sabato 31 agosto 2013

Due parole sulla resistenza e il 25 aprile


di Maurizio Barozzi

«Il 25 Aprile 1945, dopo quasi due anni di guerra civile e di lotta antifascista, all’invito del CLN alla insurrezione, il popolo si sollevò a fianco dei partigiani cacciando via i tedeschi e sbaragliando i fascisti».

Con questo ritornello, che ha anche l’avallo delle autorità costituite ed è immortalato in festività, ricorrenze e quant’altro, si ha la sintesi di quello che è un mito: la Resistenza del popolo italiano contro i nazi fascisti, una “vulgata” totalmente falsa.

L’esaltazione unilaterale di imprese, di episodi stravolti, spesso inventati è sempre avvenuta da parte del potere costituito: è un modo come un altro di darsi una dimensione storica, di dipingersi come buoni ed eroici. Non a caso spesso le guerre sono iniziate dall’aggressore con una false flag, una finta offesa ricevuta, in modo da giustificare l’aggressione.

Anche il Risorgimento, parliamoci chiaro, è per buona parte una invenzione a posteriori e l’agiografia risorgimentale copre molte mascalzonate, nasconde gli gli sporchi interessi anglo francesi e le porcherie massoniche e piemontesi, oltre a diverse stragi e assassini. Ma almeno il Risorgimento ebbe una, seppur contenuta, partecipazione da parte della borghesia, sia intellettuale che mercantile e l’idea-Nazione riuscì a mobilitare diversi giovani. Anche sul piano “militare” poi, pur ridimensionandolo nelle esagerazioni, si può annoverare la presenza di Garibaldi.
Dietro la Resistenza invece c’è il nulla.
Non che sia falso che ci siano stati degli antifascisti, anche dei partigiani e persone che hanno lottato contro la RSI e i tedeschi, ma il falso è costituito dal fatto che, semmai, la minoranza di italiani che hanno partecipato alla RSI di Mussolini fu più numerosa, ma sopratutto gli episodi di carattere militare di questa presunta “Resistenza” furono talmente scarsi da risultare insignificanti.
Non ci fu affatto una partecipazione di popolo alla lotta antifascista, perchè il popolo la gente comune, rimase in massima parte estranea alle diatribe politiche e in attesa di una sperata e celere conclusione della guerra. Ed infine, è falso che il 25 Aprile ci fu una insurrezione che sbaragliò e caccio via fascisti e tedeschi, che invece, incalzati dalle truppe Alleate, cercarono di ritirarsi verso l’estremo nord (i fascisti) oppure si arresero e si chiusero nei loro acquartieramenti (i tedeschi).
La “verità” è sempre una sola, anche se spesso nascosta o confusa e per uno storico, qualunque siano le sue convinzioni politiche, sarebbe assurdo cambiarla o edulcorala per sostenere la propria ideologia o visione politica. In questa sede (articolo) tralasciamo riferimenti e documentazioni a sostegno della nostra tesi che, in ogni caso, è sotto gli occhi di tutti.
Personalmente, essendo il sottoscritto nato nel 1947, sono arrivato a queste conclusioni per ricerche, studi, analisi del periodo in questione, come un qualsiasi storico contemporaneo che analizzi, per esempio, la rivoluzione francese.
In ogni caso, avendo ascoltato tantissimi reduci o contemporanei a quegli avvenimenti, ho trovato conferma alla mia asserzione (del resto condivisa da tanti storici, molti dei quali per prudenza o per carriera non lo dichiarano apertamente), ma ho percepito anche la convinzione che molti contemporanei ai quei fatti, oggi anziani, in particolare persone politicizzate, oltre al trascorre del tempo che nel ricordo sfuma o esagera i fatti, spesso sono talmente contraddittori e quindi non in grado di dare un quadro realistico degli avvenimenti.
Alquanto realistica ed esaustiva risulta invece la letteratura di qualche decennio addietro, quella che non affrontava argomenti bellici o politici, ma narrava, indirettamente o di passaggio, semplici vicende quotidiane di vita vissuta tra il 1943 e il 1945. Incrociandoli con i fatti conosciuti ed accertati, sono questi i racconti che ci danno il quadro reale della situazione.

