemorativa coniata allo scopo dal Governo tedesco che reca su una faccia la svastica e sull’altra la stella di David.
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Medaglia commemorativa della collaborazione tra autorità tedesche e associazioni ebraiche sioniste durante gli anni trenta

Altra vicenda poco nota riguarda la nave passeggeri partita nel 1935 dal porto tedesco di  Bremerhaven con un carico di ebrei diretti ad Haifa, in Palestina. Questa nave, recava sul  fianco il suo nome, Tel Aviv, scritto in caratteri ebraici, e sull’albero sventolava la bandiera nazista con la croce uncinata. La nave di proprietà ebraica era comandata da un membro del Partito Nazionalsocialista(8).

Altro esempio della stretta collaborazione tra regime hitleriano e sionismo tedesco riguarda i gruppi giovanili ebraici come il “Bétar“ ed ai boy scouts sionisti cui fu permesso di indossare uniformi proprie  e di sventolare bandiere con simbolo dello Stato Sionista (cosa negata ad esempio ai gruppi giovanili cattolici, nonostante il Concordato).

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Manifestazione del gruppo giovanile ebraico tedesco Betar nel 1934

Intanto il governo britannico, da sempre ostile agli insediamenti ebraici in Palestina, impose delle restrizioni ancora più drastiche. In risposta a ciò, il servizio segreto delle SS concluse una alleanza con il gruppo sionista clandestino Mossad le-Aliya Bet  per portare illegalmente gli ebrei in Palestina. Come risultato di questa intensa collaborazione, vari convogli marittimi riuscirono a raggiungere la Palestina superando le navi da guerra britanniche pronte a colpire le imbarcazioni ebraiche. Nell’ottobre del 1939 era programmata la partenza di altri 10.000 ebrei, ma lo scoppio della guerra a settembre fece fallire il tentativo. Le autorità tedesche continuarono lo stesso a promuovere indirettamente l’emigrazione ebraica in Palestina negli anni successivi fino al 1941.

Una stima, seppur approssimativa, fissa in circa 800 mila gli ebrei che lasciarono i territori sotto il controllo germanico fino al 1941.

Con l’avvicinarsi della guerra ci fu la svolta e la posizione degli Ebrei cambiò in modo radicale. Il 5 settembre 1939, Chaim Weitzmann, futuro primo presidente dello stato di Israele, a nome dell’ebraismo mondiale si dichiarò parte belligerante contro i tedeschi e a fianco di Gran Bretagna e Francia (Jewish Chronicle, 8 settembre 1939). Questa vera e propria dichiarazione di guerra, che precedette l’identico atto del  marzo ’33, causò un inasprimento delle misure repressive contro gli ebrei e conferì ai nazisti una motivazione legale per la loro reclusione.WEIMAR_020

La prima pagina del quotidiano londinese Daily Expressi del 24 Marzo 1933: “L’Ebraismo dichiara guerra alla Germania, Ebrei di tutto il mondo unitevi”. “Il popolo israelita del mondo intero dichiara guerra economica e finanziaria alla Germania. La comparsa della svastica come il simbolo della nuova Germania fa rivivere il vecchio simbolo di guerra degli Ebrei. Quattordici milioni di ebrei sono uniti come un solo corpo per dichiarare guerra alla Germania. Il commerciante ebreo lasci il suo commercio, il banchiere la sua banca, il negoziante il suo negozio, il mendicante il suo miserabile cappello allo scopo di unire le forze nella guerra santa contro il popolo di Hitler”.

Il diritto internazionale, infatti,  prevede  la possibilità di internare i cittadini di origine straniera per evitare possibili azioni di spionaggio a favore dei paesi di origine (art. 5 della convenzione di Ginevra), cosa che fece l’America con i cittadini di origine giapponese: dopo averli spogliati di tutti i beni confiscandogli casa, attività e conti bancari, furono rinchiusi in campi di concentramento in condizioni disumane. Verso la fine della guerra nel campo di prigionia di Hereford, nella ricca America, i soldati italiani che rifiutarono di collaborare con gli alleati venivano volutamente sottoalimentati e lasciati morire di tubercolosi, senza cure, sotto l’acqua o il sole cocente, in mezzo agli abusi dei carcerieri che non esitavano ad uccidere al primo cenno di insofferenza. Prima di loro gli inglesi avevano internato, durante la guerra contro i Boeri,  oltre 100 mila donne e bambini nei campi di concentramento in sud Africa,  di questi  27 mila morirono di stenti, malattie e malnutrizione (crimini passati sotto silenzio).

Lo scoppio del conflitto pose fine alla politica tedesca di incoraggiamento al trasferimento degli ebrei verso la Palestina (nel 1942 restava in attività nella Germania un solo Kibbutz a Neuend(9).

Tuttavia, nei primi anni di guerra, i rapporti tra nazisti e organizzazioni ebraiche non furono del tutto interrotti, ma si spostarono sul piano prettamente militare in funzione anti inglese, anche se  l’influenza che ebbero sugli avvenimenti bellici fu praticamente nulla.

Agli inizi di gennaio del 1941 una piccola, ma importante organizzazione sionista, Lehi o Banda Stern (il cui leader Avraham Stern fu assassinato dalla polizia britannica l’anno successivo), fece ai diplomatici nazisti a Beirut una proposta formale di alleanza per lottare contro gli inglesi: la cosa che più colpisce è che uno di essi era Yitzhak Shamir, futuro primo ministro di Israele(10).

Con il proseguimento della guerra che richiedeva sempre più soldati al fronte e operai nelle fabbriche il governo tedesco abbozzò l’idea di utilizzare massicciamente gli ebrei nell’industria bellica. Dopo l’attacco alla Russia l’idea del lavoro forzato prese corpo e fu perfezionata nel corso della conferenza di Wannsee del  20 gennaio del 1942 con il definitivo abbandono della politica di emigrazione e l’adozione della cosiddetta “soluzione finale territoriale” (eine territoriale Endlösung) che sostituiva la politica del trasferimento con quella della deportazione di tutti gli ebrei nei campi di lavoro dell’est.

