domenica 30 dicembre 2012

Di massoni golpisti e di canaglie allegre



Dal BLOG DI ANDREA CHESSA - VICE SEGRETARIO NAZIONALE PER LE ISOLE - MOVIMENTO FASCISMO E LIBERTÀ - 

Se qualcuno ha tirato un sospiro di sollievo allo scioglimento del governo guidato da quel criminale massone e usuraio-golpista che risponde al nome di Mario Monti, dovrà ben presto ricredersi. L’operazione di macelleria sociale ha subito un lievissimo rallentamento, ma è in piena esecuzione. 

I poteri massonici internazionali non vogliono rinunciare all’idea di compiere definitivamente quel processo di smantellamento della sovranità nazionale italiana – culla della civiltà mondiale per secoli – che cominciò già nel 1943, a suon di bombe democratiche. Imponendo Mario Monti come Presidente del Consiglio, e avvalendosi anche di una classe politica corrotta e disonorevolmente complice, la massoneria internazionale mondialista ed euro-tecnica, gruppo al quale Monti appartiene di diritto, ha compiuto un brutale atto di forza e una limpida dimostrazione del suo immenso potere: quello di nominare Presidenti del Consiglio e Ministri non più mediante un sistema falsamente democratico corrotto e asservito ai poteri mondialisti come in precedenza, bensì per chiamata diretta.
Mario Monti, non ci stancheremo mai di ripeterlo, è stato messo alla guida dell’Italia dalla giudeo-massoneria internazionale per avviare a tappe forzate quel processo che la precedente classe politica non era stata in grado e non aveva avuto il coraggio di fare: privatizzare le ultime importanti industrie italiane (Eni, Finmeccanica), smantellare completamente lo Stato sociale, l’istruzione, la sanità e il sistema pensionistico – per farci avvicinare sempre più al modello americano, dove se hai soldi puoi comprarti una pensione e le cure, e se non ne hai invece crepi di fame – e rendere la nostra Nazione completamente asservita agli interessi di banche e speculatori finanziari. Esempio ne sia il fatto che la discussione politica verte ancora su quella che il politicamente corretto chiama “agenda Monti”, agenda che, così ci ripetono instancabilmente, qualunque forza di governo, di qualunque colore sia, dovrà necessariamente seguire per, sempre così ci dicono, non far affondare definitivamente la nave Italia.



Ma non c’è alcun pericolo, da questo punto di vista. Ad imbarcare acqua ci ha già pensato il massone usuraio. Più di 200 suicidi causati dalla crisi economica “solo” nel 2012; debito pubblico dal 118% dell’era Berlusconi al 127% dell’era Monti; “spread” che ha più volte superato i 450/500 punti; introduzione dell’IMU; aumento indiscriminato di tasse e balzelli sull’acqua, sulla benzina, sull’elettricità, sui trasporti pubblici, sulle assicurazioni, incluso l’aumento dell’IVA.Si badi bene e si tenga a mente: quest’uomo e i suoi ministri, che si sono permessi di definire i suicidi causati dalla disperazione come “fisiologici”, che hanno più e più volte dimostrato un disprezzo assoluto per i giovani e più in generale per l’intera popolazione italiana (ignoranti, choosy e via insultando), che hanno letteralmente affossato l’economia italiana gravandola di tasse e di balzelli che farebbero impallidire anche uno imperatore medioevale, vengono definiti “moderati” da una stampa connivente e ormai quasi completamente comprata (eccezion fatta per i pochi ma coraggiosi quotidiani in rete, non ancora asserviti completamente al padrone).
Solo un cretino potrebbe pensare di rivotare un criminale del genere, che ha le mani sporche del sangue di un’intera Nazione, spremuta e sacrificata sull’altare dello spread e di Wall Street. Ma, poiché purtroppo in Italia i cretini abbondano e anzi costituiscono la maggioranza, c’è da temere il peggio. Non è un caso che la lista Monti, alla quale si accodano tutte le peggiori cariatidi di questa politica mafiosa e incapace – come la troia Casini, il massone Montezemolo, il voltagabbana Fini – possa vantare (secondo sondaggi di opinione dei quali, in un estremo atto di fiducia nei confronti dei nostri connazionali, fatichiamo a riconoscere una qualche attendibilità) anche il 20% dei consensi. La strategia, che una stampa intimorita e asservita sta contribuendo attivamente a legittimare, è quella di far uscire Monti dalla porta ma di farlo rientrare dalla finestra. Con un 15/20% di consensi sottratti alle due liste principali (PD e PDL) è vero che Monti non avrebbe i numeri per governare, ma diventerebbe fondamentale per qualunque forza di coalizione, il vero e proprio ago della bilancia. Non per niente c’è già chi, pregustando la vittoria sulle ossa fumanti degli italiani, se lo sogna vicepremier o Ministro dell’Economia.
Non è casuale che a sostenere un simile personaggio ci siano personaggi disgustosi come Pierferdinando Casini o Gianfranco Fini, il cui motto principale è, oggi come ieri, “Francia o Spagna purchè se magna”. Personaggi che sonocompletamente asserviti ai poteri forti, che garantiscono la loro permanenza nelle poltrone più alte e dorate del potere nonostante la loro palese incompetenza e corruzione, totalmente lontani dai bisogni del proprio popolo e della propria gente. Non saranno loro a suicidarsi perché non sanno come pagare l’IMU o perché non riescono a pagare i propri dipendenti, non saranno loro a pagare le cause di tutto questo.
Ribellatevi. Ribellatevi. Ribellatevi. Magari non cambia nulla, ma almeno si cade in piedi.


sabato 29 dicembre 2012

COME L'ECONOMIA DI GUERRA USA PROVOCÒ L'ATTACCO GIAPPONESE

DI ROBERT HIGGS
Information Clearing House

Molte persone vengono ingannate dalle formalità. Per esempio, suppongono che gli Stati Uniti entrarono in guerra contro Germania e Giappone solo dopo che queste nazioni dichiararono loro guerra nel dicembre del 1941. In realtà, gli Stati Uniti erano in guerra molto prima di questa dichiarazione, una guerra con diverse forme.
Ad esempio, la marina militare americana aveva l' ordine di “sparare a vista” ai convogli [tedeschi] – a volte anche contro navi britanniche – nell' Atlantico del Nord, nel tratto dove passavano le spedizioni dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, anche se gli U-boat tedeschi avevano l' ordine di astenersi (e si astennero) dal cominciare attacchi contro le spedizioni statunitensi. USA e Gran Bretagna avevano accordi di intelligence, sviluppavano assieme armamenti, facevano test militari combinati e altre forme di cooperazione militare.

L' esercito statunitense cooperava attivamente con l' esercito britannico nelle operazioni di combattimento contro i tedeschi, ad esempio, quando avvistava i sottomarini tedeschi allertava la marina inglese così poi gli inglesi attaccavano. Il governo degli Stati Uniti si impegnò in molti modi per fornire assistenza militare ad inglesi, francesi, e sovietici che stavano combattendo i tedeschi. Il governo americano fornì armamenti ed assistenza, tra cui aerei e piloti, anche ai cinesi che erano in guerra con il Giappone. [1] L' esercito americano si impegnò attivamente nel pianificare assieme agli inglesi, ai paesi del Commonwealth Britannico e alle Indie Orientali Olandesi future operazioni militari contro il Giappone. Molto importante fu il fatto che il governo americano si impegnò in una guerra economica, con misure sempre più stringenti, che portò il Giappone in una situazione molto difficile, che le autorità statunitensi ben compresero, li spinsero ad attaccare territori statunitensi e li forzarono a cercare di assicurarsi quelle materie prime essenziali nel Pacifico sulle quali americani, inglesi e olandesi (governo in esilio) avevano posto l' embargo. [2]

Roosevelt aveva già portato gli Stati Uniti in guerra contro la Germania nella primavera del 1941 – una guerra su scala minore. Da allora aumentò via via la partecipazione militare statunitense. L' attacco giapponese del 7 dicembre gli permise di aumentare notevolmente la partecipazione ed ottenere una dichiarazione di guerra. Pearl Harbor viene rappresentata come la fine di una catena di eventi, con il contributo americano che riflette una strategia formulata dopo la caduta della Francia... Agli occhi di Roosevelt e dei suoi consiglieri le misure prese ad inizio 1941 giustificarono la dichiarazione di guerra tedesca contro gli Stati Uniti – una dichiarazione che non arrivò con disappunto... Roosevelt disse al suo ambasciatore in Francia, William Bullitt, che gli Stati Uniti sarebbero sicuramente entrati in guerra contro la Germania, ma dovevano aspettare un “incidente”, e che era “fiducioso che la Germania ce lo avrebbe dato”... Stabilire una testimonianza in cui il nemico avesse sparato per primo era la tattica perseguita Roosevelt... [Alla fine] pare abbia concluso – correttamente, come poi risulterà – che sarebbe stato più facile provocare un attacco giapponese che uno tedesco. [3]

L' affermazione che il Giappone attaccò gli Stati Uniti senza nessuna provocazione fu... tipica retorica. Funzionò perché il pubblico non sapeva che l' amministrazione aveva previsto che il Giappone avrebbe risposto con azioni militari alle misure anti-giapponesi prese nel luglio del 1941... Prevedendo la sconfitta in una guerra contro gli Stati Uniti – e in maniera disastrosa – i leader giapponesi provarono disperati negoziati. Su questo punto molti storici sono da tempo concordi. Nel frattempo, sono venute fuori le prove che Roosevelt e Hull avevano costantemente rifiutato ogni negoziato.... il Giappone... offrì compromessi e concessioni che gli Stati Uniti contrastavano con crescenti richieste... Fu dopo aver appreso della decisione che giapponesi sarebbero entrati in guerra contro gli Stati Uniti nel caso i negoziati si sarebbero “guastati” che Roosevelt decise di interromperli... Secondo il procuratore generale Francis Biddle, Roosevelt auspicava un “incidente” nel Pacifico per portare gli Stati Uniti nella guerra europea. [4]

Questi fatti come numerosi altri che puntano nella stessa direzione non sono nulla di nuovo; molti di questi sono disponibili al pubblico già dagli anni '40. Fin dal 1953, chiunque abbia letto una raccolta di saggi molto documentati sui vari aspetti della politica estera degli Stati Uniti alla fine degli anni '30 e inizio '40, pubblicati da Harry Elmer Barnes, che mostravano i molti modi in cui il governo degli Stati Uniti sostenne la responsabilità dell' eventuale ingresso del paese nella Seconda Guerra Mondiale – mostravano, in breve, che l' amministrazione Roosevelt voleva portare il paese in guerra e di come lavorò d' astuzia su vari sentieri per arrivarci, prima o poi sarebbe entrato in guerra, preferibilmente in modo da riunire l' opinione pubblica nel sostenere la guerra facendo sembrare gli Stati Uniti una vittima di un’ aggressione senza provocazione. [5] Come testimoniò il Segretario di Guerra Henry Stimson dopo il conflitto, “avevamo bisogno che i giapponesi facessero il primo passo.” [6]

Al momento, comunque, 70 anni dopo questi eventi, probabilmente non c' è un americano su 1000, anzi 10000, che abbia una vaga idea di questa storia. La fazione pro-Roosevelt, pro-americani, pro-Seconda Guerra Mondiale è stata così efficace che in questo paese l' insegnamento e la scrittura popolare sono totalmente dominati dalla visione che gli Stati Uniti si siano impegnati in una “Guerra Buona”.