LA RESISTENZA

In tutta obiettività possiamo oggi dire che la cosiddetta “Resistenza” è una invenzione a posteriori ed ogni serio ricercatore storico sa benissimo che, militarmente parlando, la Resistenza fu letteralmente inesistente.
Siamo quindi in presenza di una agiografia dove sono stati ingigantiti o inventati fatti, episodi e altro, per descrivere una inesistente lotta del popolo italiano contro i fascisti e il tedesco invasore. A latere, infine, tutta una editoria e pubblicistica, soprattutto quella orientata a sinistra, ma non solo, sfornò a getto continuo racconti, rievocazioni, memoriali, testimonianze che, da un punto di vista storiografico lasciano molto a desiderare.
Sulla base dell’opera dello storico ed ex partigiano Roberto Battaglia Storia della Resistenza Italiana – Einaudi, 1953, iniziò così poco a poco a crearsi un mito: il “mito della Resistenza” che prese forma e si impose verso la fine degli anni ’60, primi anni 70, anche sulla scia delle fiction, ovvero di una certa filmografia che fin dal primo dopoguerra si impegnò in questo campo: tra gli altri, ricordiamo per esempio: Roma città aperta del 1945 di Roberto Rossellini; Achtung! Banditi! del 1951 di Carlo Lizzani; Le quattro giornate di Napoli del 1962 di Nanni Loy; e soprattutto Mussolini ultimo atto, del 1974 di Carlo Lizzani.
Così come nel film di Loy sulla presunta sollevazione di Napoli, anche in questo sulla fine di Mussolini del Lizzani, veniva abbondantemente travisata la realtà dei fatti e inventati episodi mai avvenuti. Il film di Lizzani poi, non era altro che la messa in pellicola della “vulgata” ovvero della versione falsa e di comodo che elementi del Pci ebbero a fornire sulla morte del Duce addebitandone oneri e onori a tal Walter Audisio. Una “vulgata” che lo stesso regista Lizzani nel 2007, in un suo libro di memorie ebbe oltretutto a smentire clamorosamente (e con essa il suo stesso film in cui Franco Nero interpretava l’”eroico” colonnello Valerio) laddove, riportando una lettera che gli scrisse nel 1975 Sandro Pertini, questi ebbe ad affermare: “...e poi non fu Audisio a eseguire la ‘sentenza’, ma questo non si deve dire oggi”.
Ma anche le presunte “4 giornate di Napoli”, ci consentono di fare un paragone ed elevare una osservazione storica: si prenda ad esempio l’episodio di Firenze, dove nutriti gruppi di “franchi tiratori” fascisti, accolsero a fucilate dai tetti gli invasori americani. Di questo avvenimento ne abbiamo innumerevoli prove, testimonianze, anche statunitensi, riscontri e documentazioni.
Viceversa, della immaginaria sollevazione del popolo napoletano che caccia i nazisti, non c’è nulla, se non racconti distorti di episodi affatto diversi che poi sono stati travisati, ed appunto la fiction filmica.
Ergo i “franchi tiratori” fascisti sono un fatto storico acquisito, le “4 giornate di Napoli”, viceversa, appartengono alla fantasia o alla propaganda.
Ora, storicamente, non possiamo negare che nei due anni che stiamo prendendo in considerazione, 1943 – ’45, ci furono diversi italiani antifascisti, che, come naturale che accada, presero ad aumentare, mano a mano che si andava verso la sconfitta.
Del pari ci furono partiti e gruppi che in qualche modo avversarono il fascismo e i tedeschi e nel corso degli eventi, molti furono catturati, imprigionati e passati per le armi. Una seria indagine storica ci dice però che, sostanzialmente, il cosiddetto fenomeno “partigiano”, con tanto di presunta partecipazione popolare, fu talmente esiguo che non se ne ha traccia sensibile negli avvenimenti di quel tempo.
Ma ancor più insignificante è il riscontro militare di una effettiva lotta partigiana, quello che dovrebbe caratterizzare il valore e la portata di una vera e propria Resistenza, e che invece manca assolutamente.
Qualche imboscata, attentati nell’0mbra, occupazioni di località sgombrate dal nemico, ripiegamenti in montagna, ecc., non possono costituire un serio elemento per dare a questi episodi il carattere di una resistenza armata ai “nazifascisti”.
Mancano quindi i due elementi fondamentali: azioni ed eventi bellici significativi e partecipazione di popolo, per poter parlare di Resistenza.
Ingigantire qualche episodio e inventarne altri, con la complicità dei partiti e della editoria embedded, può creare un mito, non descrivere la storia.
I cosiddetti partigiani, di cui oggi se ne decantano le gesta, furono poche migliaia in tutto e su tutto il territorio nazionale e i renitenti alla leva che ne costituivano il grosso delle fila, erano andati in montagna, proprio per non combattere.
Gli idealisti antifascisti, comunisti e non, erano una presenza veramente minimale, comunque bisogna riconoscere che c’erano, e spesso furono proprio quei pochi a pagare con la vita.
Ma parlare di “liberazione”, di sollevazioni popolari, ovvero di Resistenza è non solo una esagerazione, ma un falso storico, perchè questa minoranza di antifascisti “attivi”, idealisti, renitenti o occasionali, alla macchia o clandestini nelle città, frange dell’Esercito monarchico, ecc., non compirono alcun atto bellico di rilievo.
Attentati, come quello di via Rasella, a Roma, compiuti da cinque, sei persone, che fanno scoppiare una bomba, nascosta in un carrettino, lo storico non può considerarli vere imprese di guerra.
Li considerarono purtroppo come atti di guerra a loro danno, con le conseguenze che sappiamo (rappresaglia delle Ardeatine) i tedeschi.
I dirigenti e i pochi membri del CLNAI, con i loro altisonanti nomi di “battaglia” svolazzavano nei conventi o in sicuri rifugi delle città, riunendosi, parlando e scrivendo di lotta al fascismo e di guerra ai nazifascisti, ma facendo poco o nulla sul piano militare. Anche qui, quindi, abbiamo una Resistenza più che altro sulla carta.
A guerra finita si tramutarono in gesta ed imprese, quelli che al massimo erano i loro intenti o quel poco di “trafficare” e contatti che ebbero a intraprendere.
Certo, leggendo i diari, i libri e i memoriali di questi antifascisti, sembra chissà quali gesta stessero compiendo, quali grandi attività antifasciste e armate, stessero portando avanti, ma non è così e le cronache storiche smentiscono o non registrano queste imprese
Non basta un “diario”, un memoriale, un articolo, per scrivere la storia!
Una qualche nefasta presenza la fecero sentire i GAP e le SAP, con le azioni terroristiche in incognito e usi a colpire alle spalle, istigati, da Radio Londra. Costoro importarono in Italia, metodi terroristici che poco ci avevano appartenuto e vien dal ridere che anni dopo, quegli stessi metodi del “mordi e fuggi”, colpisci alle spalle, praticati dalla Brigate Rosse, furono considerati “criminali” da parte del “padre della Resistenza”, quel Sandro Pertini divenuto ossequioso Presidente di una Italia liberal capitalista e colonia americana.
Ma tornando ai Gap, anche qui stiamo parlando di poche decine di componenti, nascosti tra la popolazione nelle grandi metropoli.
Ricapitolando: l’esiguo numero di partecipanti attivi alla lotta contro il fascismo e soprattutto le poche e insignificanti loro gesta militari, smentiscono la dimensione di quelli che pomposamente si definiscono: Resistenza, Insurrezione, Liberazione.
Le stesse fonti partigiane, per esempio, ci dicono che a Como, tra la sera del 25 aprile 1945, quando vi giunse indisturbato Mussolini con i membri del suo governo e la mattina successiva vi arrivarono circa 4 mila fascisti in armi, i membri clandestini del CLN locale ammontavano a circa 50, ovviamente, più che altro di nome che non come vera presenza attiva.
E pensare che era con questi “fantasmi” che le rinunciatarie autorità della RSI di Como: Questore, console della Milizia e Prefetto repubblicani, da alcuni giorni stavano trattando in segreto il passaggio dei poteri e il loro defilarsi.
A questo si aggiunse la scempiaggine, l’idiozia, la assoluta mancanza di senso militare e in alcuni casi la voglia di farla finita se non il tradimento, da parte di alcuni comandanti fascisti ivi sopraggiunti, che in poche ore fecero squagliare come neve al sole quei 4 mila uomini armati e a notte alta del 27 aprile firmarono una ignobile “tregua” che in realtà era una vera e propria resa che finì per avere tragiche conseguenze per molti fascisti oramai fatti arrendere, ma non per alcuni loro comandanti che evidentemente avevano concordato il modo per squagliarsi e che poi, alcuni di loro, troveremo a far carriera nel partito di destra, neofascista per nomina, ma antifascista di fatto.
É noto che quando Mussolini il pomeriggi del 25 aprile 1945 si recò in Arcivescovado per trattare un passaggio indolore dei poteri (non una resa, come si volle poi far credere) tra le sue milizie che si ritiravano verso la Valtellina e le nuove autorità cielleniste che sarebbero subentrate nel vuoto dei poteri di quei giorni, i rappresenanti ciellenisti, presenti in Curia con il Cardinale Shuster, avrebbero dovuto chiedere a Mussolini di “lasciargli” alcuni reparti della RSI, per mantenere l’ordine nel caos di quei momenti, perchè loro, i delegati del CLN e del CLV, non ne avevano affatto. Un Cadorna, comandante, più che altro nominale del CVL, il braccio armato della Rsistenza che si muoveva solo dietro l’arrivo delle truppe Alleate, e addirittura in quella sede pretendeva una resa senza condizioni da Mussolini, si indignò e disse “Ho 50 mila uomini!”. Battendo il pugno sul tavolo, il maresciallo Rodolfo Graziani gli rispose: “Tu hai 50 mila c...!”
Queste cose qualche storico o osservatore storico più onesto e serio o con meno remore (come fu ad esempio Franco Bandini) le ha spesso scritte apertamente.
La tanto decantata 57esima Brigata Garibaldi che alle 7 di mattina del 27 aprile, ebbe la ventura di incappare in Mussolini e la sua colonna comprensiva dei carri tedeschi in ritirata, mentre cercavano di defluire verso la Valtellina, era composta da poco più di una decina circa di partigiani. Furono le circostanze, la defezione tedesca, la strada impervia e a fettuccia facilmente sbarrabile e controllabile dalla soprastante altura (il “Puncet”) che consentirono a questi partigiani di fermare la colonna motorizzata bloccata appena fuori dell’abitato di Musso.
Questa era la consistenza numerica della Resistenza almeno che non vogliamo prendere in considerazione le adesioni a cose fatte, quelle che videro precipitarsi ad ingrossare le fila dei CLN o delle Brigate partigiane centinaia di “eroi dell’ultim’ora, o le grosse aliquote di popolazione che, spariti i tedeschi e arresisi i fascisti, scesero nelle piazze, spesso per curiosità, ma ovviamente facendo massa e partecipando emotivamente con i “vincitori”, ecc.
La resistenza quindi fu, più che altro un operare politico, un darsi da fare e un attività minimamente militare, per conto degli Alleati e su loro disposizioni, come dimostravano le direttive e le imposizioni di un Promemoria di accordo fra il Comandante Supremo Alleato del teatro di operazioni del Mediterraneo e il C.L.N.A.I del 7 dicembre 1944 firmato dal generale Maitland Wilson, e per il CLNAI da Alfredo Pizzoni, Ferruccio Parri, Giancarlo Paietta ed Edgardo S0gno.
Tra le forze principali che operarono in senso antifascista dobbiamo segnalare l’Alta Finanza, per suoi interessi, attraverso il suo uomo nel CLNAI Alfredo Pizzoni e gli esponenti industriali: i Valletta, i Falk, gli Edison, ecc., ostili al fascismo e preoccupati dalle Leggi sulla Socializzazione varate dal governo di Mussolini.
Nei giorni caldi della “Liberazione” al Nord, partigiani armati furono mandati a difendere le ville dei grandi industriali ai quali poi, a guerra finita, fu fatto il regalo, su ordine Alleato, di cancellare tutte le Leggi, da poco varate sulla Socializzazione.
Un discorso a parte andrebbe fatto per il Pci, l’unico che poteva contare su gruppi di militanti sparsi nel territorio, il quale però condusse una guerra civile tutta sua, quella che abbiamo accennato dei Gap e Sap, con agguati e imboscate, finalizzata ad assecondare i desiderata di Mosca la quale poi era in accordo con gli Alleati in virtù degli impegni di Jalta.
Togliatti e Longo, quindi, non solo furono fedeli servitori delle direttive di Mosca (che gli imposero la svolta “democratica” di Salerno del 1944, del resto gradita dai dirigenti comunisti), ma anche del SOE, l’Intelligence Britannica, che in varie località organizzò agli uomini del partito comunista i rifugi logistici, le attrezzature e i finanziamenti. Connubi questi che proseguirono anche nel dopoguerra, con la criminale cessione, agli inglesi, di importanti documentazioni di interesse nazionale.
Ma Togliatti fu anche un sodale di monsignor G. B. Montini, il futuro Papa, legato alla massoneria finanziaria statunitense, al tempo organizzatore del servizio segreto Vaticano che per sua natura aveva uomini, o meglio serpi, sia nella Resistenza che nella RSI. Insomma il Pci condusse una sua “lotta privata” che gli doveva far avere un posto politico e una sua funzione nella nuova Repubblica democratica e antifascista.
Altro che rivoluzione comunista in Italia! Solo le destre idiote o in malafede hanno potuto descrivere un PCI rivoluzionario dedito alla sovversione in Italia.

LA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA

A conti fatti, la RSI ebbe, seppur sempre una minoranza, una buona partecipazione di popolo, circa 800 mila aderenti, anche se molti vi aderirono “per ufficio”, ovvero perchè trovatisi a proseguire lavori o servizi nell’Italia del Nord.
Considerando però che furono adesioni verso uno Stato che oramai si sapeva andare verso la sconfitta, con tutte le conseguenze per i suoi seguaci, questi adesioni non furono poche.
Anche i fascisti, le Brigate Nere, le formazioni autonome, ecc., che bene o male a differenza dei partigiani, indossavano una divisa, furono una minoranza, ma comunque costituirono una sensibile presenza di popolo, ma ovviamente, anche loro, subivano da parte della popolazione un certo isolamento (non avversione) perchè considerati una presenza “pericolosa” e “fastidiosa”, che comprometteva e “faceva proseguire la guerra”.
Tutto questo gli occupanti, gli Alleati, lo sapevano benissimo ed ebbero a precisarlo apertamente in varie occasioni, negando anche ai cosiddetti partigiani, privi di divisa e segni distintivi, la qualifica di “combattenti”.
Anche una Sentenza del Tribunale Supremo Militare (n° 747 del 26.4.1954), tribunale, si noti, di questa Repubblica democratica, tra l’altro affermava:
1) I combattenti della RSI hanno diritto di essere riconosciuti belligeranti;
2) gli appartenenti alle formazioni partigiane non hanno diritto a tale qualifica, perché non portavano distintivi riconoscibili a distanza, né erano assoggettati alla legge penale militare.