«Adesso, nell’ambito della soluzione finale, gli ebrei dovrebbero essere utilizzati in impieghi lavorativi a est, nei modi più opportuni e con una direzione adeguata. In grandi squadre di lavoro, con separazione dei sessi, gli ebrei in grado di lavorare verranno portati in questi territori per la costruzione di strade, e non vi è dubbio che una gran parte verrà a mancare per decremento naturale. Quanto all’eventuale residuo che alla fine dovesse ancora rimanere, bisognerà provvedere in maniera adeguata, dal momento che esso, costituendo una selezione naturale, è da considerare, in caso di rilascio, come la cellula germinale di una rinascita ebraica» (Dal protocollo di Wannsee del 20 gennaio 1942).

Gli studiosi dell’Olocausto hanno sempre sostenuto che il piano generale dell’ebreicidio nazista venne ideato nella riunione di Wannsee, ma Norbert Kampe direttore del Centro Commemorativo della Conferenza di Berlino, contesta questa tesi. Egli  afferma che la conferenza riguardò solo “questioni operative” e non fu in alcun modo una piattaforma di “processi decisionali”, confermato dal fatto che alla conferenza di Wannsee Hitler e i suoi ministri non erano presenti.

Dove erano situati grandi insediamenti industriali furono istituiti campi di lavoro, come per esempio la fabbrica di caucciù sintetico a Bergen-Belsen, la I.G. Farben ad Auschwitz, la Siemens a Ravensbrück, la fabbrica sotterranea delle V-2 di Mittelbau-Dora collegata al campo di Buchenwald.

Il compito di utilizzare al meglio i campi di concentramento come centri di produzione industriale fu affidato all’Ufficio Centrale di Amministrazione Economica delle S.S. diretto da Oswald Pohl.

Il lavoro coatto fu utilizzato anche dalla società di costruzioni Todt per il ripristino delle linee di comunicazione (strade, ponti ferrovie,) che venivano costantemente distrutte dai bombardamenti alleati. questi lavori, che richiedevano un’enorme massa di operai (più di 1.500.000 nel 1944), furono svolti in buona parte ebrei e prigionieri di guerra(11).

Un aspetto inquietante e poco dibattuto riguarda le linee ferroviarie da cui transitavano i convogli carichi di ebrei. Gli alleati sapevano fin dagli inizi del 1942 dell’esistenza dei campi di concentramento eppure, nonostante i massicci bombardamenti alleati che ridussero in macerie la Germania, le linee ferroviarie utilizzate dai tedeschi per trasferire gli ebrei nei campi di lavoro non furono mai attaccate, se non come effetto collaterale (come avvenne il 24 agosto del 1944 con il bombardamento della fabbrica di armamenti di Mittelbau-Dora che coinvolse il vicino campo di Buchenwald dove morì, per effetto delle bombe alleate, Mafalda di Savoia).

Come mai, mi domando, questi fatti sono sottaciuti se non del tutto ignorati anche dagli storici più autorevoli? Forse per non mettere in imbarazzo i cosidetti “paladini della libertà”?

Nel “Giorno della Memoria” esprimiamo la nostra piena solidarietà al popolo ebraico per la persecuzione subita e la ferma condanna ad ogni forma di discriminazione razziale. Questo però non deve indurci a sorvolare sulle pesanti responsabilità, condite di cinismo e ipocrisia, delle democrazie occidentali che vedevano, sapevano e volgevano lo sguardo altrove, rendendosi, perlomeno sotto il profilo politico e morale, complici dei carnefici.

Gianfredo Ruggiero

Note                                                                                                                      

1)    Il giornale ufficiale della SS, “Das Schwarze Korps”, dichiarò il proprio sostegno al Sionismo in un editoriale di prima pagina del maggio del 1935:

 « Può non essere troppo lontano il momento in cui la Palestina sarà di nuovo in grado di ricevere i propri figli che ha perduto per più di mille anni. A loro vanno i nostri migliori auguri ».

Gli ebrei sionisti a loro volta, nel settembre del 1935 dopo la promulgazione della legislazione razziale tedesca (leggi di Norimberga) che sancivano la netta separazione della comunità ebraica dal resto della nazione tedesca ponendo il divieto di matrimoni misti e altre pesanti limitazioni che andavano in tale direzione, dichiararono, attraverso un editoriale del più diffuso settimanale sionista tedesco, il “Die Judische Rundschau”:

« la Germania viene incontro alle richieste del Congresso Mondiale Sionista quando dichiara gli ebrei che oggi vivono in Germania una minoranza nazionale… Le nuove leggi danno alla minoranza ebraica in Germania la propria vita culturale, la propria vita nazionale. In breve, essa può creare il proprio futuro ».

 2)    Bernd Nellessen: “Der Prozesi von Jerusalem”, Düsseldorf/Wien, 1964, p. 201.

3)    Theodor Herzl, nella sua prima opera “Der Judische Staat” (Lo stato ebraico)  aveva  individuato, nell’isola di Madagascar il luogo ideale dove fondare lo stato di Israele. Questa ipotesi fu presa in seria considerazione dai nazionalsocialisti in quanto l’insediamento in Palestina, la patria ideale degli ebrei, avrebbe inevitabilmente portato ad un scontro con gli arabo-palestinesi (cosa che effettivamente avvenne a partire dal 1948). Tuttavia anche questa ipotesi fu in seguito accantonata a causa del netto rifiuto delle democrazie occidentali. La patata bollente ritornò, di conseguenza, nelle mani dei tedeschi che riprese l’opzione Palestina.

4)    Manvell e Fankl: “SS und Gestapo”.

5)    L’accordo di Trasferimento autorizzava i Sionisti a creare due camere di compensazione, la prima sotto la supervisione della Federazione Sionista Tedesca di Berlino, l’altra sotto la supervisione dell’Anglo Palestine Trust in Palestina. L’ufficio di Tel Aviv è stato chiamato Haavara Transfert Office Ltd.  Si trattò di un vero e proprio accordo commerciale che, fra l’altro, contribuì a rompere il boicottaggio mondiale anti-nazista organizzato contro la Germania. Le compagnie erano due: la Haavara, ebraica a Tel Aviv, e la Paltreu, tedesca a Berlino. Il deposito minimo era di 1.000 sterline inglesi presso la Banca Wasserman di Berlino oppure presso la Banca Warburg di Amburgo. Tom Segev in “Le septieme million”, ed. Liana Levi, 1993.

6)    Edwin Black: “The Transfert Agreement”, 1984; F. Nicosia: “Third Reich”; W. Feilchenfeld: “Haavara-Transfer”; Encyclopaedia Judaica: “Haavara”, Vol. 7.