Alla fine del XIX secolo l' economia giapponese iniziò una rapida crescita ed industrializzazione. Dal momento che il Giappone ha poche risorse naturali, molte delle sue industrie in rapida crescita dovevano fare affidamento sulle importazioni di materie prime, come carbone, ferro, acciaio, stagno, rame, bauxite, gomma, e petrolio. Senza un accesso a queste importazioni, molte delle quali provenienti dagli Stati Uniti o dalle colonie europee del Sudest Asiatico, l' industria giapponese si sarebbe arrestata. Tuttavia, impegnandosi nel commercio internazionale, nel 1941 i giapponesi avevano costruito un' economia industriale piuttosto avanzata.

Allo stesso tempo, costruirono un complesso militare industriale per supportare una marina ed un esercito sempre più potente. Queste forze armate permettevano al Giappone di proiettare il suo potere in diverse zone del Pacifico e dell' Asia Orientale, comprendendo la Corea e il nord della Cina, proprio come gli Stati Uniti che usarono la loro industria in espansione per la realizzazione di armamenti che proiettarono il dominio statunitense nei Caraibi, America Latina, ed anche in paesi lontani come le Filippine.

Quando nel 1933Franklin D. Roosevelt divenne presidente, il governo degli Stati Uniti cadde sotto il controllo di un uomo a cui non piacevano i giapponesi e nutriva un affetto per i cinesi dato che, hanno ipotizzato alcuni scrittori, i suoi antenati si erano arricchiti con il commercio con la Cina. [7] A Roosevelt non piacevano neanche i tedeschi in generale, e particolarmente Adolf Hitler, e propendeva per favorire gli inglesi nelle relazioni personali e negli affari. Non prestò molta attenzione alla politica estera, finché il suo New Deal non cominciò ad esaurirsi nel 1937. In seguito si affidò molto alla politica estera per soddisfare le sue ambizioni politiche, come il suo desiderio di essere rieletto ad un terzo mandato senza precedenti.

Quando la Germania cominciò il riarmo e la ricerca del Lebnsraum (spazio vitale) in maniera aggressiva, alla fine degli anni '30, l' amministrazione Roosevelt collaborò con Francia e Gran Bretagna per contrastare l' espansione tedesca. Dopo che la Seconda Guerra Mondiale iniziò nel 1939, questa assistenza statunitense crebbe molto, includendo misure come il cosiddetto accordo dei cacciatorpedinieri e il programma dal nome ingannevole Lend-Lease. In previsione dell' ingresso in guerra degli Stati Uniti, il personale militare inglese e americano formulò piani segreti di operazioni congiunte. Le forze americane cercavano di creare un pretesto per giustificare l' ingresso in guerra, cooperando con la marina britannica, attaccando gli U-boat tedeschi nel nord dell' Atlantico, ma Hitler non abboccò all' esca, negando così a Roosevelt il pretesto che voleva gli Stati Uniti a tutti gli effetti un paese belligerante – una belligeranza che trovava l' opposizione della maggioranza degli americani.

Nel giugno 1940, Henty L. Stimson, che aveva servito come Segretario alla Guerra durante il mandato di William Howard Taft e come Segretario di Stato sotto Herbert Hoover, divenne ancora Segretario alla Guerra. Stimson era un leone anglofilo, faceva parte dell' elite del nordest, e non aveva nessuna simpatia per i giapponesi. A supporto della politica delle porte aperte con la Cina, Stimson favorì l'uso di sanzioni economiche per ostacolare l' avanzata giapponese in Asia. Il Segretario del Tesoro Henry Morgenthau e il Segretario dell' Interno Harold Ickes appoggiarono con forza questa politica. Roosevelt sperava che queste sanzioni avrebbero spinto i giapponesi a fare un errore avventato attaccando gli Stati Uniti, trascinando in guerra anche la Germania, dato che Germania e Giappone erano alleati.

L' amministrazione Roosevelt, mentre respingeva seccamente le aperture diplomatiche giapponesi per armonizzare le relazioni, imponeva una serie di sanzioni economiche sempre più stringenti. Nel 1939, gli Stati Uniti conclusero il trattato commerciale con il Giappone del 1911. “Il 2 luglio 1940, Roosevelt firmò l' Export Control Act, che autorizzava il presidente a concedere o negare le esportazioni di materiali di difesa essenziali.” In base a tale autorità, “il 31 luglio, le esportazioni di carburante e lubrificanti per motori d' aereo, ferro e acciaio furono ridotte.” In seguito, dal 16 ottobre, con una mossa contro il Giappone, Roosevelt decretò l' embargo “di tutte le esportazioni di ferro e acciaio non destinate alla Gran Bretagna e alle nazioni dell' emisfero occidentale.” Alla fine, il 26 luglio 1941, Roosevelt “congelò gli asset giapponesi negli Stati Uniti, ponendo fine alle relazioni commerciali con il Giappone. Una settimana dopo Roosevelt vietò le esportazioni dei carburanti che ancora avevano mercato in Giappone.” [8] Inglesi e olandesi dalle loro colonie nel sudest asiatico seguirono a ruota, ponendo l' embargo alle esportazioni con il Giappone.

Roosevelt e i suoi collaboratori sapevano che stavano mettendo il Giappone in una posizione insostenibile e che il governo giapponese per tentare di sfuggire alla morsa sarebbe potuto entrare in guerra. Avendo decriptato il codice dei diplomatici giapponesi, i leader americani sapevano, tra le altre cose, che il Ministro degli Esteri Tejiro Toyda aveva comunicato il 31 luglio all' ambasciatore Kichisaburo Nomura che “Le relazioni commerciali ed economiche tra Giappone e paesi terzi, guidati da Inghilterra e Stati Uniti, sono diventate spaventosamente tese da non poter essere più sopportate. Di conseguenza, il nostro Impero, per salvare la sua stessa vita, deve prendere delle misure per assicurarsi le materie prime dei Mari del Sud.” [9]

Dato che i crittografi americani avevano decodificato anche i codici della marina giapponese, i leader di Washington sapevano che le “misure” giapponesi includevano un attacco a Pearl Harbor. [10] Ma non diedero queste informazioni ai comandanti nelle Hawaii, che avrebbero potuto fronteggiare l' attacco o almeno prepararsi. Che Roosevelt e i suoi generali non abbiano suonato l' allarme ha perfettamente senso: dopo tutto, l' attacco imminente era quello che cercavano da tempo. Come confidò Stimson nei suoi diari dopo l' incontro del Gabinetto di Guerra del 25 novembre, “La questione era di come avremmo potuto manovrarli [i giapponesi] per farli sparare per primi senza danneggiarci troppo.” Dopo l' attacco, Stimson confessò che “il mio primo sentimento fu di sollievo... la crisi era venuta nel modo che avrebbe unito il nostro popolo.” [11]

Robert Higgs
Fonte: www.informationclearinghouse.info 
Link: http://www.informationclearinghouse.info/article33278.htm 
10.12.2012

Traduzione per Comedonchisciotte.org a cura di REIO 

Note 

[1] http://en.wikipedia.org/wiki/Flying_Tigers . 
[2] Robert Higgs, "How U.S. Economic Warfare Provoked Japan's Attack on Pearl Harbor," The Freeman 56 (May 2006): 36-37. 
[3] George Victor, The Pearl Harbor Myth: Rethinking the Unthinkable (Dulles, Va.: Potomac Books, 2007), pp. 179-80, 184, 185, emphasis added. 
[4] Ibid ., pp. 15, 202, 240. 
[5] Perpetual War for Perpetual Peace: A Critical Examination of the Foreign Policy of Franklin Delano Roosevelt and Its Aftermath, edited by Harry Elmer Barnes (Caldwell, Id.: Caxton Printers, 1953). 
[6] Citazione di Stimson in Victor, Pearl Harbor Myth, p. 105. 
[7] Harry Elmer Barnes, "Summary and Conclusions," in Perpetual War for Perpetual Peace: A Critical Examination of the Foreign Policy of Franklin Delano Roosevelt and Its Aftermath, edited by Harry Elmer Barnes (Caldwell, Idaho: Caxton Printers, 1953), 682-83. 
[8] Tutte le citazioni di questo paragrafo vengono da George Morgenstern, "The Actual Road to Pearl Harbor," in Barnes, ed., Perpetual War for Perpetual Peace, 322-23, 327-28. 
[9] Citato in Morgenstern, "The Actual Road to Pearl Harbor," 329. 
[10] Robert B. Stinnett, Day of Deceit: The Truth About FDR and Pearl Harbor (New York: Free Press, 2000). 
[11] Citato in Morgenstern, "The Actual Road to Pearl Harbor," 343, 384.



http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=11261

venerdì 21 dicembre 2012

IL PERONISMO RIVOLUZIONARIO


John W. Cooke e il peronismo rivoluzionario
di Romano Guatta Caldini - 15/02/2010


L’operato di John William Cooke, punto d’incontro fra peronismo e castrismo, ha rappresentato, senza dubbio alcuno, la migliore commistione fra l’esperienza socialista nazionale di Peron e le spinte rivoluzionarie cubane. Una tradizione, quella dell’antimperialismo latino americano, che ha visto fra i suoi protagonisti eminenti figure di militanti politici del peronismo rivoluzionario, fra questi ricordiamo: Rodolfo Walsh, Ricardo Masetti e l’ex falangista spagnolo, poi militante peronista, Emilio Javier Iglesias. Questi ultimi sono stati i fautori di un interessante incontro ideologico, una sorta di mutuo soccorso inter-nazionalista visto in chiave antimperialista.

Del resto, che peronismo e castrismo avessero, per certi versi, una radice comune, lo aveva già fatto notare, a suo tempo, Saverio Paletta su Diorama: «Mentre l’ideologia politica del fascismo italiano e del nazionalsocialismo tedesco è sorta nel contesto di due paesi di grandi tradizioni storico-politiche, con tutto ciò che ne è derivato in termini di confronto, di suggestioni e di possibili radici, lo stesso non può ovviamente dirsi per esperienze quali, ad esempio, il castrismo, certe forme di socialismo nazionale africano o la maggior parte di quelle dittature di sviluppo sorte nel dopoguerra in seguito al processo di decolonizzazione e che A. James Gregor tende a considerare come eredi, in certo qual modo, del fascismo storico» – . In tal senso, al pari di Maurice Bardèche e delle sue intuizioni sul nasserismo, Gregor aveva individuato nel castrismo, ma anche in certe forme di volontarismo guevariano, il logico approdo di una teoria che aveva mosso i suoi primi passi nell’Europa degli anni trenta e quaranta.

Per ciò che concerne il rapporto fra peronismo e rivoluzione cubana, sintomatica dello stretto legame fra i due movimenti è la dichiarazione di Peron relativa alla fratellanza ideologica delle due rivoluzioni: «La Revolucion cubana tiene nuestro mismo signo» – dirà il Generale in merito alla lotta contro il comune nemico nord-americano. Oppure: «L’evolversi della situazione cubana può trovare il suo riscontro con la Grande Patria latino-americana se questa, prescindendo dalle vecchie formule marxiste, rialzerà di nuovo la bandiera del nazionalismo rivoluzionario tercerista del castrismo iniziale. La fine dell’impero comunista anticipa la crisi di quello capitalista. Ogni popolo deve lottare per la propria emancipazione nazionale e, al tempo stesso, stabilire relazioni solidaristiche con le altre nazioni oppresse dall’imperialismo, dall’ingiustizia e dalla reazione» - ha ricordato Nando De Angelis nel suo Peròn e la rivoluzione cubana. Ma significativa più di tutte è la nota auto-biografica di Cooke: « Sono tre mesi che vivo all’Avana (…) Questa è la Mecca rivoluzionaria e tutti vengono a bere alla sorgente».