IL POPOLO ITALIANO

La popolazione italiana, come si può riscontrare da una infinità di memorie non di parte, ma di gente semplice che magari parla di altre cose, di vita quotidiana, ecc., per lo più viveva nella speranza che la guerra finisse al più presto e con essa fame, miseria e disgrazie. Essendo la Nazione impegnata in una lotta mortale per la sua liberta e sopravvivenza, da un punto di vista “morale”, questo agnosticismo non depone certo a favore del nostro popolo, da sempre privo di grandi doti caratteriali, ma del resto quando si parla di civili, di popolazione, le cose sono sempre andate in questa maniera, seguendo le sorti della guerra: folle osannanti agli inizi o se le cose vanno bene, folle avverse che maledicono alla fine se le cose vanno male.
É la natura umana, tanto è vero che, sempre e comunque, i vincitori, hanno poi trovato uomini, civili e militari, pronti a cambiare casacca, a servirli, a interpretare ruoli di governo fantoccio loro assegnati e anche a fare da spie e da boia.
É ovvio che la popolazione con la sconfitta che pareva inevitabile (dal 1944 si avvicinava ogni giorno sempre più) e con l’Italia spaccata in due, Nord e Sud, dal tradimento badogliano e l’invasione in Sicilia, aveva perso il senso reale di chi fossero i veri invasori (che erano gli Alleati) e chi fossero i nostri alleati (i tedeschi) e tendeva a ragionare in termini utilitaristici e di pura sopravvivenza.
L’arrivo degli Alleati nelle cosiddette località “liberate”, di conseguenza, era accolto come la fine della guerra, delle privazioni e per questo festeggiato.
I tedeschi erano considerati soldati corretti, ma su di essi pesavano le loro insensate rappresaglie, non considerando ottusamente costoro che, comunque sia, la RSI era uno Stato alleato e quindi non si dovevano applicare con noncuranza le leggi di guerra. I tedeschi erano temuti e si era lieti quando se ne andavano, ma anche qui, più che altro, perchè agli occhi della popolazione rappresentavano la prosecuzione della guerra e delle privazioni. Insomma, per il popolo, non vi era partecipazione politica, tantomeno ideologica e neppure emotiva, né da una parte, né dall’altra.

IL 25 APRILE E LA “LIBERAZIONE”

Sostanzialmente, il “25 aprile” è la data della nostra sconfitta militare, della totale occupazione del suolo italiano e la fine, tutt’ora perdurante, di ogni nostra sovranità nazionale. Qualunque sia il pensiero e l’ideologia di ciascuno, non si può che prendere atto di questa realtà indiscutibile. Tutto il resto è retorica.
La guerra è la soggiogazione delle nazioni sconfitte, rapina in ogni campo, imposizione di un proprio modello economico, culturale e politico.
E il 25 aprile 1945 l’Italia venne sconfitta e occupata dal nemico e nemico vero, anglo americano. Chi: persona singola, gruppo o partito, da questa occupazione ci ha guadagnato, ne ha tratto benefici in qualsiasi modo, personale, ideale, politico o che altro, può esserne soddisfatto, ma la sostanza dell’avvenimento non cambia: Il 25 aprile l’Italia fu definitivamente occupata dallo straniero. Punto.
Ma a proposito di “liberazione” si sappia che a Milano il 25 aprile, data fatta passare alla storia come giorno dell’insurrezione popolare, proclamata dal CLN, ma in realtà non eseguita, tranne uno sciopero dei mezzi in giornata e gli uffici che presero a svuotarsi nel sentore di imminenti avvenimenti decisivi, non accadde proprio nulla e i fascisti restarono padroni della città, fino a notte alta, quando intorno alle 5 del mattino lasciarono, armati e indisturbati, Milano da Piazza S. Sepolcro, via Dante e Corso Sempione, per incamminarsi verso Como.
Solo dopo quell’ora, nella metropoli, rimasta priva di fascisti, le “nuove” autorità della Resistenza, uscite dai loro sicuri rifugi per ricoprire le cariche che si erano assegnati, ma privi di uomini, come abbiamo già accennato, dovettero far occupare il palazzo del Governo, ovvero la Prefettura di Corso Monforte, lasciata da Mussolini, da uomini della Guardia di Finanza del col. Alfredo Malgeri.
Una G.d.F. da sempre con i piedi in due staffe e ora, a vincitori sicuri, passata ufficialmente dalla parte della Resistenza.
Libri di storia (falsa) e riviste di storia (altrettanto falsa), mostrano sovente foto di gruppi di partigiani e di civili, armi alla mano, che sembrano intenti a formare barricate o studiare imminenti azioni militari. Trattasi quasi sempre di falsi, di pose realizzate da appositi Studi a guerra finita, oppure messe in scena, ben lontani da teatri bellici, atte a mostrare imminenti azioni.
Ma non è raro neppure il caso di alcuni nominativi di fucilati dai tedeschi, in alcune rappresaglie, che vengono dati come “martiri antifascisti, quando invece, addirittura, trattasi di aderenti alla RSI o suo personale che vennero insensatamente rastrellati dai tedeschi infuriati per qualche attentato e passati per le armi.
Certo, storicamente, sono esempi poco importanti, ma sono significativi per dimostrare come, di tante tragedie ed eccidi, di povera gente che non era ne “anti”, nè “pro”, si sono fatte generalizzazioni e vi sono state poste etichette di martiri per una presunta “lotta antifascista”.
Il 27 aprile poi, scesi precedentemente dalle montagne grazie all’arrivo delle truppe Alleate o per il rifluire dei presidi tedeschi e fascisti, arrivarono a Milano le “famose” divisioni partigiane, quelle dell’Oltrepò pavese e più avanti ancora le “famose” divisioni Garibaldi, Matteotti, di Moscatelli della Valsesia, ecc., spesso contrassegnate da cervellotiche e altisonanti numerazioni, ma che in realtà tranne gli “arruolamenti dell’ultim’ora”, erano sempre state costituite da pochi elementi.
Arrivarono e sfilarono con armi e belle divise e fazzoletti, nuove fiammanti, fornite dagli americani, a dimostrazione che mai erano state impegnate in veri combattimenti.
A secondo delle varie località del Nord, fu solo nel pomeriggio del 25 aprile, ma più che altro il 26 e 27 aprile, con i tedeschi che oramai avevano smesso di combattere, anzi si erano arresi agli Alleati e si ritiravano nei loro acquartieramenti e i fascisti che lasciavano i presidi e si ritiravano verso Como e la Valtellina, che si ebbero arruolamenti “tranquilli” e festanti nelle Brigate partigiane e nei CLN locali.
Allora sì che il numero “dei guerriglieri” ebbe a crescere con adesioni che in futuro fruttarono spesso una pensioncina a questi “eroi” dell’ultim’ora.
Sui pochi fascisti rimasti isolati, su quelli che si arresero e così via, si abbatté la furia omicida e vendicativa dell’antifascismo.
Gli Alleati, fin dalla fine del 1943, avevano per il fronte italiano la direttiva di procedere con lentezza, altrimenti avrebbero sfondato il “ventre molle” dell’Asse e sarebbero facilmente penetrati alle spalle del Reich mettendo fine alla guerra.
Ma questo non era contemplato, in quanto in base agli accordi di Jalta, l’Europa doveva essere divisa in due zone di influenza, Est - Ovest e quindi bisognava attendere che i sovietici superassero il fronte est e invadessero l’Europa prendendo possesso delle zone a loro assegnate.
Comunque sia, mano a mano che le truppe Alleate occupavano le località del Nord e imponevano il loro governo AMG, le loro direttive impositive emanate dal PWB, ecc., questi invasori ebbero un duplice comportamento: in alcuni casi lasciarono consumare le stragi dei fascisti e presunti tali e anzi le aizzarono; in altri casi invece le fermarono specialmente se c’erano ufficiali e sotto ufficiali della oramai ex RSI da salvare con il nascosto fine di utilizzare poi questo personale per i loro interessi di occupanti.
Le forze di polizia, il personale delle Prefetture, Commissariati, ecc., oltre agli agenti scelti per ricostruire i Servizi, vennero tutti prelevati o racimolati dalle precedenti strutture, formazioni e Istituzioni della RSI, perchè la “polizia partigiana” era inesistente, personale in gamba ancor di più e quelle poche pattuglie armate della resistenza erano formate da comunisti di cui, ovviamente, gli Alleati, non avevano fiducia, nè intendevano armarli e addestrarli.
E quei fascisti che ebbero salva la vita, grazie all’intervento Alleato, spesso furono quelli che poi fecero una fine peggiore: quella di diventare, in nome di uno strumentale e specioso anticomunismo, servi sciocchi degli statunitensi.
La storia del neofascismo del dopoguerra, inizia proprio in quei momenti, dove il dirigente in Italia dell’Oss James Jesus Angleton fu abilissimo nel mettersi in tasca questi oramai ex fascisti. Le Stay behind, le Gladio, il filo atlantismo, la strategia della tensione degli anni ’60, ne furono la logica conseguenza.
Un'ultima osservazione a proposito di liberazione liberatori.
Fino a quando negli ultimi decenni, sono esistiti comunisti, o presunti tali, oggi scomparsi, collassati con la “casa madre” URSS o con la stessa ideologia marxista disintegrata dal modernismo, dal moderno capitalismo finanziario e dalle ideologie radicali, abbiamo visto come questi comunisti sono sempre stati caratterizzati da una grande contraddizione: consideravano, qui da noi, gli anglo americani dei “liberatori” e di essi ne erano stati fedeli sudditi.
Ora invece, anni ’50 /70, consideravano gli americani, e qui dobbiamo dire giustamente, imperialisti, aggressori della Corea, oppressori dell’America Latina, invasori del Vietnam, padroni delle Multinazionali e così via: USA = Colonialismo, massacri, bombardamenti, Cia, sfruttamento capitalista.
Ebbene: non si erano accorti, questi “comunisti rivoluzionari”, che gli americani non erano altro che gli stessi, loro alleati, loro festeggiati, della “Liberazione” in Italia ?

