giovedì 1 agosto 2013
1914-2014. La Serbia l’Italia e l’atto eroico di Gavrilo Princip
di: Dragan Mraovic
Uno studente serbo, Gavrilo Princip, non uccise il principe Francesco Ferdinando d’Austria e Ungheria a Sarajevo, il 28 giugno 1914 in un attentato terroristico come lorrebbero oggi strani revisionisti della storia di alcuni stati europei alla viglia del centenario della Prima Gurerra Mondiale. Questi deviazionisti della storia cercano oggi di sostituire i ruoli storici e di presentare come criminali di guerra quelli che sono stati in realtà le vittime degli aggressori. Proprio come acaduto nel 1999, poi, con l’aggressione della NATO contro la Serbia.
Gavrilo uccise nella sua patria, e non a Vienna, e con un atto di lotta per la libertà, l’occupatore delle terre serbe che ra anche un occupatore e un nemico degli italiani di quei tempi.
Vogliono così far dimenticare 7.100 serbi, 3.000 italiani e 180 russi morti nel campo di concentramento austroungarico di Jindřichovice nell’attuale Repubblica Ceca.
Dal 1914 al 1918, durante la Prima Guerra Mondiale, nella zona compresa tra Jindřichovice e la cava di Rotava c’era un campo di prigionieri serbi, italiani e russi i quali furono impiegati negli stabilimenti siderurgici di Rotava, nelle cave di pietra vicine, e nella costruzione dei ponti, delle strade e dello stabilimento chimico di Sokolov. La fame, la stanchezza, le pessime condizioni igieniche e le epidemie causarono diverse vittime, in media quaranta al giorno. I morti furono seppelliti nel cimitero del bosco situato sotto il campo o in fosse comuni. Al termine della guerra, la maggioranza delle ossa fu riesumata e trasferita nel mausoleo fatto costruire dal governo del regno jugoslavo negli spazi dell’ex centrale idraulica, su un’altura nei pressi della città. Il mausoleo è tuttora aperto al pubblico, e conserva i resti di 189 russi e circa 7100 serbi ortodossi. I 3.000 italiani sono stati sepolti accanto ai serbi e ai russi ma in un camposanto cattolico.
I prigionieri non venivano massacrati (questo poi è una tecnica che sarà promossa nella II Guerra Mondiale quale apporto civile alla storia umana) ma morivano perché dovevano lavorare in condizioni di vita e climatiche disastrose per loro. Morivano quaranta persone in media al giorno e una colonna triste partiva ogni giorno alle ore 15 dal campo per portare i morti alle fosse comuni. Non c’erano bare sufficienti e servivano solo per trasportare i morti nelle fosse comuni, poi erano riportate nel campo per accogliere i nuovi morti, spesso quelli che il giorno prima le avevano trasportate in quell’ultima dimora. La vittima più anziana è stata un prete ortodosso serbo di 82 anni e la più piccola un suo pronipote di 8 anni. Soltanto tra i prigionieri serbi c’erano anche i civili oltre ai soldati, mentre le altre nazioni avevano unicamente i soldati presi prigionieri in battaglia.
Dopo la Prima Guerra Mondiale, il presidente della Cecoslovacchia Massaric donò i terreni che oggi occupano i cimiteri e il mausoleo al re del Regno di Jugoslavia Alessandro Kradjordjevic e questi terreni rappresentano un suolo di proprietà della Serbia, diplomaticamente detto la “terra serba”. Dunque, i 3.000 soldati italiani non solo giacciono accanto ai loro fratelli serbi morti insieme nella nobile battaglia contro la belva giallo-nera ma anche nella terra serba come pure gli italiani della divisione Garibaldi della II Guerra Mondiale alleati dei partigiani e rimasti per sempre nel camposanto italiano di Belgrado.
Ora i pronipoti di quelli che hanno istituito Jindřichovice vorrebbero addossare a Gavrilo Princip la morte di 17 milioni di persone e il ferimento di 22 milioni di persone nella Prima Guerra Mondiale.