7)    Questa sorta di baratto esteso a tutte le esportazioni/importazioni, cardine della politica economica nazista che contribuì alla ripresa della Germania dopo i disastri della Repubblica di Weimar, fu fortemente osteggiato dalle organizzazioni ebraiche non sioniste che, al contrario, sostenevano l’embargo dei prodotti Made in Germany.

8)    W. Martini: “Hebräisch unterm Hakenkreuz”, Die Welt , 10 gennaio 1975.

9)    Y. Arad: “Documents On the Holocaust”, 1981, p. 155.

10) http://holywar.org/Sio_Naz.htm.

11) Creata da Fritz Todt, l’organizzazione operò in stretta sinergia con gli alti comandi militari durante tutta la Seconda guerra mondiale. Il principale ruolo dell’impresa era la costruzione di strade, ponti e altre opere di comunicazione, vitali per le armate tedesche e per le linee di approvvigionamento, così come della costruzione di opere difensive: la Linea Sigfrido, il Vallo Atlantico e – in Italia – la Linea Gustav e la Linea Gotica.

Link

Falsificazioni fotografiche http://ita.vho.org/valendy/ugo.htm

campo di concentramento di Buchenwald:http://www.fncampoli.altervista.org/bw.htm

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Una risposta a OLOCAUSTO


giovedì 24 gennaio 2013

EQUIVOCI SULLA SOCIALIZZAZIONE



Rutilio Sermonti
                              EQUIVOCI SULLA SOCIALIZZAZIONE
   Questo mio intervento si propone un doppio scopo, che nello scampolo di vita che mi resta spero mi venga concesso di raggiungere almeno in parte:
    Il primo è quello di fare intendere ai molti camerati, sia giovani che anziani, che uniscono ad una encomiabile fede, sinceramente sentita, una singolare carenza di studio e di documentazione, quale sia stato il significato  e la portata della Socializzazione delle imprese, voluta, studiata, progettata e portata in fase di realizzazione dal Fascismo, con un processo ininterrotto che va dall'aprile 1926 al febbraio 1944 (quindi, non solo dalla R.S.I., come i predetti mostrano di credere). Della socializzazione e dei suoi taumaturgici effetti, anche se -in ipotesi- applicata oggi, è ormai di prammatica essere entusiasti, ma occorre diffidare dell'entusiasmo. Esso è un moto dell'animo, che, alla pari del fanatismo, può essere provocato anche con bassi espedienti. Assai meglio, e più affidabile, è la convinzione, profondamente sentita e motivata, al pari di quella maturata in me, grazie anche all'insegnamento di mio Padre, che, mentre io ero al combattimento contro gli invasori, fu del corporativismo e della sua fase socializzatrice uno dei più umili ma più alti maestri e realizzatori.
   Ebbene, la tesi secondo cui il "vero Fascismo" sarebbe solo la Socializzazione del '44, mentre il precedente non sarebbe stato altro che una serie di compromessi col capitalismo è talmente stolta ed irreale che si sarebbe tentati di liquidarla in poche parole. Mussolini stesso ci ha trasmesso l'insegnamento basilare che il grande demiurgo, per geniali che siano le sue intuizioni, se veramente vuol servire il suo popolo, deve far sempre i conti con la "mutevole e complessa realtà". E qual'era la realtà e la mentalità economica in cui Egli iniziò ad operare, se non quella capitalistica, secondo cui l'iniziativa (e il rischio d'impresa) spettava agli imprenditori, mentre i lavoratori non avevano altro diritto che a un equo compenso, che peraltro dovevano tutelarsi da sè (sindacalismo)? Altra realtà (tutt'altro che mutevole) da tener presente era che il popolo lavoratore ha continuativamente bisogno di avere un tetto sulla testa, qualcosa da mettere in pentola, vesti per coprirsi e  cure mediche se malato, e che le "ideologie" roboanti sono un pessimo riparo contro le intemperie. Eccoli, i "loschi compromessi" di Mussolini! Meglio forse la "coerenza ideale di un Robespierre o di un Lenin e poi Stalin, sguazzanti nel sangue dei loro compatrioti , e celebranti con esso il trionfo degli speculatori ?
   La mia seconda aspirazione è quella di guarire tanti miei cari amici giovani e meno giovani dal malvezzo di ingolfarsi in polemiche e prese di posizione su questioni anche fondamentali per la nostra "Weltanschauung", avendone solo una vaga nozione per sentito dire.
   Ora, comprendere il vero valore e l'immensa portata della Socializzazione fascista, equivale a riscattarsi da tutte le aberrazioni mentali che ne accompagnano l'incomprensione attuale, ed è quindi sacrosanto ed urgente, sia al primo che al secondo effetto.
    Ho sottomano il programma elettorale dell'unica formazione nostra partecipante alla prossima tornata schedaiola,
che sia in regola per meritare l'appoggio elettorale di tutti gli uomini di retto sentire: Forza Nuova, diretta da Roberto Fiore. Ecco l'unico accenno alla Socializzazione riscontrabile (in punta di piedi) in esso: " Previsione di un'equa ripartizione degli utili d'impresa tra datori di lavoro e dipendenti". Prova clamorosa della necessità di questa mia veemente messa a punto. Perchè la Socializzazione CON L'EQUA RIPARTIZIONE NON C'ENTRA NULLA !
    Abbiate la compiacenza di seguirmi:
    Con la trasformazione dell'impresa produttiva, dalla semplice indicazione dell'attività dell'imprenditore ad una  "persona giuridica", titolare di diritti e di doveri, come una società o un ente autonomo, di cui facevano parte a pari titolo, prestatori d'opera e imprenditori, e con il conseguente trasferimento del rapporto di lavoro dal campo delle obbligazioni a quello associativo,  il compenso dei prestatori d'opera diveniva giuridicamente di partecipazione agli utili. Non vi si "aggiungeva" la partecipazione agli utili -puntualizziamo-: "diventava" giuridicamente partecipazione agli utili. Ma, economicamente parlando, lo era sempre stato. Da dove mai, se non dagli utili, proveniva il denaro per pagare stipendi e salari ?
    Per quanto riguarda l'importo, però, il discorso si fa più complesso. In regime capitalista puro, vi era solo un contrastante interesse degli imprenditori ad aumentare le prestazioni e a contrarre le retribuzioni, ed uno di segno opposto da parte lavoratrice. A seguito della crescente importanza delle macchine ( che sono capitale ) funzionava però la c. d. "legge bronzea dei salari", che poneva i lavoratori in condizione d'inferiorità rispetto ai loro antagonisti.