venerdì 30 agosto 2013

GLI AMERICANI E LA TERRA


Tratto da : “L’America degli americani” 
di John Steinbeck

E' stupefacente lo spirito selvaggio e la sconsideratezza con cui i primissimi coloni hanno affrontato l’America, paese quanto mai ricco.
Essi vi sbarcarono come se fosse il nemico , il che naturalmente era vero.
Bruciarono le foreste e cambiarono le precipitazioni piovose; scacciarono i bisonti dalle pianure, inaridirono i fiumi, incendiando i pascoli e calarono colpi di accetta sul vergine legname delle foreste. Forse pensavano che questo legname fosse illimitato, che non si potesse mai esaurirlo e che un uomo potesse continuare all’infinito a procedere oltre verso nuove meraviglie.
La gran parte delle genti arrivate nei primi tempi saccheggiarono il continente come se lo odiassero, come se dovessero restarci temporaneamente o potessero esserne scacciate in qualunque momento.
Questa tendenza all’irresponsabilità continua ancor oggi in molti americani.
I fiumi sono inquinati dai rifiuti industriali e dagli scarichi delle fogne, l’aria delle città è sudicia e pericolosa a respirare dal vomito incontrollato di prodotti della combustione del carbon fossile, del carbone comune, del petrolio e della benzina. Le città sono circondate da una cintura di rottami e di rifiuti dei loro giocattoli, cioè le loro automobili, i loro divertimenti in scatola. Con una vaporizzazione sfrenata contro un solo nemico, hanno rotto l’equilibrio naturale che la sopravvivenza richiede. Tutti questi mali possono e devono essere eliminati se l’America e gli americani vogliono sopravvivere, ma molti di loro si comportano, ancora, come i loro antenati, rubando al futuro il loro profitto limpido e attuale.
Coloro che inquinano i fiumi e avvelenano l’aria si presume che siano gli eredi dell’antica
convinzione che il cielo e l’acqua non siano proprietà di nessuno e inoltre siano del tutto illimitati.
Quando i primi coloni sbarcarono in America e si addentrarono lungo la costa, si raccolsero in villaggi chiusi dal mare da un lato e da una serie infinita di foreste dall’altro, per difendersi dai Pellirosse, cosa ancor più terribile, dal mistero di una terra sconosciuta che si stendeva nessuno sapeva fin dove. E per un certo tempo pochissimi si curarono o ardirono scoprirlo.
I primi americani si organizzarono e vissero in uno stato di vigilanza militare; ogni comunità costruì il suo fortino a propria difesa. Per legge gli uomini andavano armati e costretti a tenere le loro armi pronte e a portata di mano. Molti di essi indossavano armature costruite sul posto o anche importate; sulla costa atlantica portavano la corazza e l’elmo e gli spagnoli, sulla costa del Pacifico, indossavano un’armatura d’acciaio e di cuoio pesante per difendersi dalle frecce.
Sulla costa atlantica ed in particolare nella Nuova Inghilterra, i coloni coltivavano delle strisce di terra vicino alle loro comunità e alla sicurezza. Ognuno era in servizio permanente di difesa del proprio villaggio e della propria famiglia; perfino i gruppi che andavano a caccia penetravano nelle foreste in forza, più come incursori che come cacciatori, e gli scontri susseguenti con gli indiani, culminanti in scorrerie e perfino massacri, ci fanno notare che il pericolo era reale. Un uomo portava con sé il fucile quando andava a coltivare la terra e le donne restavano in vicinanza delle loro case dalle mura molto spesse, giorno e notte in attesa del segnale d’allarme. I villaggi che i coloni fondarono erano permanenti e la maggior parte di queste comunità sussistono ancor oggi, con le loro registrazioni d’incursioni indiane, di massacri, di scotennature e contro- incursioni punitive. Il capo militare della comunità divenne l’autorità principale in periodi di torbidi e passò molto tempo prima che il pericolo diminuisse e si potesse esplorare il mistero.
Dopo un certo periodo di tempo i coloni cominciarono a spingersi a casaccio verso occidente per cacciare, mettere le loro trappole e alla fine trattare per le pellicce, che erano il bene negoziabile più prezioso che l’America producesse per il commercio e l’esportazione. Poi furono stabiliti centri di scambio come punti di raccolta e gli uomini delle partite di spedizione risalirono e scesero lungo il corso dei fiumi e varcarono le montagne, strinsero amicizia per reciproco profitto con gli indiani, appresero le tecniche di quel mondo selvaggio e solitario, così che questi commercianti –esploratori in breve cominciarono a vestirsi, a mangiare e a condursi in generale come le popolazioni indigene che li circondavano.
Però il sospetto continuava a durare, alimentato da scontri e imboscate che spesso divenivano guerra vera e propria; ma ormai questi americani si battevano, seguivano piste, attaccavano e si difendevano esattamente come facevano gli indiani e si spinsero perfino a scotennare i nemici vinti.
Per parecchio tempo gli americani furono soprattutto viaggiatori, che scorazzavano nel Paese per raccoglierne le cose più preziose, ma con poca intenzione di restarvi; il loro cuore era radicato nelle cittadine che si venivano sviluppando lungo la costa atlantica.
I pochi che restarono, rimasero a vivere con gli indiani, ne adottarono le usanze e alcuni che avevano sposato donne indiane furono considerati come esseri bizzarri e in un certo qual modo col tradimento annidato nel cuore. Quanto ai loro figli mezzosangue, mentre la tribù talvolta li adottava, erano considerati inferiori dalle comunità dei bianchi.
Quindi lo stillicidio d’immigrati cominciò a diventare un fiume, e la popolazione cominciò a trasferirsi verso occidente, per fissarsi stabilmente, almeno così pensavano. 
I nuovi arrivati erano di ceppo contadino e le loro radici erano in Europa, dove quegli uomini non avevano mai posseduto una terra, dato che il possesso di terra era la prerogativa e la prova di una più elevata classe sociale. In America quegli uomini trovarono terre magnifiche e sconfinate ed essi le occuparono.
Abbatterono e bruciarono le foreste per fare posto ai loro raccolti e dimenticarono le
attenzioni nei confronti della terra per conservarne l’utilità.
Dopo aver mietuto un raccolto su un pezzo di terra, si trasferivano più avanti, devastando il Paese come invasori veri e propri. Lo strato superficiale del suolo, trattenuto dalle radici e concimato dalle foglie cadute rimase indifeso sotto le inondazioni, eroso e denudato con gli spuntoni d’argilla e di roccia affioranti. La distruzione delle foreste mutò le precipitazioni piovose, perché le nubi in disperata ricerca non potevano più trovare boschi verdi e ben disposti che le attraessero per mungerle di tutta la loro umidità.
Lo spietato Ottocento fu come una spedizione ostile che si dedicasse a un saccheggio, che aveva tutta l’aria di essere illimitato.
Innumerevoli quantità di bisonti furono ammazzati, scuoiati e lasciati poi a marcire, con l’eliminazione, in tal modo, di una riserva di cibo permanente. Peggio ancora, la distesa delle Great Plains, le immense pianure ai piedi delle Montagne Rocciose, furono derubate del concime lasciato dai branchi di bestiame. Quindi intervennero gli aratri e strapparono lo strato protettivo delle lunghe erbe che alimentavano i bisonti, aprendo il suolo indifeso all’irrompere delle acque e alla siccità che si stabiliva lentamente, oltre che ai venti dannosissimi che spazzavano la Great Central Plains. Vi sono sempre state in America più regioni desertiche di quanto occorressero e i nuovi coloni ne hanno create di nuove.
Poi le ferrovie portarono nuove orde di uomini affetti dalla follia della terra e i nuovi americani si sparsero come locuste attraverso il continente finchè il mare occidentale stabilì una barriera ai loro movimenti. Il carbone, il rame e l’oro li attrassero ulteriormente; quegli uomini infierirono sulla terra, setacciarono e dragarono i fiumi alla ricerca di oro fino a ridurli scheletri di sassi e di detriti.
Un governo pavido emanò leggi per la distribuzione delle terre pubbliche: un quarto a testa, vale a dire sessanta ettari, e il diritto all’assegnazione aveva bisogno di prove e controprove, ma vi erano dei modi per aggirare quelle difficoltà e legalmente per giunta. E molti ne approfittarono. Una delle maggiori famiglie latifondistiche della California si prese le tenute più ricche mediante un raggiro. Per legge, un uomo si poteva prendere tutta la zona paludosa, o la terra ricoperta d’acqua che voleva. Il fondatore di questa immensa tenuta montò una chiatta su quattro ruote e spinse i suoi cavalli per alcune migliaia di ettari di terra dal fondo migliore, e poi riferì d’aver esplorato tutte quelle terre in barca, il che era vero e confermò il suo diritto a quelle terre. Steinbeck non fece mai il nome di quella famiglia perché i suoi discendenti vivono ancora e se lo ricordano.
Troppo tardi gli americani si accorsero che il continente non si estendeva all’infinito; c’erano limiti alle infamie a cui potevano assoggettarlo.
Dopo aver massacrato le balene, spazzato via le lontre marine e la maggior parte dei castori, i cacciatori di mestiere si dedicarono agli uccelli, anitre e quaglie furono decimate e il colombo viaggiatore eliminato. Le sardelle della costa del Pacifico erano un tempo la materia prima per una grande industria durevole. Lo scrittore ricorda di aver visto, da giovane, il fucile di un cacciatore di mestiere, uno schioppo con triplice mirino affrancato ad un telaio e carico fino alla bocca di chiodi a mitraglia; puntato contro un lago e tirato il grilletto con una funicella, quello schioppo massacrava ogni creatura vivente che si trovasse su quel lago.
Le grandi foreste di abeti rossi delle montagne dell’Ovest attrassero presto l’attenzione dell’uomo e si scoprì che avevano un grande valore commerciale. I taglialegna attraversarono le grandi boscaglie come una diga, abbattendo le cime di quegli alberi, alcuni dei quali avevano oltre due millenni, senza lasciare un solo germoglio, una sola pianticella, un solo seme su quelle alture denudate.
Fin dai primordi, gli americani rimasero colpiti ed ammirati dagli aspetti fantastici della natura, come il Grand Canyon, lo Yosemite e lo Yellowstone Park. Gli indiani li avevano riveriti come luoghi sacri, visitati dagli dei. Le fonti di energia scoperte in questi ultimi tempi spargono l’inquinamento nel territorio americano, così che fiumi e corsi d’acqua stanno divenendo tossici e privi di vita. Gli uccelli muoiono per mancanza di cibo; sopra le città incombe una nuvola mortale che brucia i polmoni e arrossa gli occhi. Quasi ogni giorno aumenta l’incubo del danno fra gli americani. Non si accontentano più di distruggere il loro caro paese, sono lenti ad imparare.
Ma l’America è un popolo esuberante, incauto e distruttore, come bambini in azione. Creano strumenti forti e potenti e poi li devono usare per dimostrare che esistono.
Sotto la pressione della guerra, sono alla fine riusciti a creare la bomba atomica e per ragioni che parvero giustificabili in quel periodo la gettarono su due città giapponesi, ed allora finalmente furono colti dallo sgomento.