Tanto per continuare l’opera e squarciare oggi del tutto la Serbia e strappandole il suo cuore: il Kosovo e Metohija.
Noi dobbiamo ricordare queste cose perché non si ripetano mai più. Chi dimentica la storia rischia di inciampare negli stessi errori. Il buon Dio non difende chi non si difende da solo. Dobbiamo ricordare queste cose perché i pregiudizi dell’Europa occidentale nei confronti della Serbia sono stati creati oggi dalla stessa cucina di una volta e dalle menti dei pronipoti di quelli che hanno ridotto la Serbia attuale a 6 milioni di serbi invece di 60 milioni quanti sarebbero oggi se non avessero subito i massacri della popolazione civile dall’Austria-Ungheria, dalla Germania e dalla NATO fatti nel ventesimo secolo dal 1914 al 1918, dal 1941 al 1945 e dal 1999 a tutt’oggi.
L’Italia dovrebbe opporsi alla contraffazione della storia della Prima Guerra Mondiale che si prepara per l’anno prossimo, il centenario di questo disastro umano. Almeno per ricordare quei tre mila italiani che dormono insieme ai serbi a Jindřichovice soltanto perché hanno difeso la propria Patria. Dovrebbero ricordare quanto Gabriele D’Annunzio cantava nella sua “Ode alla nazione serba” pubblicata nel 1915...
Gabriele D’Annunzio e la sua Ode alla Nazione Serba:
I
Qual è questo grido iterato
che lacera il grembo dei monti?
Qual è questo anelito grande
che scrolla le selve selvagge,
affanna la lena dei freddi
fiumi, gonfia l’ansia dei fonti?
O Serbia di Stefano sire,
o regno di Lazaro santo,
cruore dei nove figliuoli
di Giugo, di Mìliza pianto,
lo sai: hanno ricrocifisso
il Cristo dell’imperatore
Dusciano ad ogni albero ignudo
delle tue selve, ad ogni sasso
ignudo dell’alpe tua fosca,
gli han franto i piedi e i ginocchi
a colpi di calcio, trafitto
con la baionetta il costato,
rempiuto non d’acida posca
la sacra bocca ma di bile
rappresa e di sangue accagliato.
II
Il boia d’Asburgo, l’antico
uccisor d’infermi e d’inermi,
il mutilator di fanciulli
e di femmine, l’impudico
vecchiardo cui pascono i vermi
già entro le nari e già cola
dal ciglio e dal mento la marcia
anima in cispa ed in bava,
il traballante fuggiasco
che s’ebbe nel dosso il tuo ferro
a Pròstruga, a Vàlievo, a Guco,
e l’acqua ingozzò della Drina
fangosa cercando il suo guado
e forte spingò nella Sava,
mentre l’ardir dell’aiduco
Vèlico rideva nell’aspro
vento come contro al visire
in Negòtino e le tue squille
squillavano a Cristo e il tuo monte
di Bànovo Berdo tonava
sopra la tua bianca Belgrado.
III
O Serbia, lo squallido boia
per far di vergogna vendetta
e per boccheggiare nel sangue
prima che la lingua s’annodi,
per comunicare nel sangue
prima che la lingua s’annodi,
per anco leccar salso sangue
prima dell’eterno digiuno,
per compiere senza rimorso
la lunga sua vita terrena,
imperator di pie frodi
e re di fedele catena,
con alfine un’ultima stretta
di laccio, con una suprema
strangolazione, al soccorso
chiama i manigoldi bracati
contro te, cinquanta contr’uno
che in gola ti caccino il cappio
corsoio. “O Serbia di Marco,
dove son dunque i tuoi pennati
busdòvani? Non t’ode alcuno?”
IV
Sì, gente di Marco, fa cuore!
Fa cuore di ferro, fa cuore
d’acciaro alla sorte! Spezzata
in due tu sei; sei tagliata
pel mezzo, partita in due tronchi
cruenti, come l’aiduco
Vèlico su la sua torre
percossa. Di lui ti sovviene?