Dal canto suo, Fidel Castro invitò Peron a stabilirsi a Cuba durante l’esilio e intermediario fra i due fu proprio John William Cooke. Designato dallo stesso Peron, come suo erede, Cooke aveva iniziato la sua militanza nell’Unión Universitaria Intransigente. Dal ’55 in poi, il compito di Cooke fu quello di preparare la resistenza peronista all’imminente golpe militare. Arrestato e confinato nella prigione di Río Gallegos, nonostante l’isolamento, Cooke divenne, oltre che l’ideologo di riferimento dei gruppi armati, anche l’organizzatore della fusione fra i movimenti studenteschi e quelli operai. Dopo una fuga rocambolesca dal centro detentivo, Cooke fece la spola fra l’Uruguay e il Cile, infine, aggregatosi a un gruppo di argentini, si trasferì a Cuba per seguire i moti insurrezionalisti guidati dal connazionale, Ernesto Guevara. La foto di Cooke nella Sierra Maestra, mitra in mano e camicia da miliziano, diverrà un’icona per tutti i guerriglieri peronisti.

Durante il soggiorno cubano, Cooke gettò le basi per la costruzione di un ampio fronte di liberazione nazionale che, irradiandosi dall’isola caraibica, avrebbe dovuto colpire i centri nevralgici della struttura politico-militare argentina. Ed è proprio in quest’ottica che vanno collocati i legami con i dirigenti Montoneros: Fernando Abal Medina e Norma Arrostito, entrambi, all’epoca, presenti nell’isola. Con i due connazionali, nel ’67, Cooke partecipa alla OLAS (Organización Latinoamericana de Solidaridad): organizzazione di tutti i movimenti anti-imperialisti latino americani. Tra gli esponenti argentini intervenuti ricordiamo: Alcira de la Peña in rappresentanza del Partito Comunista, Ismael Viñas del Movimiento di Liberazione Nazionale, Abel Latendorf dell’Avanguardia Popolare e Carlos Laforgue della Gioventù Peronista. In questa sede, diverranno espliciti i riferimenti alla guerra di guerriglia teorizzata da Guevara. A farsi carico della lotta di liberazione nazionale, per quanto riguardava l’Argentina, fu il peronista Jorge Ricardo Masetti che, fedele ai principi fochisti, abbandonò Cuba e fece ritorno in patria, organizzando la guerriglia ai confini della Bolivia e coordinando le forze rivoluzionarie della sinistra peronista presenti in zona: dall’Ejército Guerrillero del Pueblo alle FAP (Fuerzas Armadas Peronistas).

Per comprendere gli stati d’animo e le circostanze che portarono molti giovani peronisti ad abbracciare la lotta armata, è utile la testimonianza del giornalista italo-argentino ed ex-mlitante Montonero, Miguel Bonasso: «In Argentina l’oligarchia dominante si è legata al capitale multinazionale (…) per cui, lo sfruttamento nel mio paese si identificava con la presenza prima inglese e poi statunitense. Il nazionalismo, quindi, è sempre stato sinonimo di liberazione e i due termini, se presi separatamente, non avrebbero avuto senso. Il fenomeno peronista costituiva un’unione variegata: i delusi del Partito Comunista, i settori cattolici più radicali, i militanti che avevano conosciuto il Che, i sottoproletari delle villas miseria, le baraccopoli di Buenos Aires, ma anche una parte consistente della piccola borghesia. Dal 1975 iniziò l’adesione operaia in massa, unendosi al movimento studentesco che lottava soprattutto contro l’eccessiva invadenza statunitense. Il peronismo, dunque, è nato come movimento politico di massa. Più tardi, il ricorso alla lotta armata, non è stata una scelta, ma l’unica forma di resistenza possibile. » Non a caso, riguardo la natura antimperialista del nazionalismo argentino, lo stesso Cooke, nel suo «Apuntes para la militancia», scriveva: «Tutta la nostra lotta deve partire dall’auto-consapevolezza di vivere in un paese semi-coloniale, paese che è, a sua volta, membro di un continente anch’esso semi-coloniale. (…) Il nazionalismo è possibile solo se inteso come una politica conseguente all’anti-imperialismo».

Movimento fondamentalmente anti-dogmatico, il peronismo, al pari del fascismo, si presentava come un fenomeno di mobilitazione di massa ma, a differenza del comunismo sovietico e del capitalismo nord-americano, la massa non era un ente amorfo e passivo nè era soggiogato alle politiche predatorie padronali. Citando sempre Cooke, il Peronismo era stato: «un’esperienza di vita, il punto più alto dell’auto-coscienza della classe operaia, come dei settori meno abbienti della società. » Con simili premesse, era quasi inevitabile che Cooke venisse tacciato di cripto-comunismo, ma non erano di certo le etichette a preoccupare l’ideologo. Ben più preoccupante era la divisione interna al fronte peronista, infatti, settori consistenti del peronismo rivoluzionario vennero fagocitati dalla spirale settaria di movimenti e gruppuscoli d’ispirazione più o meno trotskista: come avvene, ad esempio, nel caso del Partido Revolucionario de los Trabajadores di Mario Roberto Santucho. Sta di fatto che, se andiamo a misurare l’incidenza di tali gruppi, rispetto ai movimenti di dichiarata fede peronista, vediamo che i secondi hanno raggiunto successi di gran lunga superiori rispetto ai primi, anche in termini di seguito e consenso popolare.

Naturalmente, durante gli anni della lotta armata, il numero di desaparecidos crebbe in modo esponenziale. A cadere nelle mani dei militari, anche Alicia Eguren; poetessa, dirigente peronista, nonché compagna di Cooke. Alicia era stata una stretta collaboratrice, sia di Guevara che del Comandante Segundo (Ricardo Masetti) ; con loro, come anche con il marito, aveva partecipato alla fondazione cubana del Fronte Antimperialista per il Socialismo. Quando il Che decise di estendere la lotta nel continente sud-americano, Alicia e Cooke furono protagonisti attivi, nei piani guevariani per la lotta di liberazione in Bolivia. Masetti e Guevara trovarono la morte in combattimento, mentre Cooke terminerò la sua parabola esistenziale e politica il 19 settembre del ’68, a causa di un cancro.

Fra i testi fondamentali, per avvicinarsi al pensiero di Cooke, ricordiamo: «Apuntes para la militancia » e «Peronismo y Revolucion». Certo, rivoluzione è un termine che torna spesso negli scritti dell’ideologo e forse non è un caso, soprattutto a fronte degli insegnamenti di Evita: «El peronismo será revolucionario o no será nada!».

http://rsicontinuitaideale.blogspot.it/2012/12/il-peronismo-rivoluzionario.html

I veri beneficiari dell'antifascismo: le grandi lobby ed i banchieri


NOI FASCISTI NON POSSIAMO ASSOCIARCI LIBERAMENTE, NON POSSIAMO DETERMINARE LA POLITICA NAZIONALE!

Noi siamo cittadini di serie B!

Perché a noi non ci è concesso avere un partito che si rifà ai nostri ideali, perché a noi non ci è concesso pensare ed agire da liberi cittadini, perché a noi non ci è concesso votare un partito che abbia come obbiettivo e come finalità gli obbiettivi di chi ci ha preceduto!

Per cui, da sempre noi non siamo liberi di partecipare in tv, ne possiamo discutere liberamente in un dibattito, ne possiamo proclamarci Fascisti, per decenni voi avete montato l’opinione pubblica creando  il mito della nostra cattiveria, della nostra diabolica perversione, per decenni avete raccontato menzogne, per far si che non solo la verità venisse sepolta per sempre, ma avete lavorato così bene fino al punto che siete perfino riusciti a plasmare con la vostra menzogna il Fascista Tipo, quello che più fa comodo alle vostre convenienza, stupido, ignorante, incapace, violento,  praticamente inutile e comodo al vostro gioco.

Ma alla fine, comunque e sempre avete bisogno di Omologarci, di etichettarci, per tenerci più facilmente a bada! Quindi ci volete in qualche modo asserviti al Sistema, a voi serve comunque legittimare il vostro Sistema, ci volete dunque complici, asserviti al vostro modo di vivere, di pensare, di agire!

Volete che anche noi, possiamo alla fine trovare attraverso un accomodamento, un camuffamento, un agevolazione, una sistemazione all’interno del Sistema!

Non ci date il permesso di creare movimenti FASCISTI, ma ci date il consenso di vivere nella terra di mezzo, dove in pratica possiamo fare alcune cose, ma non altre, dove possiamo si rispettare le vostre leggi, alle vostre condizioni, ma di nascosto, come topi in fogna, possiamo in qualche maniera, agire per conto nostro, ma solo per cose sterili e mai importanti!

http://www.corrierecaraibi.com/FIRME_FGiannini_080915_Impeachment.htm

Questa è stata una furbata colossale! Questo è stato il trucco, l’artificio in grado di annullarci, in grado di smantellare, sradicare le profonde radici che ci legavano al nostro IDEALE, il canale di sfogo, dove i repressi hanno trovato uno sfiato per sfogare energie altrimenti pericolose, ed in grado di creare consenso!

Ma non ha funzionato su tutti, qualcuno di noi è venuto con voi, qualcuno ha tradito, molti non hanno accettato, ed ora sono pronti, ora in questo momento drammatico per la Nazione, sono pronti a tornare!

Il Popolo affamato, umiliato, offeso, è oggi pronto ad appoggiare chi di noi sarà in grado di mostrare la differenza tra chi è giusto e chi invece è figlio di questo Sistema! Oggi più che ieri, c’è bisogno di marcare la differenza!

NOI NON SIAMO COME VOI!

 Noi non corriamo dietro a poltrone ed agevolazioni, noi non ambiamo a comodità, ma amiamo sacrifici e lotta, noi non cerchiamo accordi sottobanco con massoni, finanza, banche, industriali, multinazionali…noi alla luce del sole ci muoviamo per gli interessi del NOSTRO POPOLO!

Noi abbiamo nessun bisogno di farci coinvolgere, immischiare, partecipare alle vostre lotte politiche per la corsa al potere! Noi non siamo come voi! Noi facciamo altro!

E siccome sono passati la bellezza di 67 anni dalla fine della guerra e da allora per voi noi siamo divenuti cittadini di serie B, noi riteniamo a questo punto che è giusto ed opportuno non partecipare a quello che voi ritenete la più grande espressione della vostra menzognera democrazia!

Noi invitiamo tutti quanti, gruppi, movimenti, associazioni, uomini liberi, gente comune che si sente offesa ed umiliata dalle ingiustizie di questi anni, a prendere le distanze ed a delegittimare il Sistema  attraverso la non partecipazione al voto,  ma non solo, proponiamo a tutti coloro che non si sentono pienamente cittadini di questa Nazione di convergere in un sol giorno in una manifestazione di protesta dove tutti quanti bruceremo la scheda elettorale, per far capire che una democrazia si basa sulla partecipazione e non sulle divisioni, per far capire che una democrazia ha bisogno dell’interezza del suo Popolo e non di oligarchie elette da masse di ingenui!