    Come si raggiungeva l'equilibrio ? Con l'attività sindacale, ossia con l'arma dello sciopero, consistente nella voluta inademplenza  collettiva al contratto di lavoro. Lo sciopero economico, se riuscito, poneva l'imprenditoria nell'alternativa di cedere alle richieste dei lavoratori oppure veder bloccata la produzione, con la conseguente perdita. Ma era pur sempre una soluzione di forza, che non si risolveva secondo equità, ma solo in base alla capacità di una delle parti di recar danno all'altra. E si risolveva comunque in una distruzione di ricchezza, e soprattutto di solidarietà sociale, per tacere dei sabotaggi e delle violenze che regolarmente l'accompagnavano, e che impegnavano sovente la "forza pubblica" in repressioni anche cruente.
    Naturalmente, il Fascismo, che considerava prioritario l'interesse nazionale, non poteva acconciarsi a un simile sistema. E , con una delle sue prime leggi fondamentali ( 3.4.1926, n°563) sull'ordinamento sindacale di diritto, istituiva un sistema insuperato e insuperabilebile per la soluzione soddisfacente delle controversie collettive di lavoro, produttivo di contratti collettivi validi "erga omnes" che soddisfacessero nel miglior modo i legittimi interessi di parte, armonizzandoli però con quelli superiori dell'economia nazionale, unitariamente intesa. Esso, come sappiamo, si articolava in tre "fasi":
a) riconoscimento delle associazioni sindacali solo se garantissero di subordinare gli interessi di parte a quelli superiori della produzione nazionale;
b) nel caso che, malgrado ciò, le due parti non riuscissero a raggiungere un accordo, intervento conciliativo della Corporazione del ramo, che rappresentava le necessità della produzione sub a).
c) ove anch'esso non raggiungesse lo scopo, era istituita una sezione speciale della Corte d'Appello, denominata Magistratura del Lavoro, in cui a magistrati togati erano affiancati studiosi e competenti delle questioni economiche e tecniche poste in discussione, la quale, udite le argomentazioni di ambo le parti, emetteva una sentenza tenente luogo a tutti gli effetti di un contratto collettivo di lavoro.
   Va aggiunto, in linea di fatto,  che, essendo le due parti contrastanti ben al corrente dei criteri a cui sia le Corporazioni che la Corte si sarebbero attenuti, il ricorso alla mediazione corporativa, e ancor più alla Magistratura fu di fatto assai raro, ben essendo le organizzazioni sindacali capaci di applicarseli da sè, quei criteri,  risparmiando spese e lungaggini.
   Con tale intelligente sistema (che ci fu invidiato da tutto il mondo), il problema della fissazione delle mercedi e delle altre  condizioni di lavoro era brillantemente risolto senza "lotta di classe" e senza turbative della produzione, sin dal 1926, senza bisogno di attendere il 1944.
   Nè bisogna illudersi che, con la Socializzazione delle imprese, e con la trasformazione delle mercedi da compensi pattizi a partecipazioni agli utili, il metodo  del 1926 fosse superato. Scendendo dalle rosee nuvolette delle ideologie a rimetter piede nella realtà, deve infatti darsi conto della funzione del tutto diversa degli utili dei lavoratori e di quelli degli imprenditori ( di regola, società di capitali). I primi, infatti, hanno funzione alimentare (in senso lato), e cioè di assicurare i mezzi di vita alla famiglia del prestatore d'opere, mentre per i secondi il cosiddetto "salario dell'imprenditore", per quanto generoso, ha uno spazio assai modesto, e gli utili hanno una vasta serie di impieghi economici. Ne consegue che i primi non possono esimersi dall'essere tempestivi, regolari e di importo sufficiente. Una grande impresa può rinviare ad annata
più favorevole certi investimenti, ampliamenti e migliorie, ma le esigenze vitali del dipendente non sono procrastinabili. Non possono quindi adeguarsi agli alti e bassi degli utili d'impresa, e, tanto meno, essere talora perdite.
    Inevitabile: anche in regime di socializzazione, i guadagni del partecipante-lavoratore devono avere la stessa regola quantitativa, stabile e garantita del salario corporativo, mentre tali non sono - come ben sanno tutti, gli utili d'impresa.
    Come si ovviava ? Con la creazione di una gigantesca cassa di compensazione (I.Ge. Fi), cui affluissero tutti gli utili spettanti ai lavoratori, e che li ri-distribuisse in modo da assicurare loro le  necessarie caratteristiche di cui sopra. Chiaro, che non ci dovesse essere il ruba-ruba democratico, perchè altrimenti le famiglie proletarie, in pentola, non avrebbero potuto metterci che solenni diritti, il cui valore nutritivo è pari a zero.
     La strana convinzione diffusa che la socializzazione della R.S.I. consentisse semplicemente alle maestranze di tuffare le mani negli utili delle singole imprese e di vivere felici e contente, è quindi solo sciocca e infantile, mentre il fascismo era cosa molto seria, e soprattutto seria.
     La rivoluzione socializzatrice sostanziale consisteva infatti nella partecipazione del lavoro alla gestione.
     In primo luogo, perchè i lavoratori, di tutti i livelli, non sono soltanto lavoratori: sono uomini a tutti gli effetti, composti inscindibilmente di tutte le qualità umane, mentre le S.P.A. datrici di lavoro non sono che grumi artificiosi di capitale. Possono quindi i primi rendersi sensibili a tutti quei valori extra-economici che, nelle concezioni fasciste, prevalgono anche sulla regola del profitto, che domina i c.d. "mercati".
    In secondo luogo, perchè i lavoratori, di tutti i livelli, sono fortemente legati all'impresa, mentre gli "azionisti-capitale" sono in parte ad essa del tutto estranei (speculatori in borsa). 
    In terzo luogo, perchè le maestranze dispongono, ciascuna, di una competenza specifica acquisita nella propria funzione , mentre gli azionisti, non avendo in buona parte alcuna funzione, neppure imprenditoriale, sono in buona parte del tutto incompetenti, se non nei giochi speculativi, socialmente e nazionalmente inutili (v. dich. 2^ della C.d.L.).
    Si rilevi come, con la socializzazione, si sanzionava il netto passaggio dell'uomo-imprenditore dal "campo" capitalistico a quello di "primo lavoratore dell'impresa".
    Mussolini e i suoi, a cominciare da Tarchi, sotto le bombe liberatorie e gli assassinii dei "resistenti", seppero quindi compiere un passo decisivo nella fondazione di una nuova civiltà romana, applicabile nel XX secolo. Ma non illudiamoci: quel passo cominciò nel 1926, non 18 anni dopo ! Senza la "santa gradualità" corporativa, esso sarebbe stato del tutto inconcepibile, come lo sarebbe oggi, con quello che la "liberazione" ha ridotto l'uomo.
    C'è tutto -veramente tutto !- da rifare.
    Ma non è questo un motivo per scoraggiarsi. E' un motivo per non perdere altro tempo ! 