Rotto fu pel mezzo del ventre,
e cadde. Il grande torace
dall’anguinaia diviso
cadde, palpitò nella pozza
fumante. Giacquero le cosce
erculee del cavaliere
a tanaglia; giacquero in terra,
si votarono. E nel fragore
della gorga grido si ruppe:
“Tieni duro!”. Fiele dal fesso
fegato grondò. “Tieni duro,
Serbo!” Dalle viscere calde
tal rugghio scoppiò: “Tieni duro!”.
V
Tal rugghio la Vila raccolse.
Tutte le tue Vile di monte,
tutte le tue Vile di ripa
raccolsero il ferreo comando;
e tu ‘l riudisti pur ieri.
L’ode la terra tegnente:
non verdeggerà per tre anni.
L’ode su la nuvola il cielo:
non stillerà per tre anni
rugiada. Che monta, o guerrieri?
Il capo del Santo di Serbia,
il teschio di Lazaro splende
non nella Sìniza sola
ma in ogni fiumana. Ecco, ringhia
il grande pezzato cavallo
di Marco, e si sveglia l’eroe
squassando i capelli suoi neri.
Re Stefano vien di Prisrenda;
sorge dalla Màriza cupa
Vucàssino; s’alzano a stormo
da Còssovo i nove sparvieri.
VI
E grida la candida Vila
dal crine del Rùdnico monte,
sopra la Iacèniza lene;
grida e chiama in Tòpola Giorgio
che ristà poggiato all’aratro.
“Or dove sei, Pètrovic Giorgio?
Qual fumido vino ti tiene?
Qual t’occupa sogno? Non m’odi?
Dove sei, buio bifolco?
Dove sono i tuoi voivodi?
Dov’è il voivoda Milosio?
Giàcopo e il calogero Luca?
e Zìngiaco? e Chiurchia?
e Milenco
della Morava? A simposio
seggono? Ucciso hanno
il giovenco
e trinciano, e cantano lodi?
Beono alla gloria di Cristo
che li aiuti? beono in giro?
E sul buccellato di farro
scritto è tuttavia: Cristo vince.
Ma non v’è quartiere pei prodi.
VII
Bulica il sangue dei prodi
al cavallo insino alla staffa,
insino alla staffa e allo sprone.
Diguazza il fante nel sangue
insino all’inguine e all’anca;
v’affoga, se v’entra carpone.
Le donne rivoltano i morti
pel bulicame, né sanno
figlio ravvisare o germano.
Son tutti un rossore, una piaga
tutti, come al campo del conte
i maschi di Giugo Bogdano.
Più corpi enfii che scerpate
radiche porta il Danubio
né sa a qual riva deporre;
rigurgita il Vàrdari ai groppi;
la Sava è una vena svenata
che gorgoglia giù per le forre;
è schiuma del Tìmaco a sera
canizie che galla; e la Drina
veloce è un carnaio che corre.
VIII
Su, Giorgio di Pietro, bovaro
di Tòpola, su, guardiano
di porci, riscuotiti e chiama!
Prenditi al tuo fianco i tuoi fidi;
Ianco il savio e Vasso il furente.
Prenditi con teco gli aiduchi
che danzano sopra le vette
degli aceri. Vèlico, or ecco,
all’anguinaia il torace
rappicca come prima era,
e dentrovi il fegato ardente.
Su, su, porcaro di Dio!
Il turbo di Mìsara, or ecco,
pei gioghi della Sumàdia
raggira l’antica vittoria,
sparpaglia la nova semente.
Altre mandrie tu caccerai
dinanzi a te, altri branchi
più irti, altro bestiame
più tetro, altro sagginato
coiame, altra sordida gente.
IX
Sovvienti? Diceano i padri
un tempo, sedendo a convito:
“Ve’ porco di Bulgaro nero
che tutt’oggi dietro ci tenne
pel tozzo e ‘l bicchiere di vino
e per un lacchezzo d’agnello!”.
Non per tozzo il Bulgaro nero
e né per gocciol di vino
e né per minuzzo di carne,
ma per tutto prendere alfine,
per tutto a te prendere alfine,
per tutto a te togliere alfine,
la terra il nome il soffio il bianco
degli occhi lo stampo dell’uomo,
per questo il Bulgaro nero
dietro ti venne, alle spalle
ti dà, alle reni t’agghiada.