Tratto da : “L’America degli americani” di John Steinbeck
http://rsicontinuitaideale.blogspot.it/2013/08/di-ercolina-milanesi-i-miei-studi_29.html



venerdì 23 agosto 2013

Quanti sanno che...


Ecco alcuni esempi di quello che si evita di insegnare.
• Quanti sanno che Giorgio Almirante, ’il fucilatore’. ex Capo di Gabinetto del ministro Mezzasoma nella R.S.I., nel periodo 1944-1945 nascose la famiglia dell’ingegner Emanuele Levi (famiglia che poi lo salvò durante le ’radiose giornate”.
• Quanti sanno che il fascistissimo Roberto Farinacci nascose nella sua tipografia due ebrei: Emanuele Tornagli e la signora Iole Foà.
• Quanti sanno che tra le file delle Forze Armate della RSI c’erano tanti ebrei?
• Quanti sanno dei diversi tentativi per eliminare la bande di torturatori.
E che Pietro Koch, uno dei peggiori protetti di Kappler, fu arrestato e
imprigionato su ordine di Mussolini nel 1944.
• Quanti conoscono Palatucci? Questore di Fiume durante la Repubblica Sociale Italiana, già nel 1939 aveva tolto dalle mani della Gestapo 800 ebrei fuggiti dalla Germania, sistemandoli ad Abbazia. Altri ne mandò a Campagna, in provincia di Salerno, dove si trovava un suo zio Vescovo. Nel 1944 riuscì a salvarne un altro migliaio, imbarcandoli per Bari e facendo sparire dagli archivi ogni documentazione. Alla fine fu arrestato dai tedeschi e mandato a morire a Dachau.
• Quanti conoscono Perlasca? Giorgio Perlasca agì a Budapest, fingendosi ambasciatore spagnolo, firmando lasciapassare e salvacondotti e salvando così 5 mila ebrei ungheresi.
• Quanti conoscono Guelfo Zamboni? Console a Salonicco, zona occupata dai tedeschi, dovette limitarsi a salvare ebrei italiani e quelli greci che a vario titolo potevano rivendicare il diritto di essere considerati italiani.
• Quanti conoscono Giuseppe Castruccio? Successore di Zamboni malgrado che il rabbino capo Zvi Hirsh Kiretz avesse consegnato ai tedeschi gli elenchi di tutti gli ebrei che vivevano nella città, continuò
l’opera iniziata dal predecessore.
E vi siete mai chiesti perché gli ebrei fuggitivi venivano in Italia? Perché non raggiungevano la Francia, o la Gran Bretagna o gli Stati Uniti?

- Quanti sanno che...
Perché erano paesi che non accettavano ebrei, anche se in pericolo mortale.
Roosevelt fece intervenire la “U.S. Navy” per impedire con la forza l’approdo sulle coste statunitensi di un piroscafo carico di ebrei fuggiti da Amburgo;
gli inglesi in Palestina fucilavano e impiccavano gli ebrei. A Salina,
nel Mar Nero, era salito a bordo di un piroscafo carico di fuggiaschi, il console britannico ad informare che il suo governo li considerava immigrati illegali: se si fossero avvicinati alle Coste della Palestina sarebbero stati silurati.
In Francia, nel settembre 1940, nel solo Dipartimento della Senna, la
Suretè consegnò ai tedeschi lo schedario di 150 mila ebrei, a cui fecero seguito la cattura e le deportazioni. Sempre in Francia 4.500 gendarmi furono sguinzagliati alla caccia dell’ebreo.
Nel 1979 in occasione della presentazione del film: “Olocausto“, la televisione francese “Antenne 2“, riunì un gruppo di scampati dai “Campi di sterminio“. Fra loro c’era Simone Veil che, qualora non fosse un caso di omonimia, dovrebbe essere l’ex Presidentessa del Parlamento europeo. Le domande dell’intervistatore vertevano sul tema: ’è vero che in Francia nella zona di occupazione italiana non ci fu alcuna persecuzione? E’ vero che sulla Costa Azzurra i carabinieri italiani impedirono ai poliziotti francesi l’arresto degli ebrei?’
La risposta fu unanime: ’sì, è proprio così’, rispose per tutti la signora Veil.

giovedì 22 agosto 2013

STORIE DI ORDINARIA FOLLIA PARTIGIANA


Sorpresi nel sonno, avvelenati, torturati ed infine tagliati a pezzi. Fu questo il tragico destino di ben dodici giovani Carabinieri, catturati dai partigiani alle Cave dei Predil, nell’alto Friuli.
I Carabinieri costituivano un presidio a difesa della centrale idroelettrica di Bretto. Il 23 Marzo 1945 i partigiani presero in ostaggio il Vicebrigadiere Dino PERPIGNANO, comandate dei presidio che stava rientrando negli alloggiamenti, sotto la minaccia delle armi, lo costrinsero a pronunciare la parola d’ordine e, con facilita’, una volta entrati nel presidio, catturarono tutti i Carabinieri, gia in parte addormentati.
Dopo il saccheggio, i dodici militari furono deportati nella Valle Bausizza e rinchiusi in un fienile dove fu loro servito un pasto nel quale era stata inglobata soda caustica esale nero. Affamati, inconsciamente mangiarono quanto gli era stato servito, ma, dopo poco, le urla e le implorazioni furono raccapriccianti e tremende. Erano stati avvelenati e la loro agonia si protrasse fra atroci dolori per ore ed ore.
Stremati e consumati dalla febbre, Pasquale RUGGIERO, Domenico DEL VECCHIO, Lino BERTOGLI, Antonio FERRO, Adelmino ZILIO, Fernando FERRETTI, Ridolfo CALZI, Pietro TOGNAZZO, Michele CASTELLANO, Primo AMENICI, Attilio FRANZON, quasi tutti ventenni (e mai impiegati in altri servizi tranne quello a guardia della centrale, cui erano stati sempre preposti), furono costretti a marciare fra inesorabili ed inenarrabili sofferenze ed insopportabili sacrifici fino a Malga Bala ove li attendeva una fine orribile.
Il Vicebrigadiere PERPIGNANO fu preso e spogliato; gli venne conficcato un legno ad uncino nel nervo posteriore dei calcagno ed issato a testa in giu’, legato ad una trave; poi furono incaprettati. A quel punto, i macellai partigiani, cominciarono a colpire tutti con i picconi: a qualcuno vennero asportati i genitali e conficcati in bocca, a qualche altro fu aperto a picconate il cuore o frantumati gli occhi. All’AMICI venne conficcata nel cuore la fotografia dei suoi cinque figli mentre il PERPIGNANO veniva finito a pedate in faccia ed in testa. La “mattanza” terminava con i corpi dei malcapitati legati col fai di ferro e trascinati, a mo’ di bestie, sotto un grosso masso.
Ora le misere spoglie di questi Carabinieri Martiri/Eroi riposano, dimenticati dagli uomini, dalla storia e dalle Istituzioni, in una torre medievale di Tarvisio le cui chiavi sono pietosamente conservate da alcune suore di un vicino convento.
Si scopri’ in seguito, che l’eccidio fu consumato dalle bande partigiane filo-slave a Malga Bala, sulle montagne del Friuli.

mercoledì 21 agosto 2013

Delitto Matteotti. Parla il figlio: “Dietro la morte di mio padre c’era il Re” – FU UNO SPORCO AFFARE DI PETROLIO


“L’assassinio di Giacomo Matteotti non fu un delitto politico, ma affaristico. Mussolini non aveva alcun interesse a farlo uccidere” dice il figlio del deputato socialista. “Sotto c’era uno scandalo di petrolio e la longa manus della corona. La verità verrà presto a galla”.
Intervista di MARCELLO STAGLIENO- da Storia Verità