martedì 22 gennaio 2013

La legge sulla Reichsbank di Adolf Hitler



Nel giugno del 1939, in Germania, per la prima volta da quando, nel 1695 si era imposto il signoraggio, un governo aveva avuto il coraggio e la forza di nazionalizzare la banca di emissione, riacquistando, così, la proprietà della moneta. Gli avvenimenti successivi – ci riferiamo ovviamente al secondo conflitto mondiale – hanno messo in ombra questo evento di portata storica.

Le “democrazie occidentali”, che pure poco o nulla avevano fatto per salvare quell’abborracciata anomalia statale battezzata a Versailles Cecoslovacchia e da loro vezzeggiata e armata in funzione antitedesca, scoprirono all’improvviso l’irrefrenabile desiderio, l’imprescindibile necessità di “morire per Danzica”. Nessuno storico, almeno a nostra conoscenza, ha mai correlato i due fatti, il che indurrebbe a ritenere che, secondo gli ufficiali sacerdoti di Clio, i due avvenimenti, lo scoppio delle ostilità e la nazionalizzazione della banca di emissione, corrano su binari diversi, mai destinati ad incontrarsi. E questo è, quantomeno per quegli storici così attenti alla componente economica, decisamente strano.
Tutti hanno accettato di buon grado e come incontrovertibili le motivazioni ufficiali di Francia e Gran Bretagna. Eppure è ingenuo pensare che i governi inglese e francese nel dichiarare guerra alla Germania palesassero le reali motivazioni in forza delle quali decidevano di entrare in conflitto. Del resto, se “morire per Danzica” destava già non poche perplessità fra il popolo e l’esercito francese, come avrebbero mai reagito questi ad una parola d’ordine che suggerisse di morire per il signoraggio? A guerra finita, le potenze occupanti hanno provveduto a eliminare quest’anomalia bancaria tedesca, da loro vista come un pericoloso focolaio di infezione.
Gli americani hanno provveduto con la Legge n. 60 del 1° marzo 1948 (Militärregierung Deutschland, Amerikanisches Kontrollgebiet, Gesetz Nr. 60 vom 1. Marz 1948), gli inglesi con l’Ordinanza n. 129, del 1° marzo 1948 (Militärregierung Deutschland, Britisches Kontrollgebiet, Verordnung Nr. 129 vom 1. März 1948) e i francesi con l’Ordinanza 203 del 26 marzo 1949 (Militärregierung Deutschland, Französisches KontroUgebiet, Verordnung Nr. 203 vom 26. März 1949).
Non siamo in grado di fornire al lettore gli estremi della norma promulgata nel settore sovietico, del resto se si pensa che la Gosbank – la banca di emissione sovietica – era anch’essa privata e contava fra i suoi soci il miliardario “americano” Armand Hammer, è diffìcile pensare che abbiano tardato ad emettere una norma del genere.
C’erano voluti poco meno di dieci sanguinosi anni e qualche milione di morti, ma, finalmente, l’ordine era stato ripristinato e gli affari potevano riprendere il loro corso usuale. Per garantirsi, però, un lungo sonno indisturbato ed evitare il ripetersi di analoghi “crimini” era necessario demonizzare l’avversario ed esporlo al ludibrio dell’universo mondo. E anche questo è puntualmente avvenuto.
Il governo del Reich ha approvato la seguente legge, che viene così emanata :
La Banca Tedesca del Reich è, in quanto banca d’emissione, alle dirette dipendenze della totale sovranità del Reich. è al servizio della realizzazione degli scopi fissati dal governo nazionalsocialista nei limiti della sfera di competenza affidatale, soprattutto per la garanzia del valore della valuta tedesca. Per regolamentare i rapporti giuridici della Banca del Reich, costituita con la legge del 14 Marzo 1875 (RGBI. S. 177), il governo del Reich ha approvato la seguente legge, che viene qui proclamata:

I. Forma giuridica e Incombenze

(1) La Banca Tedesca del Reich fa capo direttamente al Führer e Cancelliere del Reich.
(2) è persona giuridica di diritto pubblico con sede a Berlino. Può istituire delle filiali.

I compiti della Banca Tedesca del Reich derivano dalla sua posizione di banca d’emissione del Reich. Essa sola ha il diritto di emettere banconote. Deve inoltre regolamentare le transazioni e le operazioni finanziarie in Germania e all’estero. Deve anche provvedere alla utilizzazione dei mezzi economici disponibili dell’economia tedesca nel modo più appropriato per l’interesse collettivo e politico-economico.

II. Direzione e Amministrazione

(1) La Banca Tedesca del Reich è diretta e amministrata dal presidente e dagli altri componenti del comitato direttivo, secondo le disposizioni e con la supervisione del Führer e Cancelliere del Reich.
(2) Nel comitato direttivo della Banca del Reich, è il presidente che prende le decisioni.
§4
Il Führer e Cancelliere nomina il presidente della banca e gli altri componenti del comitato direttivo. Egli decide la durata del loro incarico.
Gli stipendi, gli assegni di aspettativa, le pensioni e le pensioni di guerra del presidente della banca e degli altri componenti del comitato direttivo, vengono definiti da un contratto con la Banca Tedesca del Reich. II contratto necessita dell’approvazione del Führer e Cancelliere del Reich.
Il Führer e Cancelliere del Reich può rimuovere il presidente della banca e gli altri componenti del comitato direttivo in qualsiasi momento, nel rispetto della salvaguardia dei diritti contrattuali.

