Umberto Bianchi
Correva l’anno di grazia 1919, la Grande Guerra era finita da poco lasciando dietro di sé lutti e rovine, non solo esteriori, ma anche, specialmente interiori, nell’animo dei popoli che erano stati travolti dall’onda di quella guerra definita, per l’appunto Grande, perché per la prima volta nella Storia, aveva visto irrompere quella tecnologia, frutto di una spettacolare industrializzazione, sullo scenario di una guerra globale, causando terrificanti devastazioni. Causa scatenante dell’immane conflitto, le tante, troppe, questioni nazionali che la caduta degli Imperi (asburgico, ottomano, germanico e russo), lasciavano ancora irrisolte.
Nel caso in esame, l’Italia (una delle grandi nazioni d’Europa, assieme alla Germania guglielmina, il cui processo di unificazione si era compiuto da poco tempo!) portava avanti tutta una serie di rivendicazioni territoriali che riguardavano, anzitutto, la presenza di popolazioni di lingua italiana presenti in un contesto che andava dal Trentino Alto Adige alla Venezia-Giulia (con Trento e Trieste), sin quasi all’entroterra balcanico, toccando Lubiana ed i territori della Slavonia, passando dalla fascia costiera istriano-dalmata sino all’Albania ed alle isole greche, Dodecanneso incluso, oltre all’esigenza del controllo strategico di alcune zone della Turchia ed al riaggiustamento delle frontiere dei territori coloniali d’Africa, dalla Libia alla Somalia, dall’Eritrea sino alle rivendicazioni sull’Etiopia.
Nel primo caso, però, le rivendicazioni italiane erano frutto della storia di un’antica presenza delle popolazioni latine nel contesto mediterraneo, che trovava nella colonizzazione romana il suo principale antefatto storico e successivamente nella plurisecolare presenza delle repubbliche marinare (Venezia in primis), con un massiccio apporto di popolazione in quei territori, la causa scatenante dell’intera questione.
Nel seguire un quanto mai antico e collaudato copione, le potenze vincitrici del conflitto (Gran Bretagna, Francia, Usa, Italia ed altri ancora) si erano date appuntamento in quel di Parigi per mettere su carta e ratificare quanto promesso in gran segreto ai vari alleati, con gli accordi di Londra del 1915. In quel contesto, però, l’Italia fu trattata come un alleato di serie B. L’americano Wilson, il britannico Lloyd George ed il francese Clemenceau cercarono subito di ridimensionare notevolmente le rivendicazioni italiane, cominciando proprio dalla città di Fiume, incastonata nello stretto istmo tra Istria e Dalmazia, sino ad allora parte del Regno d’Ungheria, ma prevalentemente abitata da italiani e da una minoranza di lingua croata ed ungherese.
Il presidente americano Wilson, in particolare, aveva manifestato tutta la sua ostilità al ritorno della città all’Italia, perché così facendo, a suo dire, si sarebbe violato il diritto all’autodeterminazione delle minoranze slave ed ungheresi lì presenti ma, in verità, si intendeva garantire uno sbocco al mare al neonato Regno di Jugoslavia, (a sua volta frutto di un accordo tra le tre principali potenze vincitrici, tendente a controllare le istanze nazionaliste degli Slavi del Sud, attraverso la creazione di uno stato a capo del quale era stata messa la dinastia serba dei Karageorgevic, sic!).
L’idea di una “Vittoria mutilata” percorse come un fulmine l’intera opinione pubblica italiana. L’atteggiamento imbelle del governo italiano davanti all’arroganza dei francesi e degli anglo americani, contribuì ad esacerbare oltre misura quegli animi già provati da anni di guerra e durissime privazioni economiche. Va detto che, già nell’ottobre1918 a Fiume si era costituito un Consiglio nazionale che propugnava l’annessione all’Italia,[a capo del quale era stato nominato Antonio Grossich. Questo, mentre i rappresentanti italiani a Parigi, Vittorio Emanuele Orlando e Sidney Sonnino, dopo aver abbandonato il tavolo delle trattative in polemica con le altre potenze vincitrici e non avendo ottenuto i risultati sperati vi fecero, poco dopo, sommessamente ritorno.