Tre n’hai, e col Bulgaro nero:
fanno tre viltà una forza.
Ma guarditi il fegato secco
Dio, o macellatore di porci.
X
Pigliaron Semendria la regia,
pigliarono, ed anche la bianca
città, Belgrado la regia,
in una geenna di fiamme:
dal Lìparo al Vràciaro grande,
fornace fu ogni collina.
Pigliarono Lùciza, ed anche
Sclèvene pigliarono, e l’una
e l’altra colmaron di mosto,
di lúgubre mosto, due tina.
Iplana rempieron di vegli
senz’occhi, di femmine senza
mammelle, di monchi fanciulli
carponi a leccar la farina.
E di Sòpota la meschina
ei fecero lor beccheria
trinciandovi la battezzata
carne (o Battista!), e l’altare
lor tavola fu sanguinente:
strapparono al prete la lingua
con sópravi l’ostia vivente.
XI
Ma ben di Verciòrova scorse
il Rùmio dagli occhi di druda,
dal viso di cera dipinto,
gallare nel freddo Danubio
i Lurchi enfii, rivoltolarsi
a mille pel grigio Danubio
fra Rame Dubràviza i morti,
fra Sip e Tèchia gli uccisi
sotto la montagna di Tèchia
crosciante qual torcia di ragia,
a grappoli i corpi dei Lurchi.
Non Lipa è villata che mangi:
è mucchio che pute. Non colle
che frutti è Trivùnovo: è mucchio
che vèrmina. Vrànovo è mensa
di corbi e Vuiàn d’avvoltoi.
O razza di Cràlievic Marco,
l’usura tu fai con la strage!
Sotto Orsova, dove il mal fiume
s’insacca, ora Bulgari e Lurchi
si giungono, stèrcora e fecce.
XII
Sì, presero i valichi e i passi,
li presero; e noi i nostri guati
tegnamo. Sì, Uzice e Ràlia,
presero, e Strùmiza e Vrània,
e Cràlievo presero, e Lacle,
villate e città, mura e ripe;
ma dove più ossa che selci,
più teschi che ciottoli dove
lasciarono? Presero e Nissa
l’antica, vestita a gramaglia,
oité, santa Serbia, di neri
drappi vestita le case
dolenti ove suda il contagio
e l’odore vieta la porta.
Presero e Scòplia l’antica
(oité, santa Serbia, fa pianto),
la casa che in prima all’Iddio
tuo edificasti con pietre,
e quivi la rocca, la guardia
dell’imperatore Dusciano.
O Serbia, in ginocchio fa pianto.
XIII
Poi rìzzati e balza e riprendi
la chiesa e la rocca, l’altare
e il mastio, l’impero e la sorte.
Il verde Vàrdari tingi
come la Nìssava a Vlasca,
colora il Vàrdari come
lo stagno di Vlàsina fatto
già bulgaro brago di morte.
Ma il Tìmaco, o gente di Giorgio
che scannò il suo padre con sacra
mano perché servo non fosse,
il Tìmaco tingi in eterno,
in eternità dell’infamia,
dalla sorgente alla foce
e insino alla melma profonda,
per le tue donne calcate
dallo stupro contro la sponda,
pei pargoli tuoi palleggiati
e scagliati come da fionda,
per chi teda fu, per chi arso
fu fiaccola furibonda.
XIV
Tronco s’ebbe Lazaro il capo
nel piano di Còssovo, e perso
fu il regno, fu spenta la gloria.
Da Scòplia il Bulgaro nero
al piano di Còssovo sfanga
fiutando l’ontosa vittoria.
Tieni duro, Serbo! Odi il rugghio
di Vèlico che si rappicca
e possa rifà. Tieni duro!
Se pane non hai, odio mangia;
se vino non hai, odio bevi;
se odio sol hai, va sicuro.