http://www.daemuk.ch/legge_reichsbank_terzo_reich_germania.html

lunedì 21 gennaio 2013

Fascismo di sinistra: Giuseppe Solaro.


di Antonio Rossiello

















Le origini del Fascismo albergano nel socialismo massimalista, indi con molti elementi in comune con il marxismo e con il socialismo comunista, depurati da elementi antipopolari ed antisociali che, erroneamente e deviazionisticamente, furono instaurati nella storia seguente dall’applicazione teorico-dottrinaria di punti avulsi dalla realtà umana, con tutte le nefandezze che ne sono seguite. Il Fascismo movimento fu antagonista alla società borghese capitalista sia privatistica che di stato, vedendo come Antonio Gramsci dell’ ‘’Ordine Nuovo’’, socialcomunista di origini liberali di sinistra, nella società capitalistica americana in consolidamento e nel capitalismo di stato sovietico stalinista in fieri, i suoi due più grandi nemici sociali e culturali. Queste premesse furono cancellate dal tradimento dei valori insiti nel Programma di Sansepolcro, mediante il quale molti camerati originari si allontanarono, delusi, dalla politica, mentre la vanità e l’aspirazione al potere in sé e per sé di tronfi e complici soggetti del nuovo governo in divenire si instaurava con una rivoluzione culturale-sociale copernicana di 180 gradi, ormai lontana dagli albori dei Fasci di combattimento e pronta a raggiungere il potere trasformandosi nel Fascismo regime. Diverse potentati lobbystici contribuirono all’approdo ed al rafforzamento del nuovo governo al potere: la massoneria, la Monarchia, la borghesia, la finanza, i militari, la chiesa, che volevano cambiare tutto per non mutare niente nei sistemi di poteri. Il Fascismo comunque fu una Terza via, definizione che si riferisce a un'alternativa alle due classiche teorie economiche del capitalismo e comunismo, elaborata agli inizi del XX secolo come sistema economico a sé stante e diverso da entrambi. In precedenza le alternative alle due maggiori teorie erano rappresentate dalla mescolanza di alcuni punti di ciascuna di esse, sotto il nome di Repubblicanesimo mazziniano e Radicalismo risorgimentale, prima, e Socialdemocrazia, più avanti, le cui espressioni politiche più alte furono individuabili nel Socialismo Riformista, nella Rivoluzione liberale di Piero Gobetti, in Giustizia e Libertà dei fratelli Carlo e Nello Rosselli, ebrei, nel socialismo anarchico e libertario di Francesco Saverio Merlino e di Camillo Berneri, poi del radicale Ernesto Rossi e del partito azionista. Ironia della sorte nella Storia, la lotta politica interna fra queste espressioni politiche fu aspra e fratricida, più basata su differenze ideologico-teoriche che sostanziali dal punto di vista sociale e dottrinario. Le accuse reciproche, spesso strumentali, di attività cospirative ebraico-protestante-massoniche, di rafforzamento di una elite borghese repubblicana ed antimonarchica posero freno ad un’attività unitaria o cooperativa concreta per il cambiamento della società, fino a eccedere in uno stravolgimento totale delle origini, da cui ci si allontanò fino ad avere il fenomeno perverso dell’odierna partitocrazia. Espressione della socializzazione dell’economia nel Fascismo fu il federale Giuseppe Solaro.
Nato da una modesta famiglia, il padre era operaio alle ferrovie ed aveva altri due figli, Giuseppe Solaro (Torino, 1914 – Torino, 29 aprile 1945), aveva aderito entusiasticamente al Gruppo Universitario Fascista (G.U.F.) di Torino, riuscendo con sacrificio e ferrea volontà a conseguire la laurea.
Combattè volontario nella Guerra di Spagna. Dal 1940 partecipò con onore alla Seconda Guerra Mondiale come Ufficiale di complemento in artiglieria.
Dopo l'armistizio di Cassibile, da socialista nazionale, ebbe contatti con Gino
Barbero, responsabile del Partito Socialista clandestino aderì alla Repubblica Sociale Italiana per difendere l’onore d’Italia, segretario provinciale del Partito fascista repubblicano a Torino dal 1943 al 1945. Dopo l'8 settembre fu tra i primissimi ricostruttori dei Fascismo torinese e fu Segretario Federale fino al sopraggiungere del crollo. Sapeva trasfondere la fede purissima che lo animava in quegli italiani che avevano voluto raccogliersi attorno al vessillo della rinascita e con mano ferma guidava il Fascismo torinese nel travagliatissimo periodo che straziava la Patria. Vasto e profondo fu il contributo di cultura e di opere che dedicava alla vita della Repubblica Sociale Italiana. Già collaboratore dell'organo del GUF, trattava nell'organo Federale ‘’La Riscossa’’ che su ‘’La Stampa’’ i principali problemi di quei momenti difficilissimi, e quello della socializzazione, di cui era uno studioso competente e un convinto e fervente assertore. Istituì, dopo la emanazione delle leggi relative, dei corsi di preparazione operaia sull'economia socializzata e pubblicò opuscoli illustrati accessibili al lavoratori. Un suo studio fu anche presentato al Duce e fu particolarmente apprezzato. In questo periodo seguì con particolare attenzione l'attuazione dei decreti sulla socializzazione dei mezzi di produzione promuovendo diverse iniziative tra i lavoratori (conferenze, stampa di opuscoli, ecc.) al fine di rendere noti i contenuti della nuova legislazione sociale di cui è convinto assertore. Denunciò a Mussolini, insieme al prefetto Zerbino, gli intrallazzi della Fiat e dei tedeschi che, insieme ai comunisti, boicottarono ogni iniziativa sociale.
Il modo in cui il Partito Nazionale Fascista governò l’Italia nel ventennio non coincise con gli ideali proposti nel congresso di San Sepolcro del futuro Fascismo movimento, ma questo fu addebitato al freno esoterico posto da quei poteri (Monarchia, finanza, massoneria, chiesa, militari, borghesia) verso cui il Fascismo delle origini per instaurarsi al potere e poi trasformarsi e divenire regime aveva un concreto debito di riconoscenza per averlo inizialmente favorito come scudo contro il bolscevismo, e dai quali non poteva esulare data l’influenza che essi avevano nel sistema sociale italiano, come poi si rivelò prima con l’omicidio affaristico-massonico dell’agrario social riformista e democratico Giacomo Matteotti e poi con i fatti cospirativi monarchico-massonici della seduta del Gran Consiglio del Fascismo del 25 luglio 1943. Solo nella fase crepuscolare della Repubblica Sociale Italiana, una volta fuori gioco molti di qui poteri ostracisti, si potè proporre argomentazioni più ardite. I cardini su cui si rifondò la politica fascista riprendendo le posizioni del sansepolcrismo furono originati dal sincretismo tra teorici marxisti comunisti quali Nicola Bombacci, economisti eretici quali Giuseppe Spinelli e Giuseppe Solaro, politici quali Angelo Tarchi e il teorico sociale-nazionale Stanis Ruinas, e un poeta, l’americano italianizzato Ezra Pound. Essi furono: Socializzazione, Corporativismo, Fiscalità monetaria del poeta Ezra Pound.