A rendere più incandescente la situazione, la creazione di una “Legione Fiumana” da parte di Giovanni Horst Venturi e Giovanni Giuriati, in una città sempre più sconvolta dalle manifestazioni nazionaliste della popolazione e dagli incidenti tra i reparti delle potenze vincitrici lì acquartierati, in special modo tra il contingente francese, distintosi tra i più filo-jugoslavi ed i nostrani Granatieri. Fatti questi, che spalancheranno la strada ad una soluzione inaspettata. Difatti, acquartieratisi a Ronchi, sette ufficiali dei Granatieri scriveranno a Gabriele D’Annunzio, chiedendone l’intervento.
D’Annunzio era il Vate, il poeta, massimo portavoce di un decadentismo intriso di niccianesimo adeguato ai parametri dell’estetica nostrana. Folle, spendaccione, esibizionista, volubile anche nelle scelte politiche (eletto deputato, in un impeto di impazienza, non aveva esitato a trasmigare dagli scranni della destra, ritenuti troppo conservatori, a quelli, a suo dire, più vitali della sinistra), non aveva però esitato a buttarsi anima e corpo nel conflitto. Il protagonista della “Beffa di Buccari” e del volo su Vienna, ora stava per immortalarsi con un’impresa veramente degna del suo nome.
Difatti, a seguito della missiva di Ronchi, senza alcuna esitazione D’Annunzio lancia la sua offensiva propagandistica, recandosi a Roma per raccogliere adesioni e consensi alla causa fiumana. Poi il grande salto. L’11 Settembre di quello stesso anno, partito da Ronchi, il Vate si mise alla testa di una eterogenea colonna di volontari, formata da reduci rimasti disoccupati, reparti di Granatieri, unità di bersaglieri (lì mandati a fermare D’Annunzio, ma poi entusiasticamente passati dall’altra parte), gli uomini di Horst Venturi e tanti altri entusiasti volontari.
Quella che, alla storia passò come “La Marcia di Ronchi”, fu in verità un cammino trionfale. Lo stesso Generale Pittaluga messo con le sue truppe, a guardia del confine orientale, accolse con favore il passaggio dei volontari di D’Annunzio. Il 12 Settembre 1919, fu solennemente proclamata l’annessione di Fiume all’Italia assieme alla costituzione, per l’occorrenza, di un “Gabinetto di Comando” a capo del quale il Vate collocò Giovanni Giuriati.
Il giorno seguente, il contingente anglo fancese dopo alcuni scontri con i legionari (con vari morti da una parte e dall’altra), al fine di evitare uno scontro dagli esiti incerti, preferì ritirarsi dalla città. Nel frattempo, l’iniziativa di D’Annunzio continuava a riscuotere sempre più consensi. Questo, nonostante le scomuniche dell’imbelle ed arrendevole governo Nitti che, per questa ragione, decise di nominare Pietro Badoglio (un oscuro personaggio che aveva già dato prova di pericolosa incapacità e conclamata mala fede, durante la prima fase del terribile conflitto appena terminato, sic!) a Commissario straordinario per la Venezia-Giulia. Come primo atto, il Badoglio fece lanciare dei volantini su Fiume, minacciando accuse di diserzione per tutti i legionari.
Visto che l’ultimatum di Badoglio rimase lettera morta, il governo Nitti decise di prendere la città per fame, ponendola sotto assedio, bloccando l’afflusso di viveri e generi di prima necessità. Per tutta risposta, il 22 settembre la Nave della Regia Marina “Cortellazzo” si unì ai legionari, mentre il 25 settembre tre battaglioni di bersaglieri mandati ad assediare della città, disertarono per passare con D’Annunzio.