 Facciamo un appello a tutti coloro che non si sentono, così come noi, cittadini di questa Nazione, a coordinarsi per un atto provocatorio e simbolico, per dare voce a chi da sempre è vittima politica, economica, morale di chi sta per l’ennesima volta apprestandosi alla perpetuazione di quell’offesa verso il Popolo che si chiama: elezioni!

 FACCIAMO UN FALO’ CON LE SCHEDE ELETTORALI!

PERCHE’ NON SIAMO RAPPRESENTATI DA QUESTO STATO!

PERCHE’ NON C’E’ DATO AVERE UNA NOSTRA RAPPRESENTANZA POLITICA!

PERCHE’ QUESTO STATO NON DIFENDE IL SUO POPOLO, SVENDENDO GLI INTERESSI SUPREMI AGLI INTERESSI PRIVATI!
 

giovedì 20 dicembre 2012

Ettore Ovazza e i suoi sodali: un fascismo ebraico intransigente ?


 Ristampa.
Sionismo bifronte, il J’accuse del banchiere ebreo fascista al giudaismo nazionalista

Prossimamente, in occasione dei settant’anni dall’assassinio di Ettore Ovazza – banchiere ebreo e fascista fierissimo - verrà ristampato uno dei suoi libri più controversi: Sionismo bifronte (1935).
Un vero e proprio j’accuse rivolto al sionismo nazionalista.

Va detto subito che parlando di questo volume si toccano tre temi delicati: quello dei rapporti tra fascismo ed ebraismo (inaugurato in Italia dal De Felice), quello del giudaismo antisionista e, di conseguenza, quello relativo ad una certa complementarità tra sionismo ed “antisemitismo”.
In questo primo articolo parleremo principalmente del primo argomento.
È innanzitutto necessario rispondere ad una domanda preliminare: come furono affrontate dagli ebrei le mutazioni politiche europee che attraversarono i secoli XIX e XX?
Parlando specificamente del caso italiano, l’adesione al cosiddetto “risorgimento” e alle istituzioni dell’Italia liberale fu quasi fisiologica per quella parte del giudaismo che si era sentita emancipata dallo Stato sabaudo. Il forte influsso massonico sull’unificazione, il carattere antipapalino dei moti risorgimentali e certamente la speranza di un nuovo ruolo nel neonato Regno d’Italia furono per molti israeliti ragioni di una chiara compenetrazione con il nuovo Stato.
Fatta questa premessa, vanno evidenziati alcuni aspetti centrali che sono ineliminabili rispetto alla corretta comprensione dell’identificazione degli ebrei peninsulari con quella stessa nazione italiana che di lì a sessant’anni sarebbe diventata la “Patria fascista”.
Se è vero che le cause dell’adesione al processo di unificazione e allo Stato liberale furono tra le più disparate, deve essere sottolineato quanto l’Italia di Mussolini fosse mutata rispetto all’Italia dell’Ottocento in termini di ruolo internazionale, complessivo orientamento politico-ideologico, relazioni intrattenute: risulta evidente che l’identificazione col Regno sabaudo nel XIX secolo e con lo stesso Regno negli anni del fascismo, implicasse una Weltanschauung in diversi casi antitetica in ragione di quegli stessi elementi politici, ideologici, simbolici, culturali di cui abbiamo fatto cenno.
I nazionalismi che hanno caratterizzato l’Ottocento – e il caso italiano si inserisce appieno in questo insieme – erano in parte votati alla rottura dell’idea universalistica e cristiana di una realtà imperiale che guidasse le sorti d’Europa (e con essa di altre regioni del globo): la graduale sostituzione di questo ordine tradizionale con Stati nazionali di stampo spesso liberale riguardò da vicino diversi settori ebraici che, come abbiamo detto, non si fecero sfuggire la preziosa occasione di un nuovo spazio politico. L’attacco all’idea di impero cristiano non mancò di divenire un assalto alla Chiesa Cattolica. La Frammassoneria e altri circoli internazionali operarono in modo attivo sia all’interno dei corpi nazionali sia a livello di equilibri mondiali, per la realizzazione di un progetto di distruzione del principio tradizionale di autorità e di obbedienza religiosa.
Questi e altri fatti, come abbiamo accennato, hanno guidato un mondo – che in parte continuava a credere a principi universali e tradizionali al tempo stesso – verso un sistema fondato su un universalismo distorto e cosmopolita, accompagnato – quanto meno fino alla Seconda Guerra Mondiale – dal trionfo particolaristico di certi nazionalismi che risultavano essere - facendo ricorso al principio del solve et coagula - un utile strumento per sostituire l’ordine antico con un nuovo ordine.
Per diversi israeliti aderire a questo percorso non risultava difficile, tanto più se esso era accompagnato dalla diffusione degli ideali rivoluzionari “Liberté, Égalité, Fraternité” e dalla conseguente emancipazione: nella Penisola l’adesione di elementi ebraici alle società segrete e ai moti rivoluzionari fu consistente1 (e allo stesso tempo la Chiesa guidava una guerra senza quartiere alla Frammassoneria scomunicando quei fedeli – non pochi - che erano stati iniziati). L’Italia nasceva con la benedizione della Logge e Vittorio Emanuele II, che già per le sue leggi anticattoliche nel Regno di Sardegna vide San Giovanni Bosco profetizzargli la progressiva morte di larga parte della sua famiglia, finì scomunicato da Pio IX.
È poco noto in campo storico che in effetti, già prima dell’unità, Don Bosco avvisò il sovrano di suoi sogni luttuosi e profetici collegati all’approvazione delle legge presentata da Rattazzi. Vittorio Messori a tal proposito scrive: “La discussione iniziava alla Camera il 9 gennaio 1855 e subito dopo si metteva in moto una tragica successione che costringeva l’assemblea a continue chiusure per lutto. Tre giorni dopo, in effetti, il 12 gennaio moriva all’improvviso - non aveva che 54 anni - la piissima regina madre, Maria Teresa. Otto giorni dopo, il 20 gennaio, era la volta della moglie del re, Maria Adelaide, 33 anni. L’undici febbraio toccava al solo fratello maschio del sovrano, anch’egli trentatreenne, Ferdinando, duca di Genova. Dicono le “Memorie”: «Non era mai avvenuto, nemmeno nelle pestilenze più crudeli, che in meno di un mese si aprissero tre tombe per accogliervi le salme di principi così strettamente uniti in parentela al Sovrano». Purtroppo la serie non era ancora terminata, ché -mentre la legge, approvata dalla Camera era in discussione al Senato- il 17 maggio di quello stesso anno moriva il figlio nato a Vittorio Emanuele dalla moglie Maria Adelaide l’8 gennaio, pochi giorni prima del decesso. Come la madre - e come tutti gli altri morti di questa storia, del resto - il piccolo (battezzato come Vittorio Emanuele Leopoldo Maria Eugenio) godeva di ottima salute e la sua fine fu improvvisa. Scrive Lemoyne, impassibile, se non implacabile: “In quattro mesi il Re aveva perduto la madre, la moglie, il fratello e il figlio. Il sogno di don Bosco erasi pienamente avverato”2.
Tornando al tema della partecipazione ebraica al Risorgimento un altro piccolo aneddoto può essere raccontato. Pio IX aveva minacciato di scomunicare il primo soldato italiano invasore ma per ironia della sorte, trovò infruttuosa la sua dichiarazione: «l’anatema non ebbe effetto: il soldato era “giudio”». Ricorda Giovanni Cecini: “la 5ª batteria del 9° reggimento che aprì la breccia delle mura capitoline era comandata dall’ebreo capitano Giacomo Segre, come ebreo fu l’ufficiale Mortara, che comandò il primo assalto alla breccia stessa”3.
Di lì a qualche decennio di tutto questo rimasero alcuni imbarazzati ricordi. Con l’arrivo del fascismo, l’Italia si riconciliava sostanzialmente col Cattolicesimo Romano, la Massoneria veniva messa – quantomeno nominalmente – fuori legge, l’aspetto liberale-parlamentare delle istituzioni sfumò, l’avvicinamento alla Germania nazionalsocialista si fece chiaro a partire dalla seconda metà degli anni ‘30.
Come reagirà quindi il giudaismo assimilato italiano di fronte a questi cambiamenti? Come muterà la “fedeltà all’Italia” nella “fedeltà alla nuova Italia di Mussolini”?
Se è vero che ebbero luogo reazioni non univoche di fronte ai diversi aspetti citati e, in generale, rispetto ai frutti della rivoluzione fascista, va detto che complessivamente l’ebraismo italiano si adattò, come non raramente nella storia israelitica, alle nuove circostanze politiche: lo stesso rabbinato in diversi casi omaggerà e legittimerà apertamente l’Italia di Mussolini, secondo una tradizionale pratica di ossequio al potere4.
Vi furono – pare scontato affermarlo – diversi esempi di ebrei antifascisti e resistenze ebraiche che a vario titolo si opposero all’avanzata del fascismo, valgano come esempi, tra gli altri, l’alta adesione proporzionale di ebrei al gruppo antifascista Giustizia e Libertà o alla lista di professori che non vollero sottoscrivere il giuramento di fedeltà al fascismo. Precisato questo, risulta pacifico che la massa israelitica non si caratterizzò per un antifascismo compatto e riconoscibile. Con ragione è possibile sostenere il contrario: se vi furono diffidenze iniziali, con il consolidamento del regime la situazione si chiarificò e le relazioni si strinsero, sia in ambito generalmente ebraico sia in ambito sionista.
Lo Stato fascista fino alla legislazione razziale vide un numero rilevante di ebrei nei suoi apparati anche ad alti livelli dirigenziali, addirittura - nel 1938 - diverse migliaia di ebrei italiani erano iscritti al Partito Nazionale Fascista e persino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale non mancarono richieste, provenienti da maschi giudei, di arruolamento nelle forze armate, anche a costo di combattere a fianco della Germania di Hitler. L’Unione delle Comunità Israelitiche, dopo il 10 giugno 1940, farà nuovamente presente al governo la disponibilità degli ebrei italiani di mettersi a disposizione.
Senza dubbio tra i molti israeliti fascisti non mancavano gli opportunisti o i conformisti ma, a fianco di questi, era emersa la figura di un “ebreo in camicia nera” che dimostrando fedeltà mussoliniana, zelo patriottico e un acceso antisionismo voleva dare prova della sua incompatibilità con quei correligionari che tanto sospetto generavano sulla loro adesione al regime e alla Patria.
Anche sull’onda di alcune campagne di stampa rivolte contro il mondo ebraico, questo bisogno di smarcarsi da altri ebrei – e con essi dalle accuse di far parte di una quinta colonna anti-italiana – porterà in diverse circostanze al desiderio di mostrarsi più fascisti dei fascisti.
Uno dei casi più eclatanti all’interno dell’ebraismo italiano è probabilmente rappresentato da Ettore Ovazza. Banchiere torinese, figlio di Ernesto che fu Presidente della Comunità Israelitica di Torino.
Ettore era stato - come descritto nella Nota Editoriale di Sionismo bifronte - “marciatore su Roma, probo cittadino, silenzioso mecenate, fedele ed entusiasta combattente della milizia politica”, onorato “da due udienze del Duce”.
Gli Ovazza erano un’importante famiglia della Torino di quegli anni. Carla – nipote di Ettore – si sposerà con Jean-Paul Elkann e sarà madre di Alain (giornalista), a sua volta marito di Margherita Agnelli. Il quotidiano torinese “La Stampa” nel gennaio 2010, parlando di Carla, scriveva:
Alla Columbia University di New York, da ragazza, incontra Jean-Paul Elkann. Sposa il bell’uomo, raffinato esponente dell’aristocrazia ebraica di Parigi. Avranno un unico figlio, Alain. Ma l’unione ha breve durata. E lei desidera ostinatamente tornare a Torino. Vi era nata il 14 giugno 1922. Studiava al D’Azeglio quando la banca degli Ovazza fu chiusa per le leggi razziali del 1938 e Carla con i genitori Vittorio e Olga Fubini riuscì a scappare oltreoceano. Il nonno, Ernesto Ovazza, era il presidente della Comunità ebraica5.
Ernesto Ovazza lo incontreremo anche nelle pagine del libro. Il suo patriottismo fu il germe da cui molto probabilmente scaturì il fascismo entusiasta del figlio Ettore. Emblematico l’epitaffio inciso sulla sua lapide nel 1926:
«Patria, fede e famiglia»: queste le parole scelte nel 1926, poco prima della sua morte […].
Tutta la sua vita si era svolta all’insegna di quei tre valori che egli desiderava ricordare e ribadire ancora una volta. Ernesto Ovazza, discendente di una delle storiche famiglie del ghetto torinese, gestiva nella città sabauda l’omonima banca privata, fondata nel 1866 dal padre Vitta Ovazza.
La banca, con sede in piazza Carlina, appena al di fuori del vecchio ghetto, diventò uno degli istituti privati più attivi della città, annoverando tra i propri clienti molte delle più illustri famiglie dell’aristocrazia torinese6.
Ettore incrementerà l’ardore paterno, mettendosi alla guida di quegli ebrei che, più di tutti, desideravano definirsi patriottici, fascisti ed avversari del sionismo.
Sempre nella Nota Editoriale7 del libro, la devozione mussoliniana dell’autore è sottolineata in modo inequivocabile. Si parla dell’ebreo torinese come di un cittadino con “una buona tempra di italiano che ha saputo, senza crisi di coscienza e senza assurdi od equivoci compromessi, sposare la fede religiosa col sentimento nazionale”. In ossequio all’ebraismo peninsulare si scrive che la rivoluzione di Mussolini aveva aperto “la via a tutte le libertà dello spirito [non in contrasto] con le leggi unitarie della vita nazionale” e che la comunità israelitica italiana aveva perfettamente compreso queste leggi, le aveva fatte sue. L’israelita cittadino italiano aveva “saputo diventare un buon fascista conservando intatta la sua fede religiosa”. Si pensi, per comprendere ulteriormente il carattere patriottico dell’autore di Sionismo bifronte, che rappresentò “il ritorno a casa dei reduci della “vittoria mutilata” […] in una pièce teatrale scritta nel 1920, pubblicata nel 1921 e messa in scena dai fascisti sansepolcristi l’anno successivo”8. Rimaneggiò poi il finale “per renderla una sorta di epopea della marcia su Roma”9.