Non erbe coglie nel monte
la Vila, non radiche pesta,
per le piaghe a te medicare.
Non a ferita combatti,
a morte sì, per l’altare
combatti e pel focolare.
Se caschi in ginocchio, ti levi;
se piombi riverso, e ti levi;
se prono, e ti levi a lottare.”
XV
Così parla al sangue la Vila
dal crine del monte, la Vila
così stride e chiama a battaglia.
O Serbia, fa cuore! T’è l’odio
osso del dosso, armamento
t’è l’odio e t’è vittuaglia.
A Còciana ancor si combatte
e si combatte a Piròte;
a Tètovo è lungo macello,
e a Babuna tra le due vette.
A Ràzana i tuoi cavalieri,
al passo d’Isvòre i tuoi fanti,
a Glava le donne tue scarne
con le coltella e le accette.
Le madri combattono in frotta
col pargolo al seno e lo schioppo
alla gota, o dritte su i carri
tirati dai bufali torvi
le gravide, o in sella con due
pistole come la grande
Ljùbiza, ghiottume di corvi.
XVI
Qual è questo riso che scoppia
come manrovescio potente?
È il riso di Vèlico aiduco
dalla dentatura d’alano.
Che vede egli? un Bulgaro nero
perdere i suoi trenta dinari?
un Lurco basire, calando
le brache e levando la mano?
il pennacchin tirolese
del boia longevo che crocchia
e affoga nel flusso senile?
o il tronfio Amuratte alemanno,
soldano d’eunuchi cinghiati,
trar la scimitarra scurrile?
Che vede di turpe e di vile
lo schernitore, che vede?
Ve’ ve’ bagascion di corona,
ve’ bardassa in Cesare vòlto,
di unguenti asiatici liscio
che piglia da Cesare Giulio
il letto di re Nicomede!
XVII
Tastalo con le tue dure
mani, questo sacco di dolo
e di adipe, o Vèlico, questo
sacco di lardo e di fardo.
Cesare dei Bulgari neri,
come Simeone, è costui,
come Caloiàn di Preslavia,
è questo Coburgo bastardo?
Tu che metter suoli la lama
tra i denti, aiduco, se vuoi
aver la pistola nel pugno,
tu tagliami questo codardo
con la squarcina del fiso,
tagliuzzalo come lombata,
condiscilo poi con zibetto,
con cinnamo e con spicanardo.
Lo manderai così concio
alle meretrici di Scòplia.
E che il tuo scherno s’appigli,
che il tuo riso crepiti e scrosci
ai tuoi come un fuoco gagliardo!
XVIII
O Serbia, che avesti regina
di grazia Anna Dandolo e desti
del ceppo regale di Orosia
a un Buondelmonte la sposa,
odi: la Vittoria è latina,
ed ella è promessa al domani.
è una pura vergine bianca
(non è la tua Vila a lei pari)
più lieve della tua Vila
selvaggia che col piè nudo,
in vista dell’oste schierata,
danzò su le lance dei bani.
Diceano intanto gli araldi
in Prìlipa a Marco: “O signore,
contendono i re, dell’impero.
A chi sia l’impero e’ non sanno.
Ti chiaman di Còssovo al piano
che tu dica a chi sia l’impero”.
Un grida: “Al Latino è l’impero.
Per forza a lui viene l’impero.
Roma a lui commise l’impero”.
XIX
Lode all’uno, grazie al verace!
In Còssovo teco i Latini
combatteranno domani
sotto il gonfalone crociato,
mentre il Lurco “A me è l’impero”
grugna “ché la forza s’alterna”.
Sarà coi Latini domani
la grande lor vergine bianca.
Già misto il lor sangue col tuo
ebbero a Valàndovo, sacre
primizie. Ora Vèlese è rossa
di quelle, e vermiglia è la Cerna.
Tra le corna sta di Babuna
la pertinacia non rotta
e in Prilipa avvampa la fede.
O Rumio dagli occhi di druda,
a che musi verso la steppa,
bilenco tra rischio e mercede?
E tu, vil Grecastro inlurchito
che palpi le sucide dramme,
non odi il cannone di Dede?