Ciò che sembra più degno d’attenzione del libro di memorie di Matteo Matteotti (Quei vent’anni. Dal fascismo all’Italia che cambia, edito da Rusconi) è l’ultimo capitolo. Capitolo che, sulla base di nuovi elementi (ricollegabili a cose che vennero scritte nel 1924 e in anni successivi), sembra aprire inquietanti interrogativi sull’assassinio di Giacomo Matteotti. Questi: Vittorio Emanuele III ebbe una parte decisiva nel delitto? Il Re era implicato in quello “scandalo dei petroli” (l’affare Sinclair) di cui parlò e straparlò la stampa del tempo e, scoperto da Matteotti, manovrò per assassinarlo?
In proposito, l’ultimo capitolo del libro è reticente: si limita a collegare (sempre naturalmente sul piano dell’ipotesi) l’uccisione di Giacomo Matteotti allo scandalo Sinclair. Invito Matteo Matteotti ad essere più esplicito.
“Procediamo con ordine. Un pomeriggio del marzo 1978, m’incontro qui in Roma”, dice Matteo Matteotti, “con un anziano mutilato di guerra venuto apposta da Firenze, Antonio Piron. Da lui ricevo un documento, trovato in aperta campagna a Reggello presso Firenze, dentro un tubo di stufa. Si tratta del testo autografo (i periti l’hanno definito assolutamente autentico e come tale l’ho riprodotto nell’appendice del libro su carta intestata “Camera dei deputati” e a firma Giacomo Matteotti) d’un articolo comparso – anonimo – sulla rivista “Echi e Commenti” del 5 giugno 1924, ma in edicola due giorni dopo. L’articolo contiene riferimenti, brevissimi, a due scandali: bische e petroli”.
D. Parliamo dei petroli?
R. Sì, lasciamo stare le bische, il cui decreto regolamentare era stato approvato da poco alla Camera. Il riferimento ai petroli è assai più interessante. Riguarda il regio decreto legge n. 677, in data 4 maggio 1924, nel quale l’articolo primo afferma: “E’ approvata e resa esecutiva la convenzione stipulata nella forma di atto pubblico, numero di repertorio 285, in data 29 aprile 1924, fra il ministero dell’economia nazionale e la Sinclair Exploration Company”. Le firme sono quattro: Vittorio Emanuele, Corbino, De Stefani, Ciano. Ma io ritengo che, da tener d’occhio, sia proprio Vittorio Emanuele…
D. Sia più esplicito.
R. Nel 1924, dopo l’uccisione di mio padre, i giornali – ma non soltanto quelli – parlarono della denuncia che avrebbe dovuto essere portata da Giacomo Matteotti davanti alla Camera, riferendosi in particolare ad un dossier, contenuto nella sua cartella il giorno del rapimento, che riguardava appunto, assieme alle bische, i petroli.
D. Suo padre, aveva realmente con sé quel dossier?
R. Non ne ho le prove materiali. Però uno storico serio come Renzo De Felice afferma che le insistenti voci di un delitto affaristico “non possono essere lasciate cadere a priori” (Mussolini il fascista – La conquista del potere 1921-1925. Einaudi 1966, p. 626 n.d.a.). Ed esistono due documenti, sempre citati da De Felice: 1) un rapporto “riservatissimo” di polizia per De Bono, nel quale si afferma che Turati sarebbe stato in possesso di copia dei documenti sulla Sinclair che aveva mio padre e dove si precisa che Filippo Filippelli del Corriere Italiano aveva contribuito all’uccisione per rendere un servizio all’onorevole Aldo Finzi e al fascismo; 2) un rapporto dell’ambasciata tedesca a Roma inviato a Berlino (10 settembre 1924) che parla di quei tali documenti pervenuti nelle mani di mio padre.
D. E dove sarebbero finiti, quei documenti?
R. Forse nelle mani del Re. In appendice al mio libro intendevo aggiungere a puro titolo d’ipotesi come del resto faccio ora parlandone, tre articoli. Ma l’editore mi sconsigliò. Il primo era stato pubblicato su Stampa Sera il 2 gennaio 1978. Era a firma di Giancarlo Fusco, una cara persona purtroppo scomparsa che aveva fama di spararle grosse. Però nessuno s’è mai sognato di smentire le affermazioni gravissime di quel suo articolo. In sintesi, eccole: nell’autunno del 1942, Aimone di Savoia duca d’Aosta, scriveva Fusco, raccontò a un gruppo di ufficiali che nel 1924 Matteotti si recò in Inghilterra dove fu ricevuto, come massone d’alto grado, dalla loggia The Unicorn and the Lion. E venne casualmente a sapere che in un certo ufficio della Sinclair, ditta americana associata all’Anglo Persian Oil, la futura BP, esistevano due scritture private. Dalla prima risultava che Vittorio Emanuele III, dal 1921, era entrato nel register degli azionisti senza sborsare nemmeno una lira; dalla seconda risultava l’impegno del Re a mantenere il più possibile ignorati (coverei) i giacimenti nel Fezzan tripolino e in altre zone del retroterra libico.
D. E il secondo e il terzo articolo?
R. Al tempo Ancora riguardo al primo (per restare sul piano di quest’avventurosa ipotesi, un po’ piduista avanti-lettera), esso potrebbe spiegare anche come sia “passato” così rapidamente quel decreto-legge, citato da me poco fa, sullo sfruttamento da parte della Sinclair del petrolio reperibile nel sottosuolo italiano, in Emilia e in Sicilia. Un decreto-legge che non diventò mai esecutivo: una commissione, appositamente per valutare quell’accordo Italia-Sinclair, il 3 dicembre 1924, lo bocciò. Ma torniamo al giugno 1924.
D. Parliamo di Vittorio Emanuele III?
R. Sempre sul piano dell’ipotesi. Ai primi di giugno a De Bono si sarebbe presentato un informatore, un certo Thirshwalder, con una notizia preziosa: Matteotti aveva un dossier non solo sui brogli elettorali fascisti nel ’24, ma anche sulle collusioni tra il re e la Sinclair. De Bono (forse saltando Finzi, sottosegretario agli interni) interpellò il fido Filippelli che a sua volta chiese ad Amerigo Dumini di organizzare la “spedizione” contro Matteotti. Mussolini ne venne al corrente solo due giorni dopo anche se all’indomani del discorso dello stesso Matteotti aveva esclamato: “Che cosa fa la Ceka, che cosa fa Domuni!…”e Dumini agì, probabilmente ignorando chi davvero lo muoveva.
D. Benito Mussolini non aveva alcun interesse a fare uccidere suo padre…
R. Mussolini voleva – fin dal 1922, subito dopo la marcia su Roma – riavvicinarsi ai socialisti. Il 7 giugno 1924, quando già il delitto era in piena fase di progettazione, pronunciò un discorso che era un appello alla collaborazione rivolto proprio ai socialisti. Per questo l’attacco fattogli da mio padre pochi giorni prima fece infuriare il duce: è un fatto innegabile. Ma è altrettanto vero che quel 7 giugno Mussolini pensava – nonostante mio padre – di poter avere i socialriformisti, D’Aragona e forse Turati, al governo. Ci sono in proposito due testimonianze: quella di Giunta e quella di Carlo Silvestri. Anzi a quest’ultimo, come risultava da una sua deposizione al processo Matteotti rifatto nel 1947, fu proprio Mussolini in persona a dichiararlo, aggiungendo che Matteotti era stato vittima di loschi interessi. No, il duce non aveva alcun interesse a farlo uccidere: si sarebbe alienato per sempre la possibilità di un’alleanza con i suoi vecchi compagni., che non finì mai di rimpiangere…Del resto, per citare De Felice, possiamo leggere nel suo saggio che “l’azione contro Matteotti non fu realizzata a caldo, come, per esempio, era stata quella contro Misuri. Tutti gli elementi emersi in occasione dei tre procedimenti connessi al delitto (…) provano che la preparazione del delitto cominciò il 31 maggio, all’indomani del discorso di Matteotti alla Camera. E’ possibile”, si chiede De Felice, “pensare che, se anche Mussolini avesse impartito l’ordine, in undici giorni la collera non gli sarebbe sbollita e non si sarebbe reso conto di un simile atto?”. Lo stesso Pietro Nenni, nel 1929, affermò che quello era stato un delitto affaristico. Mio padre, aggiungo io, venne assassinato in modo precipitoso…
D. E cioè?
R. Dumini e gli altri della Ceka fascista non avevano con sé neppure una pala; erano su un’auto del Corriere taliano di Filippo Filippelli, che era l’uomo di Aldo Finzi. Ma anche a non voler sospettare di Finzi, sono indubbi i legami di Filippelli con De Bono…L’azione, comunque, fu precipitosa. La tesi del delitto preterintenzionale non mi convince: ad assassinare mio padre fu, con una lima, Amleto Poveruomo. Con la certezza di farla franca: all’auto la polizia risalì solo per caso. Il delitto comunque fu compiuto subito dopo la pubblicazione di quel tale articolo di Giacomo Matteotti su Echi e Commenti.
D. Con quali obiettivi?
R. Continuando nella nostra ipotesi, gli uomini della Ceka erano convinti d’agire in nome di Mussolini; in realtà allontanavano la possibilità d’un governo con i socialisti, possibilità che doveva spaventare molto la corona e la borghesia industriale italiana; dall’altra parte davano soddisfazione al fascismo più intransigente, quello farinacciano; e, infine, sottraendo quei tali documenti – supposto che esistessero, ed io ci credo – salvavano (ma senza saperlo: l’unico al corrente era De Bono) la corona dalla faccenda Sinclair. E’ quanto si legge anche in un articolo pubblicato dall’Avanti! Nel gennaio 1978, pochi giorni dopo quello di Fusco. Anche esso avrebbe dovuto trovare spazio nell’Appendice, assieme ad una lunga lettera di Giorgio Spini (riprodotta a pag. 58n.d.r.), indirizzata alla Stampa nel 1978. Questa lettera spiega che genere di farabutto fosse Sinclair. Ma chi voglia maggiori dettagli sulla vicenda, anzi su quello sporco affare in cui erano coinvolti ministri come Mario Corbino e De Stefani, assieme all’onorevole Jung, all’ambasciatore Castani e a moltri altri, legga con attenzione il capitolo che alla Sinclair e al delitto Matteotti ha dedicato Matteo Pizzigallo nell’eccellente saggio pubblicato nel 1981 da Giuffrè col titolo Alle origini della politica petrolifera italiana 1920-1925. Per parte mia, sono convinto che altri importanti documenti, ad avvalorare l’ipotesi del delitto affaristico con la longa manus della corona, verranno presto alla luce