In preda allo sconforto e con la paura di divenire il capro espiatorio per gli insuccessi della politica estera italiana, Badoglio tentò di rassegnare le dimissioni, che furono però fermamente respinte. Tra una novità e l’altra, la questione fiumana andava pericolosamente montando, finendo con il coinvolgere tutte le componenti della politica nazionale, anche quelle di più recente costituzione, come quella che faceva capo a Benito Mussolini. Questi, pubblicamente accusato da una missiva del Vate, di tenere rispetto all’intera questione un atteggiamento di eccessivo attendismo, (e sotto le spinte della base del movimento fascista), dopo aver organizzato una raccolta di fondi, si recò a Fiume per incontrare D’Annunzio, tentando in qualche modo di mediare tra le esigenze di “realpolitik” connaturate all’ingresso del neonato movimento fascista nel proscenio della politica italiana e le simpatie che andavano montando verso le istanze ribelliste del movimento legionario fiumano.
Ma a Fiume la “realpolitik” sembrava, in quel momento, non esser proprio di casa, anzi. Il 10 Ottobre, una nave carica di armi e munizioni, fu assaltata dagli uomini di D’Annunzio che, per quell’occasione, avevano costituito un battaglione di “Uscocchi”, che intendeva nel nome richiamarsi agli antichi corsari dell’Adriatico. Gli stessi colloqui tra D’Annunzio e Badoglio, caldeggiati da Nitti al fine di arrivare ad una soluzione diplomatica della crisi, portarono ad un nulla di fatto. Il 26 Ottobre le elezioni di Fiume videro la vittoria schiacciante della lista annessionista guidata da Riccardo Gigante, che divenne sindaco della città, con il 77% dei consensi, contro la lista autonomista di Riccardo Zanella.
La stessa visita di D’Annunzio a Zara assieme a Guido Keller, Giovanni Giuriati, Giovanni Host-Venturi e Luigi Rizzo all’ammiraglio Luigi Millo, governatore di quei territori, riveste un significato tutt’altro che occasionale. L’incendio fiumano andava rapidamente estendendosi anche all’intera Dalmazia e cominciava a creare dei seri grattacapi alla diplomazia internazionale, intenta al tentativo di edificare un nuovo equilibrio nell’Europa post bellica.
L’occasione per tentare di porre un freno all’intera vicenda, fu rappresentato dalle elezioni politiche italiane del 16 novembre 1919, che videro la riconferma al governo dell’imbelle Nitti, dal D’Annunzio soprannominato “cagoia”. Il primo atto del neonato governo, fu quello di tentare di sottoporre al Vate un nuovo accordo-compromesso (“modus vivendi”), a seguito del quale il governo italiano si impegnava ad impedire che la città potesse essere annessa allo stato jugoslavo e ad ottenere per essa lo status di ‘città libera‘.
Il rifiuto di D’Annunzio non si fece attendere ma, contrariamente alle aspettative, con un inaspettato colpo di mano, il 15 Dicembre, il Consiglio nazionale della città di Fiume approvò le proposte del governo italiano, sollevando le proteste di gran parte della popolazione e dei legionari. Per il18 Dicembre, fu indetto dal Vate un plebiscito, immediatamente annullato da questi a causa delle numerose e manifeste irregolarità, che ne stavano vistosamente adulterando il risultato, orientandolo verso il “sì” all’accordo. Le sdegnate dimissioni di Giovanni Giuriati da capo di Gabinetto, imprimono all’intera vicenda fiumana, un’improvvisa accelerazione nella direzione di una soluzione rivoluzionaria, che trovò il proprio coronamento nella successiva nomina nel Gennaio del 1920, a capo di gabinetto, del sindacalista rivoluzionario ed interventista Alceste De Ambris.
A Roma tale gesto è visto con timore dal governo liberale e dalle forze “moderate”, da esso rappresentate. L’abbandono della città da parte di alcuni ufficiali dei carabinieri e delle forze armate più legati alla monarchia e lo sciopero generale del 22 Aprile proclamato dagli autonomisti e dai socialisti, legati a doppio filo agli interessi delle potenze occupanti, non fermarono il nuovo corso fiumano, anzi.