XX
O falso Dace, che vanti
la gloria del nome latino
e non pur sei degno del nome
barbarico ch’era tremendo
né mondo pur sei della lebbra
d’Asia che tuttora ti squamma,
or quando entrerai nella lite?
Quando la Colonna traiana,
di pietra fattasi fiamma,
t’andrà camminando dinanzi
come la Colonna divina
in Etam dinanzi ai figliuoli
d’Israele verso il deserto
lenito e per l’acque spartite?
Ma tu, o Greculo, merca.
Da tempo son morti i tuoi clefti.
Si leva di giù Bucovalla
e sputa su te dal carnaio.
Venditi. Non già ti compriamo,
non per una sucida dramma.
Ma ti pagheremo d’acciaio.
XXI
È tempo, è tempo. La notte
precipita. Sta sopra tutti
la legge di ferro e di fuoco;
e questo è il supremo cimento.
Prudenza è vergogna, disfatta
il dubbio, delitto il riposo,
viltà ogni vana parola,
e l’indugio è già perdimento.
Popolo d’Italia, sii schiera
appuntata a guisa di conio,
schiera di tre canti romana,
che cozza scinde e s’incugna.
Popolo d’Italia, sii chiusa
falange, con fronte ristretta,
fasciata d’ardore, scagliata
come un sol vivo alla pugna.
Popolo d’Italia, sii come
la forza dell’aquila regia
che batte con l’ala, col rostro
dilania, ghermisce con l’ugna.
E v’è uno Iddio: l’Iddio nostro.
16 novembre 1915
Gabriele D’Annunzio
Note su alcuni termini
Stefano soprannominato Dusciano dalle molte pie elemosine che fece (nell’anno 1346 pur al santuario di San Nicola di Bari donò una rendita di dugento perperi in continuo per la cera) fu della stirpe nemànide e Silni fu chiamato dal popolo suo, cioè il Possente; e nella ragunata dell’anno 1340, in Scoplje, fu proclamato lo zar dei serbi, dei bulgari, dei greci, e “primogenito di Cristo”. Il principe Lazaro Hrebeljanovic fu poi l’ultimo re grande di Serbia. Ebbe Mìliza per donna, d’insigne sangue, d’animo insigne. Nell’anno 1389 sul piano di Kosovo e Metohija fu ucciso dai turchi. Perirono in Kosovo, col sire, i nove prodi Giugovic, i nove figliuoli del vecchio Giugo Bogdano, fratelli di Mìliza. Vàlico (Hajduk Veljko Petrovic – Veljko aiduco) fu, nel duro tempo di Giorgio il Nero (Kara-Giorgio lo chiamarono i turchi perché “kara” vuol dire “nero” in turco, tanta paura ebbero da lui da chiamarlo: Giorgio Nero), il più terribile degli aiduchi. Avendogli Giorgio assegnato la difesa della città di Negòtino e della terra circostante, egli con qualche migliaio d’uomini sostenne coraggiosamente, l’assedio. Senza più vettovaglia, senza munizione, senza speranza di soccorsi, in un mucchio di rovine fumanti, sotto la minaccia d’un nemico venti volte più numeroso, non cedette (una specie di battaglia d’Alamo serba molto prima dell’Alamo americana); anzi di giorno e di notte moltiplicò le sortite temerarie, sempre valido, ardente, fidente, gaio. Avendo avvistato in lontananza una compagnia di serbi e volendo abboccarsi col capitano, monta a cavallo, salta il fosso; con la sciabola tra i denti, con la pistola nel pugno, seguito da uno solo dei suoi, attraversa il campo ottomano a furia. Si toglie di bocca la lama per gridare, a squarciagola: “O cani, ecco l’aiduco Vàlico!” Nessuno osa contrastargli il passo. Compie egli il suo disegno e torna a gran galoppo. Fende di nuovo la ressa ostile gridando: “O cani, ecco l’aiduco Vàlico che torna!”. Gli è libero il passo. Egli rientra in Negòtino fra le sue torri mezzo diroccate. Ma fu, una mattina, nel fare la ronda, riconosciuto da un cannoniere turco e preso di mira. La palla lo colse, e in due lo spezzò. Ai suoi che accorrevano egli ebbe il fegato di gridare quella parola che oggi è la legge dei Serbi.