Il re, una compagnia petrolifera e i giacimenti in Libia
QUEL PATTO SEGRETO CON SINCLAIR
Per chiarire meglio alcuni retroscena del delitto Matteotti, legati alla cosiddetta “pista del petrolio”, pubblichiamo il testo integrale di una lettera che lo storicoGiorgio Spini inviò nel 1978 a “La Stampa” di Torino, in risposta ad un articolo di Giancarlo Fusco sul “caso” Matteotti. La lettera non venne mai pubblicata dal quotidiano torinese.
Sulla Stampa dello scorso 2 gennaio (1978, n.d.r.) Giancarlo Fusco ha rivelato le confidenze intorno al delitto Matteotti fatte da Aimone di Savoia ad un gruppo di suoi ufficiali nell’autunno del 1942. Secondo queste confidenze, Matteotti era entrato in possesso di documenti i quali provavano che Vittorio Emanuele III aveva fatto un losco patto con una compagnia petrolifera straniera: “La potentissima Sinclair Oil, affiliata alla Anglo Persian Oil, la futura British Petroleum”. La Sinclair aveva fatto entrare il re tra i suoi azionisti gratuitamente: in cambio il sovrano si era impegnato ad esercitare la propria autorità per impedire che venissero sfruttati i giacimenti petroliferi in Libia.
Dopo il discorso di Matteotti alla Camera del 30 maggio 1924, in cui il deputato socialista aveva denunciato i crimini commessi dai fascisti durante le elezioni di quell’anno, Mussolini aveva ordinato alla banda Dumini di aggredirlo: però avrebbe dovuto trattarsi di una delle solite manganellature soltanto. Invece, giusto allora, Emilio De Bono venne a sapere, in qualità di capo della polizia, che Matteotti era in possesso di questi documenti compromettenti per il re e che li portava sempre con sé in una borsa. De Bono volò da Vittorio Emanuele III a raccontargli la cosa e i due si accordarono sulla necessità di sopprimere addirittura Matteotti, anziché bastonarlo soltanto, e di asportare dalla sua borsa i famigerati documenti. L’8 giugno 1924 De Bono convinse Dumini ad eseguire tutto ciò, mediante una somma di denaro, e due giorni dopo Matteotti fu rapito ed assassinato. Né si sentì più parlare dei documenti riguardanti il patto fra il re e la Sinclair.
Giancarlo Fusco conclude il suo articolo dicendo di non sapere fino a che punto questo racconto del Duca di Aosta possa essere un’alternativa attendibile alla versione “storica” dei fatti. Neppure io lo so: e non pretendo di aggiungere altre rivelazioni a quella di Fusco. Ma posso almeno indicare chi era il petroliere Sinclair perché lo sa chiunque abbia letto un manuale di storia americana. Era uno dei protagonisti del leggendario affare del Tea Pot Dome, cioè uno dei più clamorosi scandali dell’America del primo novecento.
Nel 1921, il segretario agli Interni dell’amministrazione repubblicana Harding, Albert G. Fall, concesse con procedura del tutto irregolare alla Mammoth Oil Co., di cui era presidente H. F. Sinclair e ad altre compagnie, lo sfruttamento di alcuni giacimenti petroliferi, tra cui uno nel Wyoming chiamato Tea Pot Dome, che invece avrebbero dovuto restare a disposizione della marina americana per eventuali esigenze belliche. La cosa si riseppe e venne usata dai democratici per montare una clamorosa campagna contro l’amministrazione Herding. Fall fu processato sotto l’accusa di essersi fatto corrompere e finì in galera. Altre complicate vertenze giudiziarie seguirono, fra cui un processo per corruzione nel 1928 contro Sinclair, da cui il petroliere uscì assolto benché la stampa sostenesse a gran voce la sua colpevolezza.
L’affare Sinclair ed i suoi strascichi giudiziari si chiusero infine nel 1932, ma restano ancora oggi proverbiali in America come esempio di losca connessione tra affaristi e politicanti. Dunque, laddove Aimone di Savoia parlava della Sinclair come di una compagnia inglese connessa con l’Anglo Persian Oil, si trattava in realtà di un magnate americano del petrolio già avvezzo a combinarne delle belle con personaggi politicamente altolocati.
Forse è inesatto altresì che si trattasse di impedire lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi in Libia. Come vedremo fra un momento, H. F. Sinclair voleva ottenere l’esclusiva per la ricerca del petrolio sul territorio stesso dell’Italia a favore della Standard Oil. Fusco ne è stato il primo – per quanto almeno ne so – a fare il nome di Vittorio Emanuele III in connessione con quello di Sinclair. Ma già al tempo dell’affare Matteotti qualcosa trapelò di questo intrigo, sia pure senza che si parlasse mai di sua maestà il re.
A quel tempo, infatti, una parte della stampa, cioè quella filofascista, mise in circolazione la voce che Matteotti era stato ucciso non già per colpa di Mussolini, ma per impedirgli di rivelare gli affari sporchi in cui erano coinvolti Finzi, Filippelli e la banda che ruotava intorno al Corriere Italiano. E fra l’altro fu detto che costoro erano stati pagati da H. F. Sinclair per ottenere quella esclusiva alla Standard Oil delle ricerche petrolifere in Italia, cui sopra si è accennato.
Fra gli altri nomi che vennero fatti, v’era quello dell’Onorevole Guido Jung. Jung era stato in America nel 1922, come esperto finanziario dell’ambasciata italiana a Washington: poteva dunque avere conosciuto Sinclair colà. Nel 1924 era stato eletto deputato nel “listone” fascista; e fu poi denunciato durante l’affare Matteotti, come complice dell’intrallazzo Sinclair. Può essere interessante ricordare che per l’appunto un periodico filo-fascista di New York, Il Carroccio, diretto dall’italo-americano De Biase, fu particolarmente violento nell’accusare Jung e la Sinclair di essere i veri colpevoli dell’uccisione del leader socialista. Tuttavia Jung superò questo incidente senza danni: tanto è vero che fece poi una bellissima carriera, prima come sperto del governo fascista in varie trattative con banche degli Stati Uniti e poi come ministro delle Finanze.
La stampa antifascista respinse le dicerie sull’affare Sinclair considerandole come un’espediente per deviare l’attenzione dell’opinione pubblica dalle responsabilità di Mussolini e dalla reale natura politica del delitto. Anche gli storici che si sono occupati dell’affare Matteotti sono stati indotti da ciò a trascurare questo episodio.
Solo Giuseppe Rossigni, nel suo libro Il delitto Matteotti tra il Viminale e l’Aventino, ne dice qualcosa. Anche egli, però, come Aimone di Savoia, mostra di non sapere chi fosse con precisione Sinclair. Questo atteggiamento si spiega bene col fatto che nessuno, fino all’articolo di Fusco sulla Stampa, aveva mai subdorato che lo stesso Vittorio Emanuele III potesse avere tenuto il sacco a Sinclair. Ma dopo l’articolo di Fusco, viene da chiedersi se la stampa filo-fascista, tirando fuori il nome di Sinclair, non lo facesse proprio per minacciare il re di vuotare il sacco, qualora sua maestà non avesse sostenuto fino in fondo Mussolini.
Un altro nome che venne fuori in connessione con l’affare Sinclair fu quello di un giornalista avvezzo ad avere mano in ogni specie di pasticci: Filippo Naldi. Oltre ad essere stato il direttore del Resto del Carlino, Naldi era stato uno dei padrini del mussoliniano Popolo d’Italia. Al tempo dell’affare Matteotti stava continuando a fare intrallazzi giornalistici: aveva fondato un giornale – Il Tempo – ed aveva comprato da Filippelli il pacchetto di azioni del Corriere Italiano. Fu detto anche che aveva altresì lavorato per conto di Sinclair onde chiudere la bocca ai giornalisti sull’affare dell’esclusiva delle ricerche petrolifere a favore della Standard Oil. Come si sa fu accusato di avere celato il famoso memoriale Filippelli e fu arrestato per questo. Ma fu presto liberato e sparì dalla circolazione. L’affare Sinclair venne investigato durante l’istruttoria giudiziaria sull’assassinio di Matteotti, ma senza risultati. Il giudice istruttore giunse alla conclusione che la concessione petrolifera era nell’interesse di un gruppo finanziario antagonistico a quello del Corriere Italiano. E tutto cadde nell’oblio.
Vorrei però aggiungere un curioso codicillo a questa storia. Nell’autunno 1943, quando Vittorio Emanuele III scappò a Brindisi insieme con Badoglio, ricomparve al suo fianco Filippo Naldi, in veste di Ninfa Egeria politica. E chi ha voglia di avere ulteriori particolari, può trovarli nel libro del compianto Agostino Degli Espinosa, Il Regno del Sud. Il re e Badoglio erano nei guai perché avevano bisogno di mostrare agli Alleati di avere un qualche supporto politico, laddove i partiti del c.l.n. rifiutavano di avere a che fare con loro. Avevano inoltre bisogno di mettere insieme un governo purchessia, avendo lasciato a Roma i loro ministri al momento della fuga. Naldi li cavò da queste difficoltà, mettendo insieme un finto partito, formato di avanzi del vecchio trasformismo meridionale, sotto il nome di Partito Democratico Liberale, ed aiutandoli a formare su tale base un ministero.