Con la proclamazione della Reggenza del Carnaro, il 12 Agosto 1920 e con l’ingresso al governo di personalità come Giovanni Horst-Venturi, Maffeo Pantaleoni e Icilio Bacci, si arriva ad un punto di non ritorno. La proclamazione della Reggenza del Carnaro, lungi dall’essere frutto di una casualità o dell’estemporanea uscita di alcuni “estremisti”, rappresenta il coronamento finale di tutta una serie di istanze eterodosse rappresentate dal sindacalismo rivoluzionario e da un certo nazionalismo, che la “Marcia di Ronchi” intese rappresentare sin dall’inizio.
La successiva promulgazione dell’avanzatissima Carta del Carnaro, in data 8 Settembre, rappresenta la concreta espressione di quelle istanze. Ben al di là della semplice rivendicazione territoriale, Fiume finisce per l’assumere la valenza di laboratorio per un esperimento rivoluzionario che avrebbe dovuto successivamente essere esportato in tutta Italia e, (perché no?), nell’Occidente intero. Un laboratorio che vede la partecipazione di numerosi intellettuali “creativi” che, inizialmente su posizioni bolsceviche e libertarie, passeranno poi al Fascismo, come nel caso di Mario Carli, fondatore della “Testa di Ferro”, inizialmente tra i fondatori degli “Arditi del Popolo”, firmatario del manifesto futurista, poi passato al PNF, quale fascista “di sinistra”, o il caso del libertario Guido Keller e la sua associazione Yoga, anch’egli in seguito aderente al Fascismo, solo per citarne alcuni.
Allo stesso modo, personalità come Alceste De Ambris, inizialmente su posizioni di acceso nazionalismo interventista, passeranno in seguito alle fila dell’antifascismo. Interessante, tra l’altro, il riconoscimento della neonata Unione Sovietica, verso la quale l’opinione pubblica di allora nutriva un sentimento ambivalente, diviso, da una parte, tra l’interesse per “il nuovo”, e dall’altra dalla paura dei “sovversivi”. In anni successivi, lo stato sovietico verrà fatto oggetto del medesimo sentimento di simpatia, anche da parte dei nazional bolscevichi tedeschi come E. Niekisch e Karl Paetel.
La firma del Trattato di Rapallo, tra Italia e Jugoslavia, il 12 Novembre 1920, sancirà, di lì a poco, la fine dell’esperimento fiumano. Questo trattato, approvato dalla gran parte di quell’opinione pubblica legata ai settori più moderati e caldeggiato sulle pagine de “Il Popolo d’Italia” dallo stesso Mussolini, sarà invece osteggiato sia dalla base dei Fasci di Combattimento, impegnati a soccorrere la popolazione fiumana, gravata dalla penuria di alimenti provocata dal blocco in corso da un anno e più, che da settori della sinistra massimalista ed anarchica.
Il fermo atteggiamento di diniego del Vate e dei suoi uomini, provocherà da parte del nuovo governo di Giovanni Giolitti l’ultimatum e l’attacco di Fiume durante la Vigilia di Natale del 1920, il cosiddetto Natale di Sangue. Il 26 Dicembre il maresciallo Caviglia, darà via alle ostilità con il bombardamento navale della città da parte della Andrea Doria, sino al 27 dicembre. Gli scontri che ne seguiranno, lasceranno sul terreno alcune decine di morti da entrambe le parti. Il 28 dicembre, D’Annunzio accetterà i termini del Trattato di Rapallo, rassegnando contemporaneamente le proprie dimissioni, con una lettera fatta consegnare dal comandante dei legionari Giovanni Host-Venturi e dal sindaco Riccardo Gigante. L’avventura di Fiume si concluderà nel gennaio 1921, con il definitivo abbandono di Fiume da parte dei legionari, mentre il Vate, per ultimo, partirà il 18 gennaio per Venezia.
Il neonato “Stato libero di Fiume”, dopo appena due anni di vita caratterizzati da profonda instabilità, causata dai contrasti tra annessionisti e scissionisti, verrà definitivamente annesso allo stato italiano da Mussolini, nel 1924. Questi, dunque, i fatti.