Note
1 G. CECINI, I soldati ebrei di Mussolini. I militari israeliti nel periodo fascista, Mursia, Milano 2008, pag. 14.
2 V. Messori, “Le profezie «politiche» di san Giovanni Bosco”, Studi Cattolici, 32 (1988) n. 326/327, p. 290-292.
3 G. Cecini, I soldati ebrei di Mussolini. I militari israeliti nel periodo fascista, Mursia, Milano 2008, pag. 16
4 #Luca Ventura, parlando del periodico La Nostra Bandiera – di cui Ovazza fu condirettore – e del gruppo dei “bandieristi” scrisse a pagina 38 del suo libro Ebrei con il duce. «La nostra bandiera» (1934-1938): “Laddove sono stati in molti a rimproverare ai bandieristi l’asservimento della religione alla politica, non è però mai stato adeguatamente rilevato che le argomentazioni usate dai bandieristi non differivano di molto da quelle usate da non pochi rabbini nelle sinagoghe, secondo una pratica che precedeva e assecondava i bandieristi anziché seguirli”.
5 Nonna Carla non deve morire. Il nuovo libro di Alain Elkann: nei giorni dell’agonia, la madre rivive attraverso i ricordi di chi l’ha amata, La Stampa, 13-01-2010.
(http://www.lastampa.it/cmstp/rubriche/stampa.asp?ID_blog=54&ID_articolo=2387)
6 Quaderni storici , Edizione 114, Università di Roma - Istituto di storia e sociologia, 2003, pag. 795.
7 Il libro “Sionismo bifronte” uscì per i tipi della “Casa Editrice Pinciana”.
8 V. Pinto, L’ebreo “fascistissimo”. Il fascismo ingenuo, estetico e sentimentale di Ettore Ovazza (1892-1943), Nuova Storia Contemporanea, XV, 5, 2011, pagg. 56, cfr.: A. Stille, Uno su mille, pag. 34.
9 Ivi, pag.58.

http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=18473

sabato 15 dicembre 2012

Il bombardamento italo-tedesco del porto di Bari


2 dicembre 1943, il disastro provocato dai depositi di armamenti chimici dei “Liberatori”


di: Luigi Antonio Fino

Nessun libro scolastico italiano vi ha mai raccontato questa storia, eppure, chiunque di voi potrebbe, leggendo i testi di storia della marina militare statunitense, scoprire che l’episodio del bombardamento di Bari è tuttora considerato dagli strateghi della marina USA come un grande disastro militare americano, secondo solo al bombardamento di Pearl Harbor! L’episodio di Bari è stato anche uno dei più tragici (e finora meglio conservati) segreti della storia della seconda guerra mondiale italiana.

Prologo
Il nostro racconto inizia in Italia, in un sonnolento pomeriggio sul finire del 1943, in uno di quei giorni assolati con il cielo terso, come talvolta l’inverno nel nostro Mezzogiorno ci sa regalare.
Gli Alleati si erano sistemati nei migliori palazzi e nei migliori alberghi. Nelle strade c’era grande animazione e movimento, sospeso in pratica il coprifuoco, riaperta l’Università, ampia scelta di “segnorine” a disposizione dei vincitori, fiorente mercato nero e file di navi da carico in attesa di entrare nel porto per scaricare merci ed armi.
In quel pomeriggio del 2 dicembre 1943 la ricognizione aerea tedesca inviò il primo tenente pilota Werner Hahn a compiere un volo di perlustrazione del fronte sud italiano.
Il suo obiettivo era l’osservazione e l’eventuale rilevazione fotografica del porto di Bari, in quel momento occupato dagli Alleati.
La giornata era primaverile ed il cielo era totalmente sgombro di nuvole; il piccolo ricognitore, incrociando a 23.000 piedi di altezza, lasciò dietro di sé una scia di condensa, rivelandolo subito agli occhi degli addetti alla difesa contraerea del porto.
Ma i reparti incaricati al servizio, parvero non curarsi affatto della curiosità di quell’innocuo velivolo che ronzava, solitario e noioso, sulle loro teste.
Non ricevendo molestie dalla contraerea inglese, il pilota tedesco decise di fare un secondo passaggio, sorvolando la città prima di fare rotta verso il nord, puntando verso casa.
Werner Hahn pensò che se quello che aveva visto era vero e le sue previsioni erano esatte, la Luftwaffe avrebbe potuto lanciare un serio attacco contro quell’interessante bersaglio.
Bari a quell’epoca era una città di circa 200.000 abitanti, la guerra aveva risparmiato in gran parte i suoi quartieri; sia la città vecchia che la Bari nuova infatti, avevano complessivamente patito pochi danni dall’invasione alleata.
Questi ultimi infatti avevano deciso di risparmiarla, pianificando di trasformarla nella principale base logistica e di rifornimento alleata per tutti i futuri sviluppi della Campagna d’Italia.
In quel finire del 1943 a Bari, al torpore sonnolento della città, faceva da contrasto il grande fermento del porto con l’andirivieni continuo delle navi alleate. Tonnellate di rifornimenti venivano sbarcate lungo quasi tutto l’arco della giornata, trasformando l’antica quiete della città in una specie di alveare operoso.
Quel 2 dicembre, almeno 30 navi alleate erano ormeggiate ai moli del porto od alla fonda in attesa di scaricare, ancorate spesso così vicine tra loro che alcune quasi si toccavano.
Il porto era sotto la giurisdizione britannica; in parte questo avveniva perché Bari era la base logistica per l’8° Armata del generale Bernard Law Montgomery. Ma la città era stata al tempo stesso designata come Quartier Generale della 15th Air Force americana, che era stata costituita appena nel novembre precedente.
La primaria missione di cui si sarebbe dovuto occupare la neocostituita forza aerea era quella di bombardare i bersagli individuati nei Balcani, in Italia ma soprattutto in Germania.
Il comandante della 15th Air Force era il maggiore generale James H. “Jimmy” Doolittle e questi era arrivato il 1 dicembre a Bari.
Gli americani avevano messo a punto, in quel tempo, la strategia dei bombardamenti diurni “di precisione”, ma l’8th Air Force americana di stanza in Inghilterra aveva sofferto terribili perdite proprio nel tentativo di verificare la validità di questa nuova teoria (1).
Gli organici della caccia della Luftwaffe, nei cieli della Germania sembravano, in quel frangente, aumentare anziché decrescere.
Il compito della 15th Air Force doveva essere quello di sottrarre parte della pressione della caccia tedesca che impegnava in quel momento l’8th.
In aggiunta agli usuali materiali di guerra, le navi ancorate a Bari, erano cariche del carburante per i bombardieri di Doolittle e di altri rifornimenti di prima necessità.
La scelta di Bari quale Quartier Generale della 15th Air Force americana era l’evidente vicinanza all’aeroporto di Foggia, designato, a sua volta, quale base principale dei bombardieri americani ed a quell’epoca in allestimento.
La città quindi, venne invasa anche da tutto il personale tecnico che avrebbe poi dovuto insediarsi nell’aeroporto di Foggia. Erano giunti così, circa 250 tra ufficiali dell’aviazione americana e tecnici civili di primo impiego oltre ad altre diverse centinaia di avieri e di personale civile da impiegare nei lavori di allestimento delle piste e degli hangar.
Totalmente assorbiti nel compito di dare velocemente una base alla nuova forza aerea, gli Alleati diedero poco rilievo alla possibilità che i tedeschi potessero organizzare un raid aereo su Bari.
La Luftwaffe in Italia aveva, ormai da molto tempo, rallentato la sua attività.
Lo sviluppo sfavorevole della Campagna d’Italia, l’aveva via via indebolita ed i suoi scarsi organici difficilmente avrebbero potuto essere impegnati in uno sforzo maggiore dell’attività di ordinaria routine. O almeno questo, era quello che i capi Alleati pensavano.
I voli della ricognizione tedesca su Bari venivano di regola osservati dalle batterie contraeree britanniche con annoiato distacco.
All’inizio, gli artiglieri inglesi avevano sparato all’indirizzo di quegli ospiti indesiderati, ma poi avevano cominciato ad ignorarli nella convinzione di risparmiare le munizioni.
Rispondendo alle inevitabili polemiche circa le inapplicate misure di sicurezza, il Vice Maresciallo dell’Aria britannico, Sir Athur Coningham, tenne una conferenza stampa nel pomeriggio dello stesso 2 dicembre assicurando i reporters al seguito alleato, che la Luftwaffe in Italia doveva ritenersi semplicemente disfatta. Egli disse di confidare nel semplice fatto che non riteneva più in grado i tedeschi di attaccare Bari. Dichiarò di ritenere “un personale affronto ed insulto” se la Luftwaffe fosse riuscita a tentare la più piccola e significativa azione in quell’area.
Nessuno pur tuttavia, era realmente convinto che la resistenza delle forze aeree tedesche fosse stata realmente spezzata. Ad esempio, il capitano dell’esercito britannico A. B. Jenks, che era il responsabile per la difesa del porto, sapeva perfettamente che le misure contraeree adottate erano insufficienti e che la preparazione dello stesso personale addetto alla difesa era inadeguato. Ma la sua voce e quella di pochissimi altri ufficiali, rimaneva inascoltata rispetto ai cori compiacenti della restante parte degli ufficiali, tutti facenti parte del seguito del Vice Maresciallo dell’Aria, Sir Coningham.