Vucàssino ebbe titolo di despota in prima, poi di re di Serbia e di Romania. Marco, detto Kraljevic, è figliuolo del re, un eroe cantato nel poemi epici della nazione serba. Le Vile (le fate) sono una sorta di deità che abitano i gioghi, i boschi, le fiumane. Vengono a soccorrere, a incitare, a consolare, a medicare i combattenti.
Sempre ebbero grande animo le donne serbe. Combattevano a piedi e a cavallo, come combatteva Ljùbiza, la moglie del principe Milos Obrenovic.
Le patrizie veneziane Anna Dandolo (1217-1221) e Costanza Morosini (1321) furono regine di Serbia: e il patrizio fiorentino Esaù de’ Buondelmonti (1386-1403) sposò una donzella della Stirpe regia serba di Orosia. D’Annunzio sapeva tutte queste cose e molte di più.
Gabriele D’Annunzio, scrittore italiano, poeta e drammaturgo (Pescara, 1863 — Gardone Riviera, 1938) fu l’unico scrittore italiano del Novecento collocato tra i grandi scrittori mondiali di quel periodo. James Joyce ha scritto: „Ritengo che i tre scrittori dell’Ottocento dotati naturalmente di maggiore ingegno furono D’Annunzio, Kipling, Tolstoj”. Tuttavia il D’Annunzio fu sempre in primo piano nella vita letteraria, artistica, intellettuale e anche politica del decennio che chiuse il XIX secolo e dei due primi decenni del nuovo secolo.
Tra tante sue opere ormai note, D’Annunzio scrisse il 16 novembre 1915 e pubblicò sul Corriere della sera di Milano, il 24 novembre 1915 la più bella opera letteraria mai dedicata ai Serbi: Ode alla nazione serba. D’Annunzio inviò una copia di questa Ode scritta di propria mano al re serbo Petar I
Karadordevic, cognato del Re Emanuele III, insieme ad alcune copie del libro fatto uscire a proprie spese. È un’edizione rarissima con due tipi di copertine. L’edizione più lussuosa portava stemma serbo nell’angolo destro della copertina. Il ministro serbo di allora, signor Ristic, ringraziò D’Annunzio a nome del proprio governo. Ode alla nazione serba fu tradotta in serbo dal poeta serbo Milutin Bojic nei 1916, ma in forma di quartine mentre la forma originale in italiano comprende 21 canti con 21 versi ognuno. Inoltre non è mai stata pubblicata la traduzione intera per la censura di quel momento cioè sono stati omessi tutti i versi contro lo zar austriaco e quello tedesco. Il poeta e traduttore serbo Dragan Mraovic ha tradotto e pubblicato in serbo l’Ode intera, in forma corrispondente a quella originale in italiano, nel 1988, ed è questa che presentiamo in linqua serba in questo libro, con alcune modifiche di tipo stilistico, rendendo omaggio al più grande maestro dello stile, sempre dopo Dante, che mai abbia avuto l’Italia ed anche al poeta di autentica vena.
Gabriele D’Annunzio conobbe bene la nazione serba, la sua storia e seppe apprezzare i suoi valori. Conobbe pure la poesia popolare serba tanto rispettata da Goethe (che studiò il serbo per capirla bene) e per la quale Nicolò Tommaseo scrisse: „Per quanto riguarda la poesia nella quale non c’è niente di troppo e nella quale ogni parola porta allo scopo, io conosco solo due modelli: Dante e la poesia popolare serba.” L’ultima parola pronunciata da Otto von Bismarck nell’atto di morire è stata: „Serbia!” Chi ha saputo dare conforto ai Serbi incoraggiandoli nei momenti tra i più difficili della loro storia è stato Gabriele D’Annunzio.
I Serbi non dimenticano gesti del genere.
http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=22260
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