Al momento del crollo militare seguì personalmente le trattative con il C.N.L. non per la resa, ma per il passaggio dei poteri civili, poi si consegnò ad un colonnello dei Carabinieri. Amico del camerata torinese Arturo Pontecorvo.
Viveva per la Causa e tutto se stesso aveva votato alla Causa; in un modesto ambiente, nell’ammezzato della Federazione, erano con lui la moglie e due tenere bambine. Il fervore, la fede degli Italiani che credevano nella rinascita a nulla valsero e venne il giorno del crollo, al quale Solaro non sapeva rassegnarsi. Per evitare un bagno di sangue, ordinò ai volontari fascisti di seguire i ventimila soldati che lasciavano Torino. Lui restò in città. Egli voleva realizzare lo scopo di tutelare le famiglie, gli averi e la vita dei fascisti e per questo si assunse la responsabilità di intavolare trattative col CLN, con la mediazione di Don Garneri, parroco dei Duomo, onde, evitare spargimento di sangue. Avvennero alcuni incontri in Prefettura per concordare il trapasso delle consegne. Egli, con grande altruismo, pose subito come condizione che si escludesse qualsiasi riferimento alla sua sorte personale. Dal 25 al 27 aprile Torino, il gruppo Leonessa, insieme con altri reparti della RSI riuscì ad impedire che si realizzasse la completa occupazione della città da parte del movimento partigiano, con duri combattimenti in molte zone centrali di Torino. L’estrema resistenza e l’estremo sacrificio furono compiuti dall’insurrezione fascista delle Brigate Nere di Torino agli ordini di Solaro.
Il 27, in seguito ad un ordine del comando fascista, le truppe lasciarono ordinatamente il capoluogo piemontese: si trattava ancora di migliaia di uomini perfettamente armati, che, attraverso Piazza Castello, si incamminarono in direzione di Milano, unendosi, lungo il tragitto, con altre unità provenienti da altre zone operative del Piemonte occidentale. A Torino era rimasto il federale fascista, Giuseppe Solaro, che aveva organizzato gruppi di franchi tiratori che impegnarono i partigiani fino al 30 aprile. Avendo saputo che nella zona di Ivrea era stata costituita una "zona franca" per i militari della Rsi, organizzata dalle truppe americane, tutte le forze uscite da Torino e le altre che si erano aggiunte, si concentrarono a Strambino Romano, dove, il 5 maggio, le truppe fasciste e le unità tedesche si arresero agli alleati i quali concessero l’onore delle armi. Il giorno prima, i fascisti, avvicinati da alcuni partigiani di Giustizia e Libertà, si erano rifiutati di arrendersi ad altri che non fossero soldati regolari e pertanto attesero, appunto, l’arrivo degli americani. Un ultimo convegno avrebbe dovuto avvenire in Prefettura il giorno di venerdì 27 aprile per la ratifica degli accordi intervenuti: ma nessuno dei CLN si fece più vivo. Telefonò soltanto Don Garneri dicendo che all'ultimo momento gli elementi dei CLN non vollero saperne di trattative coi fascisti e tutto fu annullato. Un episodio che fa onore tanto alla memoria di Solaro quanto all'ora Alto Commissario per il Piemonte, Grazioli.  I tedeschi avevano, a loro volta, intavolato trattative col CLN, tendenti ad ottenere il ripiegamento indisturbato dei loro reparti dalla frontiera alpina, e, per ottenere lo scopo, avevano concentrato al Vallino, scalo commerciale della stazione di Porta Nuova, alcuni vagoni carichi di esplosivi con la minaccia di farli saltare qualora i patti non fossero stati conclusi ed osservati. Venuto ciò a conoscenza di Solaro e Grazioli, entrambi intervennero con energia ed ottennero che i vagoni venissero allontanati, e così fu sventata la minaccia di distruzioni gravissime nel centro della città. Naufragata ogni speranza di un pacifico trapasso di poteri, fu stabilito il ripiegamento delle forze fasciste, che vennero concentrate nella Caserma Bergia della GNR, in Piazza Carlina; la colonna partì nella notte verso la Lombardia. Ma i mezzi di trasporto erano scarsi, e vi erano dei familiari, donne e bambini, e dei feriti da porre in salvo, per cui non vi era posto per tutti. Coloro che partirono si salvarono, poiché furono concentrati poi a Coltano (PI) e, dopo i soliti processi e le non meno solite condanne, poterono, col tempo, fruire delle amnistie; e così sarebbe stato anche per Solaro. Ma egli preferì cedere il suo posto nella colonna ad altri e restò, con alcuni dei più fedeli, in città, passando la notte negli uffici dei Consorzio dei latte, di cui era Commissario uno dei Vice Federali, Astengo. Questi, il mattino successivo, fidando sulla bontà di elementi dello stesso Consorzio (il cui stabilimento era in corso Stupinigi ora Corso Unione Sovietica, e gli uffici in Via Ospedale, ora Via Giolitti, angolo Via Carlo Alberto, dov'erano Solaro e compagni), propose di consegnarsi ai membri dei CLN dello stesso Consorzio. Questi vennero, ma presero con sé il solo Astengo, dicendo che sarebbe tornato il camioncino a prendere gli altri. Dopo parecchio tempo venne un camion, ma era condotto da partigiani installatisi nella Caserma Bergia, dove Solaro e altri tre camerati vennero riportati. Si consegnò spontaneamente ad un colonnello dei carabinieri di cui si riteneva amico, ma questi non poté o non volle salvarlo. Solaro non fu più rivisto dai suoi tre compagni di sventura, i quali, nella stessa giornata del 28 aprile, vennero trasferiti alla Questura centrale. Rimasero colà tutta la notte del 28, assistendo a scene selvagge di percosse e maltrattamenti inflitti a fascisti ed ausiliarie, mentre vennero risparmiati i quattro, che risultavano ancora sconosciuti ai loro carcerieri. Erano già in servizio carabinieri ancora in borghese, i quali fecero quanto potevano per frenare gli istinti belluini dei partigiani col fazzoletto rosso, assetati di sangue. Solaro si presentò poi alla Caserma Cernaia, che era stata sede della Brigata Nera 'Ather Capelli', della quale Solaro, come Federale, era stato comandante, e che è situata a pochi metri da Corso Vinzaglio; qui vennero scattate fotografie, fra cui quella che pubblichiamo. Il contegno di Solaro fu improntato a grande e serena fierezza, nessun segno di debolezza, ma la cosciente, intima forza derivante dalla certezza di immolarsi per una Causa in cui aveva fermamente creduto e che un giorno avrebbe finito col trionfare.
Giuseppe Solaro poco prima di essere impiccato