Il porto
Quando arrivavano le prime ombre della sera, i docks del porto di Bari venivano illuminati a giorno perché lo scarico dei cargo potesse proseguire. Nessuna precauzione ulteriore venne mai presa, nessuno parve mai sentire l’obbligo di imporre una qualche misura di oscuramento.
Il capitano Otto Heitmann, ufficiale di rotta della nave tipo Liberty “SS John Bascom”, osservava dal ponte della sua nave il lento procedere delle operazioni di scarico.
Sperava in cuor suo che potessero subire una qualche accelerazione.
Egli aveva presentato una formale richiesta alle autorità del porto per ottenere una precedenza nelle operazioni di scarico, ma non aveva ottenuto risposta. Questo lo aveva molto indispettito, ma non mancò di nascondere il suo disappunto all’equipaggio.
Se Heitmann avesse saputo che cosa la “SS John Harvey”, altra nave Liberty ancorata al loro fianco, portava nelle sue stive, avrebbe avuto ben altre ragioni di preoccupazione.
La “SS John Harvey”, comandata dal capitano Elwin F. Knowles, era una tipica nave Liberty; anonima ed assolutamente simile a tutte le altre navi ancorate in quel momento nel porto.
Molti di questi cargo erano carichi delle merci convenzionali per un fronte di guerra: cibo, munizioni, equipaggiamenti, carburante.
Ma quella nave così uguale al altre, così prima di significative differenze, aveva invece un carico segreto: circa 100 tonnellate di bombe cariche di gas iprite.
Le bombe erano una precauzione, avrebbero dovuto essere utilizzate solo se la Germania avesse, a sua volta, resuscitato lo spettro della guerra chimica.
Nel 1943, la possibilità che la Germania potesse utilizzare gas venefici appariva comunque come un’ipotesi remota.
A quel punto del conflitto l’iniziativa strategica era passata agli Alleati e la Germania era alla difensiva su tutti i fronti. Le forze tedesche avevano subito l’enorme disfatta di Stalingrado e subito dopo perso il controllo del Nord Africa.
Gli Alleati erano adesso sbarcati in Europa e stavano procedendo lentamente nel tentativo di risalire la penisola italiana.
Il Presidente americano Franklin D. Roosevelt, si ispirò nella continuazione della politica perseguita dai suoi predecessori, che tentarono di bandire la guerra chimica (Trattato di Washington del 6 febbraio 1922 e successivo Protocollo di Ginevra del 17 giugno 1925) e l’uso dei gas in generale, da parte di ogni nazione civile.
Pur tuttavia, durante l’avanzata alleata sul fronte del Nord Africa, vennero rinvenuti ingenti quantitativi di gas vescicanti (in realtà si trattava di materiale italiano risalente ancora al primo conflitto mondiale e conservato in Libia, più precisamente furono rinvenuti composti di fenilcloroarsine e iprite). Nonostante il materiale ritrovato dimostrasse di essere non in condizioni di pronto impiego, gli Alleati ipotizzarono uno scenario strategico nel quale le scorte di armi chimiche dovessero essere presenti da ambo i lati. La “SS John Harvey”, venne così selezionata per convogliare sul fronte italiano il suo carico letale e una volta lì giunto, poterlo detenere come riserva strategica.
Il carico letale della “SS John Harvey” era costituito in massima parte da contenitori per bombe convenzionali, lunghi circa 120 cm, del diametro di 20 cm e che potevano contenere circa 30 chilogrammi di iprite ciascuna.
In caso di utilizzo, ognuno di quegli ordigni, avrebbe potuto contaminare un’area di 40 metri di diametro.
L’imbarco del gas avvenne in una località del Maryland, ufficialmente venne imposto il segreto militare e l’attività venne coperta con il più completo riserbo.
Persino lo stesso comandante Knowles non venne subito formalmente informato della cosa.
Ma nel caso della “SS John Harvey” era stata imbarcata iprite di un tipo recente, prodotto durante le fasi precedenti del conflitto, ovvero l’Iprite Levistein H, una sostanza che gassificava facilmente con notevole aumento di pressione.
Ragione per la quale era necessario un controllo costante da parte di specialisti che dovevano seguire il carico.
Per svolgere questa attività, venne incaricato il 1st Lt. Howard D. Beckstrom del 701st Chemical Maintenance Company, che venne così imbarcato insieme ad un distaccamento di altri sei uomini.
Tutti erano esperti nel maneggio e nella manutenzione di materiale tossico.
Quando vennero imposti dai comandi statunitensi come membri dell’equipaggio della “SS John Harvey”, al capitano Knowles risultò immediatamente chiara la relazione che avrebbero avuto quegli improvvisati “ospiti” con il suo carico segreto.
Il cargo attraversò l’Atlantico senza incidenti, evitando gli agguati tesi dai sottomarini tedeschi che infestavano in quel periodo le vie oceaniche di collegamento all’Europa.
Dopo uno scalo ad Orano in Algeria, la nave salpò alla volta di Augusta in Sicilia prima di procedere per Bari.
Il tenente Thomas Richardson, che era l’ufficiale addetto alla sicurezza, era uno dei pochissimi uomini dell’equipaggio che ufficialmente era a conoscenza del carico letale.
I fogli del suo piano di imbarco indicavano chiaramente la presenza di oltre 2.000 ordigni a gas iprite del tipo M47A1 nella stiva.
Richardson naturalmente, voleva scaricare quel pericoloso carico il più velocemente possibile, ma quando la nave raggiunse Bari il 26 novembre, le sue speranze vennero frustrate.
Il porto e la rada erano ingombri di navi e già un altro precedente convoglio attendeva ormai con ritardo di essere a sua volta ammesso alle operazioni di scarico.
Dozzine di imbarcazioni stazionavano lungo i moli e le banchine, ognuna di essa attendeva il proprio turno per essere scaricata. Poiché il gas iprite non appariva ufficialmente registrato come carico a bordo, la “SS John Harvey” non era ovviamente autorizzata ad ottenere nessuna particolare priorità.
Per cinque lunghi giorni la nave rimase inoperosa, ancorata al molo 29, mentre il capitano Knowles tentava inutilmente di ottenere dagli ufficiali britannici del porto un’accelerazione delle operazioni di sbarco.