Al di là dell’arida narrazione di cronaca, dell’esperienza fiumana si può dire che essa rappresentò il momento di massima confluenza e sintesi, di tutte le istanze rivoluzionarie del 19° e dell’inizio del 20° secolo; essa darà anche il “la”, per tutte quelle esperienze del Novecento declinate all’insegna della ribellione e dell’anticonformismo più completi.
Fiume è, al tempo stesso, Nietzsche, Bergson, Dilthey, Stirner, Proudhon, Mazzini, Marx, Sorel, Marinetti e tanti altri. Fiume è Woodstock e tutte le occupazioni non conformi. Fiume è, non solo militari e reduci, ma anche artisti, studenti, avventurieri, anarchici e nazionalisti “doc”, accomunati da un’irrefrenabile voglia di vita e di ribellione. Fiume è, con le rapine dei suoi “Uscocchi”, il primo episodio di autofinanziamento per la lotta armata, praticato nel Novecento. Fiume è amore libero, ballo, teatro sperimentale, lettura poetica, all’insegna di uno stato di perenne e generale mobilitazione che, in D’Annunzio, con i propri continui comizi, vedrà il precursore di quei metodi di comunicazione di massa, in seguito tanto cari ad ambedue i totalitarismi.
Fiume rappresenta, in definitiva, quell’ invalicabile spartiacque tra coloro che rimarranno per sempre prigionieri delle oramai consolidate logiche ideologiche occidentali destra-sinistra, e coloro che, invece, le vorranno superare nel nome di una inesauribile spinta vitale. Fiume è, da una parte, rossi e neri che marciano assieme, attraverso la solidarietà e la condanna congiunta dei Fasci di Combattimento e dell’Ordine Nuovo di Gramsci, al vigliacco cannoneggiamento del Natale di Sangue. Ma è anche, dall’altra, la faziosità buonista ed ipocrita di interi settori dell’opinione pubblica controllati dai centri di potere politico ed economico internazionali, il compiacente attendismo, di cui Mussolini pagherà il fio in quel tragico 23 Luglio del ’43. Fiume è l’errore di D’Annunzio di non accettare l’incontro con Gramsci, che avrebbe potuto portare sia la sinistra massimalista che la destra nazionalista a convergere su posizioni comuni, determinando così la nascita di un più ampio e micidiale fronte di lotta all’invadenza del capitalismo mondiale.
Fiume è, pertanto, il simbolo della grandezza e della tragedia di un Occidente che, quando vuole, sa ribellarsi alle proprie soffocanti, plurisecolari logiche, salvo poi ricadervi. Fiume è il simulacro di tutte le rivoluzioni tradite, partendo dalla Comune di Parigi e dal Risorgimento, ma è anche il segnale di una mai sopita rivolta. E’ l’Urlo del Futuro, perchè ci richiama potentemente ad un’idea di “Altra Modernità” che, anche se soppiantata dalla propria adulterata versione “tecno-economica”, cova tuttora sotto le ceneri e, prima o poi, tornerà a far sentire potentemente la propria voce. Anche se le condizioni storiche sono differenti, quello odierno è un altro “momento di rottura” nella trama della Storia.
La attuale fase di Globalizzazione sta mostrando tutti i propri limiti. Il percorso ideologico nato con certo Illuminismo e poi via via andatosi sviluppando con il Positivismo, il Liberal-Capitalismo, l’Evoluzionismo, il Marxismo e le sue più tarde filiazioni Liberal-Progressiste, sino all’attuale ciclo all’insegna dell’Ultraliberismo, sta ora mostrando tutti i suoi limiti, incapace di dare delle risposte ad un crisi sistemica, oramai senza uscita. Fiume può allora per noi, rappresentare il punto da cui ripartire, per riprendere un percorso all’insegna di un rinnovato senso di volontarismo, di vitalismo, di irrazionalismo, che dovrebbe stare alla base di quell’ inquieto e proficuo ricercare nuovi orizzonti ideologici, verso cui indirizzare un’azione volta ad edificare “ex novo” il presente ed il futuro.
Umberto Bianchi
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