L'indomani, domenica 29, nelle prime ore del pomeriggio si aprì lo sportellino della cella dov'erano rinchiusi i tre camerati e si affacciò una bieca figura di partigiano comunista, il quale disse con compiacimento: 'Il vostro Solaro è stato impiccato poco fa e la stessa sorte subirete anche voi tra breve'. Il che, fortunatamente non si verificò. Risultò poi che Solaro, al quale era stato concesso di parlare con Don Garneri, dal quale sperava per lo meno un benevolo intervento, venne portato dinnanzi ad una specie di tribunale partigiano, presieduto da Oscar Luigi Scalfaro, del quale facevano parte, tra altri, i comunisti Osvaldo Negarville, fratello di Celeste (che fu, oltre che parlamentare, anche Sindaco di Torino), Barbato (Pompeo Colaianni) e un comandante Maian, non meglio identificato, che lo sottopose ad un sommario processo iniquo al termine del quale fu condannato all’impiccagione due giorni dopo. A Solaro venne attribuita, fra le tante altre, anche la responsabilità dell'impiccagione di quattro partigiani in Corso Vinzaglio, come rappresaglia per l'uccisione di Camicie Nere della Divisione Leonessa. Responsabilità da cui Solaro era completamente immune, poiché la rappresaglia era stata unicamente opera dei tedeschi. Conseguenza fu che Solaro venne condannato a subire, a sua volta, l'impiccagione nello stesso sito di Corso Vinzaglio. La radio, alle ore 13, aveva dato notizia della condanna, aggiungendo che alle 14 avrebbe avuto luogo l'esecuzione insieme a quella di altri tre fascisti; ma all'ultimo momento il supplizio venne riservato al solo Solaro. Alcuni giorni dopo fu prelevato in Questura, fu caricato su di un camion alla Caserma Bergia, e con lui fu fatto salire anche Don Garneri per l'assistenza spirituale; il tragitto fino al luogo dell’esecuzione avvenne fra sputi e contumelie. Prima dell'esecuzione fu portato in processione per le vie cittadine ed umiliato dai partigiani presenti. Il federale di Torino ebbe un sorriso, un’espressione di scherno e di disprezzo verso i propri carnefici, sapendo essere fedele al giuramento combattendo e morire. Poi fu impiccato, in un primo tempo la macabra e orrenda scena dell'impiccagione fallì, poiché il ramo cui era stato appeso il martire si ruppe ed egli rimase in vita, ormai in stato di semi-incoscienza. In altri tempi pare che gli scampati ad un'esecuzione capitale venissero graziati; ma questo non fu il caso di Solaro, i cui carnefici si affrettarono a ripetere l'operazione con un ramo più robusto, e questa volta, per loro, la cosa andò bene. Questo orrendo spettacolo avvenne in Corso Vinzaglio, nello stesso luogo dove alcuni mesi prima erano stati impiccati alcuni partigiani. La scena obbrobriosa che ricorda, per la sua bestiale efferatezza, Piazzale Loreto, avvenne in seguito. Dopo questa tragica fine, venne nuovamente portato in processione per le vie. Le spoglie, sempre col cappio al collo, vennero legate ad uno dei traversini che sorreggono la copertura dei camion, e in bocca al 'giustiziato' fu introdotto un mozzicone di sigaretta. Il macabro veicolo percorse le vie principali, con fermate al crocicchi per fare ammirare alla folla il triste spettacolo. Si disse poi, che in quel momento e in quel clima rovente, verosimilmente, che, giunto il camion sulle rive del Po, il cadavere sia stato gettato fra le onde e fatto bersaglio ai tiri di coloro che erano sulla sponda del fiume. Infine fu ripescato e gettato sul parapetto, donde, in una rudimentale cassa, fu fatto proseguire per l’obitorio. Un popolo, ricco di millenaria civiltà, abbia potuto esprimere dal suo seno certa gente, che di umano aveva solo le sembianze, è inspiegabile. Alla sua vicenda è dedicato il saggio Come ha saputo morire Solaro, (Edizioni 'La Legione', Milano, 1997), che ne celebra l'onestà personale ed il coraggio di fronte alla morte. Questa la lettera di Solaro alla moglie prima di essere ucciso: "Cara Tina, prima di morire ti esprimo tutto il mio amore e la mia devozione. Sono stato onesto tutta la vita e onesto muoio per un’idea. Che essa aiuti l’Italia sulla via della Redenzione e della costruzione. Ricordami e amami, come io ho sempre amato l’Italia. Cara Tina, viva l’Italia libera, viva il Duce ! Tuo Peppino". Inoltre la sua vicenda è menzionata nel libro "Il sangue dei vinti" di Giampaolo Pansa. Contro questa testimonianza e ricostruzione si pone altresì in maniera assai decisa il ricordo di Giorgio Amendola, dirigente del P.C.I. e comandante partigiano ( nel suo libro di memorie "Lettere a Milano", Editori Riuniti, Roma, 1973, pp. 572-573). Tutta l'esperienza di Giuseppe Solaro, fino all'estremo sacrificio, affrontato con una serenità e una fierezza che hanno del sovrannaturale, è un fulgido esempio di fede, di passione italiana.


17/11/2012