Il bombardamento
Mentre Knowles fremeva d’impazienza, Werner Hahn, il pilota del ricognitore tedesco era di ritorno alla sua base.
Le sue positive informazioni sulle condizioni di Bari, avviarono subito l’attuazione del raid che era stato discusso e pianificato appena qualche tempo prima.
La pianificazione dell’attacco a Bari era il prodotto di una serie di incontri tra il Feldmaresciallo della Luftwaffe, Albert Kesselring ed i suoi subordinati.
L’aeroporto alleato di Foggia era stato al centro di una discussione che lo aveva designato come un possibile bersaglio, ma le risorse della Luftwaffe erano ridotte al minimo per permettere un bombardamento efficace.
Era stato quindi il Feldmaresciallo della Luftwaffe, Wolfram Von Richthofen, comandante della 2° Luftflotte, che aveva suggerito Bari come una valida alternativa.
Cugino dell’asso della prima guerra Mondiale, Manfred Von Richthofen il famoso Barone Rosso, il Feldmaresciallo era un esperto ufficiale che aveva servito durante la Campagna di Polonia, la Battaglia d’Inghilterra e sul fronte russo.
Kesselring sapeva che ogni suo consiglio doveva essere ascoltato.
Richthofen riteneva strategica Bari e pensava che se il porto fosse stato messo fuori uso, l’avanzata dell’8° Armata britannica avrebbe potuto essere rallentata e anche l’offensiva della neocostituita 15th Air Force sarebbe stata inevitabilmente ritardata.
Richthofen riferì a Kesselring, che gli unici aerei che poteva utilizzare per comporre le squadre di attacco, rimanevano a suo avviso, i bombardieri Junkers Ju-88 A-4.
Con molta fortuna, pensava di poter raccogliere almeno 150 aerei in ordine di servizio per effettuare l’incursione.
Quando la forza di attacco venne però costituita, all’appello mancavano almeno un terzo degli aerei previsti, così solo 105 velivoli risultarono disponibili per la missione.
Ma l’elemento sorpresa, accoppiato con un attacco al tramonto, avrebbe potuto rovesciare il risultato a favore dei tedeschi.
Molti aerei sarebbero giunti dai vari aeroporti dislocati nel Nord Italia, ma Richthofen propose di utilizzare anche un’aliquota di velivoli facendoli arrivare dagli aeroporti basati sul territorio jugoslavo.
Pensò anche a come cercare di confondere le idee agli Alleati, che avrebbero potuto prevedere di subire un attacco proveniente dal nord. Ai piloti degli Ju-88 venne così ordinato di condurre i loro bimotori lungo la costa est dell’Adriatico puntando verso sud e poi, giunti all’altezza di Bari, virare verso ovest.
La contraerea britannica che avrebbe potuto attendersi un attacco sarebbe stata comunque sorpresa dalla sua direzione di provenienza.
Gli Ju-88 sarebbero comunque stati aiutati da una nuova arma: il Duppel.
Questa era un complesso di sottili strisce di carta stagnola, tagliate a diverse lunghezze.
Quando le strisce venivano scaricate nell’aria, i video dei radar alleati rilavavano la stagnola come la traccia che normalmente lascia un aereo, producendo un enorme eco di bersagli fantasma.
Il compito dei piloti era di arrivare intorno alle 19,30 della sera.
Bengala illuminanti avrebbero subito dovuto essere paracadutati per illuminare la via ai velivoli destinati all’attacco, gli Ju-88 sarebbero allora dovuti arrivare bassi dal mare e giungendo nel raggio d’azione dei radar alleati avrebbero dovuto rilasciare il Duppel creando l’inevitabile confusione.
I piloti tedeschi arrivarono, sul bersaglio all’ora stabilita.
Il primo tenente pilota Gustav Teuber, che comandava la prima ondata di attacco fece difficoltà a credere a quanto i suoi occhi stavano vedendo.
I docks di Bari, con tutte le luci accese, splendevano illuminati a giorno!
Teuber poteva vedere distintamente le sagome delle gru del porto stagliarsi nette contro il cielo nelle luci della sera mentre scaricavano i cargo. Il comandante tedesco riusciva a distinguere addirittura le navi con le stive aperte e durante il sorvolo, si puntò mentalmente le banchine a est del porto, che apparivano letteralmente ingombre di navi.
Come uccelli da preda, gli stormi degli Ju-88 scesero in ondate successive su Bari, il loro attacco venne illuminato dai bengala che gli aerei tedeschi del primo gruppo avevano lanciato, ma anche dalle luci della città che non rispettava nessuna misura particolare di oscuramento.
Le prime bombe colpirono in particolare i quartieri della Bari vecchia, enormi geyser di fumo e fiamme si innalzarono ad ogni esplosione, ma fu presto il turno del porto ad essere colpito.
In quel momento circa 30 imbarcazioni erano all’ancora, ogni equipaggio a bordo dovette dare il meglio delle loro possibilità, nel tentativo di fronteggiare l’improvvisa emergenza.
La sorpresa fu totale e qualche nave non poté disporre di tutti gli uomini dei propri equipaggiamenti in quanto molti avevano avuto il permesso di sbarcare a terra.
Le luci dei bengala tedeschi furono il primo ostacolo che i marinai incontrarono nel contrastare l’attacco aereo rimanendo abbagliati.
A bordo della “SS John Bascom”, il secondo ufficiale, William Rudolf spense immediatamente tutte le luci della nave ed allertò il Capitano Heitmann. La squadra addetta al servizio antiaereo si precipitò ai pezzi, unendosi al fuoco di sbarramento che qualche batteria contraerea del porto cominciava adesso ad aprire verso gli aggressori.
Il cielo si rigò della luce dei traccianti e si riempì degli scoppi dei colpi sparati dai cannoncini antiaerei inglesi.
Il fuoco di sbarramento si dimostrò largamente inefficace.
Non c’era più tempo per tagliare i cavi di ormeggio e tentare di defilarsi mettendo le macchine indietro; gli equipaggi delle navi ormeggiate lungo le banchine est, attendevano invano che giungesse un aiuto da qualcuno, quando un terrificante uragano di fuoco cominciò a cadere tutto intorno alle navi da carico, ferme ed indifese.
La “SS Joseph Wheeler” ricevette un colpo in pieno ed esplose in fiamme, la “SS John Motley” fu colpita da una bomba all’altezza della quinta stiva. La “SS John Bascom” che era ancorata subito a fianco delle due navi colpite, fu la vittima successiva.
La nave tremò sotto una pioggia di bombe che la colpirono letteralmente da poppa a prua.
Una di queste esplosioni scaraventò a terra il Capitano Heitmann e la successiva onda d’urto lo mandò a sbattere contro la porta della sala timoni.
Momentaneamente stordito e con le mani ed il viso coperto di sangue, Heitmann cercò di rialzarsi e nel farlo, dovette ricomporre il corpo di uno dei suoi uomini, Nicholas Elgin, che giaceva scomposto vicino a lui, la dove l’esplosione lo aveva gettato; il sangue gli zampillava da una profonda ferita alla testa ed il corpo del marinaio era stato letteralmente spogliato dei suoi abiti dalla forza dell’onda d’urto.
La plancia della nave era parzialmente distrutta ed i ponti erano stati perforati in molti punti; rottami e detriti erano ovunque.
Non c’era null’altro da fare che abbandonare la nave.
Ignorando il dolore per le proprie ferite, Heitmann ordinò all’equipaggio di ammainare le scialuppe di salvataggio che risultavano ancora in ordine, quindi lasciarono il relitto che intanto stava imbarcando acqua dalle falle aperte.
L’intero porto aveva assunto un aspetto da girone dantesco, enormi lingue di fuoco giallo arancio si alzavano nel cielo, producendo dense colonne di fumo acre.
Si potevano vedere le navi colpite mentre bruciavano o lentamente affondavano.
Quando il fuoco raggiungeva le stive cariche di munizioni, queste esplodevano con colpi tremendi.
La superficie dell’acqua cominciò a coprirsi di una pellicola nera e viscosa di olio e nafta, che accecava e soffocava quei naufraghi che avevano la sfortuna di doverci nuotare dentro.
In quel mentre, l’equipaggio della “SS John Harvey” stava combattendo un’eroica battaglia per salvare la nave.
Il cargo era rimasto sostanzialmente intatto e non aveva subito colpi diretti o danni da bomba, pur tuttavia era stato avvolto dalle fiamme e la situazione era doppiamente pericolosa visto il carico delle bombe a gas che ospitava nella stiva.
Il Capitano Knowles ed il tenente Beckstrom insieme ad altri che si trovavano a bordo, si rifiutarono di abbandonare il loro posto, ma il loro eroismo fu speso invano.
Senza segnali che facessero presagire qualcosa, la “SS John Harvey” esplose letteralmente per aria in una enorme palla di fuoco.
Un’enorme colonna di fumo si alzò per diverse centinaia di metri, mentre pezzi della nave vennero scagliati tutto intorno nell’aria. Tutti coloro che si trovavano a bordo rimasero uccisi all’istante, mentre chiunque ebbe a trovarsi nel raggio d’azione dello spostamento d’aria, venne gettato a terra.
Gli uomini a bordo della “USS Pumper”, una nave cisterna che trasportava carburante avio, furono i testimoni degli ultimi minuti di vita della “SS John Harvey”.
Essi raccontarono che l’esplosione venne accompagnata da altissime scie multicolori che ricordavano a molti i fuochi d’artificio del 4 luglio e di come l’immensa colonna di fumo che si alzò dalla “SS John Harvey” assumesse la classica forma a fungo.
L’intera area del porto venne illuminata a giorno dal bagliore dell’esplosione.
La “USS Pumper”, venne letteralmente spostata dal vortice di aria bollente che si creò, facendola sbandare di quasi trentacinque gradi!