Questo ministero “liberal-democratico” era composto di personaggi talmente oscuri che non si osò dare loro il titolo di ministri; e quindi ebbero solo quello di sotto-segretari. Ma uno almeno di loro aveva un nome ben noto: Guido Jung. In quanto ebreo era stato cacciato dal governo nel 1938 e quindi poté tornare a galla nella seducente veste di vittima del fascismo.
Non so se Naldi e Jung abbiano avuto altri rapporti con petrolieri dopo l’affare Matteotti. Ignoro altresì in che modo essi abbiano potuto ricomparire a fianco di Vittorio Emanuele III dopo l’8 settembre. So però che a quel tempo, nell’Italia meridionale, non si muoveva una foglia senza il permesso degli alleati. Non mi meraviglierei se in qualche archivio britannico od americano esistesse una pratica “top secret” intitolata a loro.
Come Fusco, sono anch’io ben lontano dall’affermare che la vera causa del delitto Matteotti vada cercata in questo pasticcio maleodorante di petrolio. Penso però che si debba riconoscere a Fusco ed alla Stampa il merito di avere ricordato agli storici una pista finora trascurata, sulla quale varrebbe invece la pena di fare qualche altra ricerca.
Giorgio Spini
Il delitto Matteotti e la pista economico-finanziaria
Il caso è ancora aperto
Fino a che punto è credibile la “pista del petrolio” come movente del delitto Matteotti? Lo abbiamo chiesto ad uno storico e a un giornalista, autori di due libri che affrontano questo tema in modo diverso. Uno è Giuseppe Rossigni, autore di Il delitto Matteotti fra il Viminale e l’Aventino (un saggio fondamentale edito nel 1966 da Il Mulino) e l’altro è Franco Scalzo, autore di Matteotti, L’altra verità (editore Savelli). Queste le loro opinioni:
Se da un lato non penso di trarne conclusioni diverse dal passato sulle responsabilità dirette di Mussolini nell’evento del giugno 1924, non ho elementi nuovi per modificare la valutazione che detti del ruolo svolto dall’ambiente affaristico del fascismo.
Il cosiddetto momento affaristico del governo Mussolini, per comune ammissione dei testimoni (alcuni dei quali, quando completai la mia ricerca, erano ancora vivi, ne parlai con Cesarino Rossi), pare debba essere ricondotto all’interno del gruppo Finzi, interessato alla vicenda petrolifera. Si parlò infatti di una attenzione tutta particolare di Filippelli e di Naldi che di quel gruppo erano l’ala più intraprendente. In una nota della direzione generale della PS, del 14 giugno, si leggono una serie di informazioni tratte da un colloquio con un non meglio precisata “personalità liberale”. Di sicuro si può dire che Naldi organizzò il silenzio giornalistico sull’affare Sinclair che, invece, fu approfondito nei suoi possibili risvolti giudiziari durante il processo di Chieti.
Matteo Matteotti cita (facendo riferimento allo storico De Felice) un primo documento “riservatissimo” diretto a De Bono senza data: tale documento, che anch’io avevo citato nel mio volume, porta la data del 14 giugno e se ne ricava una sola notizia: che Turati fosse la persona in grado di possedere una parte della documentazione, di cui disponeva Matteotti in merito alla Sinclair. Gli studiosi sono informati del viaggio a Londra di Matteotti: invece, non ho mai saputo alcunché della scrittura privata che consentirebbe di liberare Vittorio Emanuele III, socio della Anglo-Persian-Oil e quindi interessato alla scomparsa di certi documenti. Questa responsabilità diretta del re potrà consolidarsi solo se una ricognizione negli archivi inglesi darà dei frutti, che al presente non sono in grado di prevedere: bisognerebbe bene capire perché la Sinclair aveva difficoltà ad agire sul mercato italiano, questa Sinclair che, in fondo, era “una staffetta indipendente” nella lotta tra le compagnie petrolifere.
Le indicazioni di Giancarlo Fusco, le lettere di Giorgio Spini ed il saggio di Pizzigallo sulla politica petrolifera tendono ad approfondire questa controversa interpretazione, ma non ci forniscono una risposta definitiva. Per cui resta ancora in piedi l’interpretazione storiografica corrente che, per ragioni diverse, i fascisti e gli antifascisti ortodossi accreditano: il movente politico e null’altro.
Giuseppe Rossigni
Intrigo internazionale
Un’altra tesi che va contro la storiografia ufficiale
D. Nel suo libro Matteotti, l’altra verità lei sostiene una tesi totalmente opposta a quella della storiografia ufficiale. Qual è, in sostanza, questa diversa verità?
R. Lo svolgimento della vicenda passa attraverso due nodi fondamentali. L’origine del delitto (più affaristica che politica) ed i mandanti della Ceka che con la soppressione di Matteotti si prefiggono un duplice obiettivo:eliminare un testimone scomodo e costringere Mussolini a gettare la spugna. L’operazione riesce solo a metà, come tutti sanno.
D. Com’è arrivato a questa conclusione clamorosa?Come ha impostato la sua tesi?
R. Semplicemente, servendomi delle tessere di cui sono entrato in possesso nel corso della mia ricerca e poi sistemandole secondo un ordine che non fosse condizionato e dominato da posizioni preconcette. Alla base di questo complesso gioco ad incastro ci sono stati, comunque, due interrogativi. Primo: che interesse poteva avere Mussolini a macchiare la propria reputazione con un delitto infame dopo appena due mesi dall’apoteosi elettorale del Pnf? Secondo: perché proprio Matteotti, quando tutti i partiti dell’opposizione avevano manifestato il sospetto che il successo dei fascisti fosse dipeso, almeno in parte, da brogli e dalla violenza squadristica? Una volta preso atto della legittimità di tali domande, la distanza dalle risposte si accorcia sensibilmente, e la si può riempire soltanto ricorrendo a materiale di prima mano. Immune cioè sia dalla propaganda che dalle distorsioni ideologiche. Ma in questo spazio si è, appunto, inserita la lunga sequenza di documenti che provano diverse cose: che Matteotti fu ucciso per impedire che facesse rivelazioni. Rivelazioni sul coinvolgimento di alcuni ambienti (legati alla Banca Commerciale) in certi loschi affari riguardanti i petroli, il gioco d’azzardo ed il traffico d’armi; che gli ispiratori e gli esecutori del delitto erano già da diverso tempo in rotta di collisione coi vertici del Pnf, sebbene si fossero infiltrati nell’entourage di Mussolini; che l’immobilismo statuario dell’Aventino era un atteggiamento indotto dalla paura delle opposizioni di dover rendere conto al Pese degli appoggi forniti, da dietro le quinte, all’ala revisionista del partito fascista, che è poi quella nel cui seno matura la decisione di fare fuori Matteotti; che i processi del ’25 e del ’47 sono stati poco meno o poco più che delle orribili farse…
D. Parrebbe di capire che il delitto Matteotti non era compiuto da, ma contro Mussolini…
R. Proprio così. Mussolini si assume, per intero, la responsabilità del crimine perché, altrimenti, sarebbe costretto a denunciare quella del gotha finanziario che ha foraggiato la marcia su Roma e che dopo avergli dato il potere minaccia di riprenderselo per trasferirlo a gente più maneggevole se lui non si rassegna a fungere da parafulmine e da capro espiatorio. E’ una partita difficile, giocare sul filo del bluff, che finisce in pareggio. Mussolini resta al suo posto, ma deve rinunciare al progetto di disfarsi di certe regole, di certi condizionamenti. Li subisce fino a Salò dove vuota il sacco col giornalista Silvestri, ma è troppo tardi, ormai, per ristabilire la verità. Le forze alle quali avevano fatto capo gli istigatori della Ceka sopravvivono al 25 luglio, come sopravvivranno, più tardi, alla caduta del regime monarchico. Nel ’47, in riferimento al caso Matteotti la situazione non è molto dissimile da quella del ’25, e questo spiega il carattere aleatorio del processo conclusivo di Roma: un atto dovuto, un rito.
D. Che differenza c’è fra la sua tesi e quella avanzata da Matteo Matteotti?
R. Lui esclude che la massoneria abbia avuto un ruolo nel predisporre il piano dell’11 giugno, e non so da che tragga questo convincimento, visto che tutti gli indiziati del delitto (da Naldi a De Bono, a Dumini, a Bazi, a Rossi, a Finzi) erano iscritti, a vario titolo, alla setta. Lui afferma che è il mandante di Mussolini, ed io no. Lui dice che il duce copriva le responsabilità della corona ed io trovo strano che Mussolini a Salò non abbia colto l’opportunità per convogliare in questa direzione almeno una parte delle colpe che si era addossato fino alla giubilazione del luglio ’43. Lui insiste sulla Sinclair (mentre risulta dai documenti della compagnia petrolifera americana con cui avevano brigato i manutengoli della “Commerciale”) che era la Standard Oil, e che tale società era anche fortemente interessata al business delle bische.
D. Perché, secondo lei, per tanto tempo a nessuno o quasi è venuto in mente di indagare più a fondo su questo capitolo di storia?

R. Sono incline a ritenere che una certa classe politica e certi settori della cultura italiana preferiscano soprassedere. La demonizzazione acritica del fascismo ha fatto leva soprattutto sul falso scenario del delitto Matteotti: ora tornare indietro con la moviola, ritrattare, ricredersi costituisce una fatica improba per chi, a mio giudizio, si è immesso, più o meno in buona fede, sulla direttrice sbagliata.

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