Il dramma
Intanto Heitmann e i sopravvissuti del suo equipaggiamento tentavano di raggiungere la punta della banchina est, girando intorno ad un fanale che era stato posto come riferimento ai natanti in avvicinamento.
Dell’originale equipaggio, non rimanevano che una cinquantina di sopravvissuti.
Molti erano feriti seriamente, altri avevano ustioni in ogni parte del corpo, tanto che ogni tentativo di soccorrerli o persino di sostenerli causava loro enormi sofferenze.
Quando raggiunsero il fanale pensarono di essere in salvo, ma presto capirono di non poter più proseguire mentre l’area intorno sembrava trasformarsi in una trappola mortale, visto che un mare di fiamme tagliava fuori Heitmann ed i suoi uomini, dalla lunga spina che collegava la banchina est alla città.
Decisero comunque di rimanere nell’area ed attendere di essere soccorsi, quando il Guardiamarina K.K. Vesole, comandante del distaccamento armato di guardia sulla “SS John Bascom”, cominciò ad avere qualche problema di respirazione. Molti altri uomini cominciarono ad avere un respiro affannoso, ma fu lo stesso Vesole che cominciò a notare qualcosa di strano circa il fumo che li circondava.
“Sento odore di aglio” disse, senza realizzare a pieno le implicazioni legate a quanto stava dicendo.
L’odore dell’aglio era il caratteristico indizio rivelatore dell’iprite nell’aria.
Il gas aveva iniziato a liberarsi, miscelato con il carburante che galleggiava nel porto e andava mescolandosi anche con il fumo che permeava l’intera area.
L’iprite, insieme al carburante poi, rivestiva interamente i corpi degli sfortunati marinai alleati che lottavano nell’acqua finirono per inalare l’iprite gassosa.
Cominciarono a verificarsi le prime vittime: “Generalmente il superstite era ricoverato con ustioni seguite alla vescicazione della superficie corporea. Veniva sottoposto alle terapie del caso a cui seguiva un sostanziale miglioramento delle condizioni generali. Poi improvvisamente cominciava ad accusare disturbi nella respirazione, perdeva la voce, espettorava muco fetido e giallastro misto a sangue scolorito ed il polso si indeboliva. Infine, nonostante tutte le misure di emergenza che il caso richiedeva, il paziente cessava di vivere”.
In questo modo morirono, secondo stime prudenziali di fonte americana, circa un migliaio di civili.
Ma le stime esatte non poterono mai essere stabilite, in quanto dopo una prima fuga dei civili verso le aree del porto, per sottrarsi alla soffocante nube tossica, essi diedero vita ad un vero e proprio precipitoso esodo verso le campagne circostanti.
Se e quante furono le vittime ulteriori nei giorni seguenti tra i profughi eventualmente intossicati, nessuno fu mai in grado di stabilirlo con certezza.
Intanto una lancia, inviata dal “USS Pumper” che ancora galleggiava, andò in soccorso del Capitano Heitmann e degli altri sopravvissuti della “SS John Bascom”, rimasti sulla banchina est.
Ma i loro maggiori problemi iniziarono soltanto allora.
Il raid tedesco era iniziato alle 19,30 della sera e terminò 20 minuti più tardi.
Le perdite da parte germanica furono irrisorie e di gran lunga inferiori a quelle che erano state le loro migliori previsioni. I tedeschi infatti, si sarebbero attesi che gli equipaggi dei bombardieri delle prime ondate di assalto, versassero un pesante tributo di sangue. Ma non fu così.
Diciassette navi alleate erano nel frattempo affondate ed altre otto pesantemente danneggiate, legando indissolubilmente Bari alla definizione americana di una “seconda Pearl Harbor”.
Gli americani sostennero le perdite più elevate perché vennero affondate le cinque navi liberty: “SS John Bascom”, “SS John L. Motley”, “SS Joseph Wheeler”, “SS Samuel J. Tilden”, “SS John Hervey”, gli inglesi persero quattro cargo, i norvegesi tre, i polacchi fedeli al Governo di Londra due e la Marina Mercantile italiana, che aveva optato per servire in favore degli Alleati, altre tre navi.
Il mattino successivo, ai sopravvissuti, si presentò uno spettacolo di assoluta devastazione.
Una parte di Bari era stata ridotta in un ammasso di rovine, particolarmente colpita sembrava l’area medievale della città vecchia.
Parti del centro abitato e del porto stavano ancora bruciando e lunghe volute di fumo nero salivano in cielo. Le perdite tra il personale militare e quello della marina mercantile furono oltre un migliaio, tra morti e feriti.
Circa 800 uomini dovettero essere ricoverati negli ospedali della zona.
Fortunatamente Bari era la località dove gli Alleati avevano deciso di concentrare un discreto numero di ospedali da campo con le relative attrezzature.
Il Policlinico, che a Bari era stato edificato dal Fascismo, era la sede del 98th British General Hospital e del 3rd New Zealand Hospital. Queste due strutture sanitarie militari, furono i principali ospedali che accolsero il maggior numero delle persone contaminate dall’iprite.
Le vittime dell’incursione cominciarono ad affluire, all’inizio lentamente poi in vere e proprie ondate, fino a saturare tutte le strutture di prima accoglienza.
Quasi immediatamente qualcuno dei feriti iniziò a manifestare la sensazione di qualcosa di granuloso negli occhi, seguita da bruciori e dolori.
Le loro condizioni cominciarono subito a peggiorare nonostante tutte le misure di emergenza adottate. I loro occhi si gonfiarono e la loro pelle cominciò a ricoprirsi di vesciche
Sin dal 1942 gli Alleati avevano messo a punto un kit di pronto soccorso da utilizzarsi in caso di contaminazione.
Ma nel caso di Bari non si fece in tempo ad utilizzarli, anzi siccome il carico era coperto da assoluta segretezza, non fu diramato nessun allarme ed il personale medico curò le vittime per le ustioni e le conseguenze delle esplosioni.
I sanitari e gli infermieri che avrebbero dovuto prestare la prima assistenza ai feriti, senza nessun tipo di informazione su quanto fosse accaduto, non fecero levare gli abiti contaminati di dosso a quei marinai che erano caduti in acqua e che erano stati avvolti dalla letale pellicola oleosa composta da nafta ed iprite.
Le vittime colpite dal gas erano scosse da colpi di tosse violenti ed accusavano difficoltà respiratorie, temporaneamente accecati, con un polso sempre più debole, l’agonia delle bruciature veniva spesso accompagnata dai danni prodotti dall’iprite gassosa con tremende ustioni alle ascelle, all’inguine fino a causare la tumefazione dei genitali.
Gli uomini iniziarono a morire e qualche medico iniziò a sospettare che un agente chimico potesse essere una causa dei decessi sempre più numerosi.
Qualcuno puntò subito il dito verso i tedeschi, immaginando che questi ultimi avessero in qualche modo riesumato lo spettro della guerra chimica.
Un messaggio venne subito spedito al Quartier Generale Alleato in Algeri, informando il Responsabile Aggiunto della Sanità Militare, Generale Fred Blesse, che decine di pazienti stavano morendo a Bari a causa di una misteriosa malattia.
Per risolvere il mistero, Blesse inviò il Lt. Col. Stewart Francis Alexander, un medico militare inglese esperto di guerra chimica, a Bari.
Alexander esaminò i pazienti ed intervistò quelli che riuscivano a parlare.
Iniziò subito a pensare ad una contaminazione da iprite gassosa, ma il medico non poteva esserne completamente certo.
I suoi sospetti furono confermati quando un frammento di un contenitore per bomba d’aereo venne ritrovato alle spalle del porto. Il frammento venne identificato come una bomba americana del tipo M47A1, un modello che poteva essere caricato a gas iprite.
I tedeschi vennero così subito eliminati dalla lista dei sospetti ed i britannici espressero ai loro alleati americani biasimo per l’accaduto.
Il Tenente Colonnello Alexander, pur tuttavia, non riusciva ancora a comprendere come e dove si fosse potuto originare l’incidente delle bombe all’iprite.
Il medico iniziò a conteggiare il numero dei deceduti, suddividendoli secondo gli equipaggi originari di appartenenza.
Quindi ricostruì in un grafico, attraverso le scarne testimonianze, la posizione della navi nel porto al momento dell’attacco.
La maggioranza delle vittime risultava in larga parte, proveniente dagli equipaggi delle navi ancorate vicino alla “SS John Harvey”.
Solo allora, davanti all’evidenza, gli americani consegnarono alle autorità britanniche del porto, la documentazione che rivelava loro, la vera natura del carico della “SS John Harvey”.
Alexander stilò un rapporto dettagliato che indirizzò direttamente al Comando Supremo Alleato, quest’ultimo venne approvato dallo stesso Generale Dwigt D. Eisenhower.
Il segreto militare venne posto sull’intera faccenda; si decise che nei rapporti formali con la stampa, sia i britannici che gli americani, avrebbero potuto parlare dei risultati devastanti del raid germanico ma del ruolo che il gas iprite aveva giocato nell’immane tragedia non si sarebbe dovuta fare menzione alcuna.
Il Primo Ministro britannico, Winston S. Churchill, fu particolarmente scrupoloso nell’adoperarsi affinché ogni particolare dettaglio della tragedia rimanesse segreto.
Il suo imbarazzo derivava innanzitutto dal fatto che l’incursione aerea tedesca era stata condotta su di un porto sotto la giurisdizione britannica.
Churchill credeva che la pubblicizzazione del fiasco alleato potesse rappresentare un formidabile colpo per la propaganda tedesca.
Inoltre Churchill prodigò i suoi sforzi perché i medici militari britannici eliminassero dalle liste delle vittime ogni possibile riferimento che potesse legare le cause del decesso ai danni derivanti dal gas chimico.
Al Quartier Generale alleato, si suggerì di indicare nelle cartelle cliniche, le ustioni chimiche con la generica denominazione “cause non ancora diagnosticate” e di indicare per le vittime decedute la dicitura “bruciate in seguito ad azione nemica”.
Delle perdite alleate, sofferte durante il bombardamento di Bari, 628 furono causate dall’iprite.
La maggioranza delle vittime fu rappresentata naturalmente dagli uomini della Marina Mercantile.
Di queste, 69 morirono nelle due settimane successive all’incursione.
Molti dei colpiti poi, come nel caso del capitano Heitmann della “SS John Bascom”, pur sopravvivendo, dovettero essere ricoverati in strutture specializzate, alcuni sino oltre la fine del conflitto.
Nella triste contabilità dei morti, come abbiamo già detto, non poterono mai figurare i civili italiani che furono contaminati dalla nube letale. Le stime prudenziali di fonte americana, che furono all’epoca formulate, parlano di circa un migliaio di vittime.
L’esodo che seguì al raid verso le campagne circostanti, impedì pur tuttavia di assommare tutti coloro i quali morirono lontano dalle strutture sanitarie alleate.
Ancora oggi, peraltro, non è possibile stimare quanti furono i morti causati anche dalle cure inadeguate se non addirittura inappropriate.
A causa dell’enorme numero dei colpiti, non fu nemmeno possibile stendere la sola contabilità dei feriti temporanei.
L’equipaggio italiano della nave da carico “Bistera”, ad esempio, scampò al fuoco nemico e la nave rimase nelle vicinanze del porto tutta la notte tentando di prestare soccorso alle navi vicine.
Il giorno seguente, la nave salpò verso Taranto, ma durante la navigazione il personale iniziò a lamentare fortissimi bruciori agli occhi e poco mancò che l’intero equipaggio diventasse cieco, senza possibilità di arrivare all’ormeggio in porto a Taranto.
I danni e le vittime rappresentarono una immane tragedia, ma Bari rappresentò anche un disastro strategico.
Il porto, dopo il terribile avvenimento, rimase completamente chiuso per tre settimane.
Il 12 gennaio 1944, la 5° Armata del Generale Mark Clark, lanciò un’offensiva dal fronte sud nel contesto di un più vasto piano offensivo della Campagna d’Italia, che prevedeva tra l’altro lo sbarco alleato ad Anzio qualche giorno più tardi.
Elementi della 5° Armata attraversarono il fiume Rapido e stabilirono inizialmente una testa di ponte, l’offensiva presto si arenò e dovette essere interrotta a causa dei mancati rifornimenti.
Ufficialmente la causa fu ricondotta alle cattive condizioni climatiche che ebbero a verificarsi in quel periodo e che crearono dei problemi nei rifornimenti, ma la chiusura di Bari fu probabilmente uno dei maggiori fattori di quel fallimento.
Anche la 15th Air Force americana ebbe a soffrire degli ostacoli creati dal successo tedesco a Bari.
Era già stata pianificata infatti, un’azione offensiva verso gli obiettivi della Germania, combinata con l’8th Air Force di stanza in Inghilterra.
L’azione si sarebbe dovuta svolgere solo due giorni dopo quello che poi risultò essere il giorno dell’incursione aerea germanica!
Il bombardamento di Bari compromise la partecipazione della 15th Air Force in quell’offensiva specifica e quest’ultima non poté contribuire all’andamento del conflitto fino a dopo il febbraio 1944.
Oltre a rappresentare un disastro strategico, Bari fu uno dei più notevoli exploits della Luftwaffe tedesca (che per inciso non si rese mai completamente conto del brillante risultato ottenuto).
Della tragedia umana invece poco o nulla emerse, la stampa alleata dell’epoca (debitamente ammaestrata) dette pochissimo risalto alla notizia dell’incursione e dell’iprite non parlò affatto.
Le esigenze di segretezza imposte durante il conflitto prima e le vicende del dopoguerra legate al clima di guerra fredda poi, insieme all’ossequio verso l’America imposto dall’Alleanza Atlantica, hanno impedito agli italiani di riappropriarsi di un pezzetto della loro storia minore.
Eppure ormai a quasi settant’anni dalla fine del conflitto, sappiamo che in America, Bari rappresenta oggi un esempio da studiare, da tramandare alle generazioni dei futuri ufficiali della Marina Militare americana.
Perché quel carico di iprite? Gli Alleati in quel periodo erano fermi davanti alla linea di difesa tedesca “Reinhardt”, distesa attraverso le montagne a nord di Isernia e la cresta di San Salvo, fino a Vasto. Per gli Alleati era necessario sfondare la linea “Reinhardt” perché dietro di essa i Tedeschi stavano realizzando una nuova e più munita linea difensiva la “Gustav”.
Il sospetto è che potesse essere questo l’obiettivo delle armi chimiche che non furono poi più necessarie perché il primo dicembre 1943, un giorno prima del disastro di Bari, gli Alleati conquistarono il Monte Camino, baluardo fondamentale della Reinhardt”, consentendo così il crollo della linea di difesa tedesca.

L’EPILOGO
Negli anni a seguire l’iprite continuò ad intossicare ed ad uccidere, nonostante la bonifica del porto. Stime assolutamente prudenziali parlano di almeno duecento casi di ustionati di cui cinque con conseguenze mortali.
Esposti in primo luogo i pescatori, ma anche negli anni immediatamente successivi alla fine del conflitto, ragazzini che raccoglievano metallo nel porto, e poi, nel 1951, dei civili che raccoglievano legna impregnata di iprite proveniente da una nave affondata.
L’Adriatico meridionale è quindi ancor oggi una enorme discarica di munizioni, non solo bombe all’iprite ma munizionamento di ogni genere, anche riveniente dal conflitto NATO-Serbia del 1999.
Si resta attoniti sul dato che nessuno sia mai stato imputato per quello che sicuramente è stato un crimine di guerra e contro l’umanità con costi umani e sociali di enorme portata.
Un velo di misteri avvolge ancor oggi tutta la vicenda la cui portata non fu compresa nemmeno da Mussolini e dai capi militari della Repubblica Sociale, che non avendo coscienza della natura della tragedia, non sfruttarono la violazione delle Convenzioni Internazionali ad uso di utile propaganda contro gli Alleati!
Al bombardamento di Bari parteciparono infatti anche aviatori italiani della R.S.I., fra cui un pilota di Cisternino, poi emigrato a Bologna nel dopoguerra, di cui stiamo cercando di rintracciare le memorie.
Sulla tragedia dei civili baresi e dei militari Alleati il colonnello medico Stewart F. Alexander, seguito dal dottor Cornelius P. Rhodhes, costruì un’ipotesi di terapia per la leucemia, stante il dato che il gas mostarda era capace di operare rapido calo dei globuli bianchi. Fu così che, grazie a successivi studi nell’Università di Yale, a New York, un derivato dell’iprite, la mecloretamina, divenne uno dei primi farmaci antitumorali.

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