giovedì 23 gennaio 2014

LA SVOLTA ANTIEBRAICA ITALIANA DEL 1938 MUSSOLINI E GLI EBREI


di Gianfredo Ruggiero
Le leggi razziali italiane del 1938 furono, senza alcuna ombra di dubbio, una vergogna nazionale la cui responsabilità ricade interamente su Mussolini e su quanti, per ignavia o servilismo, nulla fecero per evitarle.
Il rispetto per le vittime della discriminazione razziale non può e non deve però impedirci di affrontare l’argomento con il dovuto distacco e la necessaria serenità di giudizio.
Per troppi anni la storia è stata viziata da preconcetti e comodi schematismi che ci hanno portati lontano dalla verità. La stessa storia del popolo ebraico è costellata di stragi e persecuzioni a causa di un pregiudizio - accusa dei cattolici di aver ucciso Gesù - cui se ne sono aggiunti altri nel corso dei secoli: usura, internazionale ebraica per dominare il mondo attraverso il controllo delle economie nazionali, devianza sessuale per la pratica della circoncisione definita un patto con Cristo attraverso il pene, ecc..
Hitler in definitiva non ha inventato nulla, ha semplicemente portato alle estreme conseguenze, in modo raccapricciante e disumano, quell’antiebraismo figlio del pregiudizio ancor oggi presente e che viene da lontano.
Daniel Goldhagen nel suo libro “I volenterosi carnefici di Hitler”(1) afferma che la persecuzione ebraica fu resa possibile grazie alla attiva partecipazione o, quantomeno, all’indifferenza se non addirittura alla compiacenza di buona parte della popolazione tedesca; che a essere antisemiti non erano solo Hitler ed i suoi seguaci, bensì larghi strati della società.
Tale avversione nei confronti degli ebrei la troviamo radicata anche in altre nazioni, in particolar modo in Francia e in Polonia.
In Italia la situazione era invece del tutto diversa. Come hanno riconosciuto autorevoli storici del calibro di George L. Mosse, docente dell’Università ebraica di Gerusalemme, l’autore de “La Nazionalizzazione della Masse”(2)la più completa opera sul fenomeno dei totalitarismi contemporanei, Renzo De Felice, il più profondo conoscitore della storia degli ebrei sotto il fascismo e il rabbino Elio Toaff nel suo libro “essere ebreo”(3) tra i Paesi europei l’Italia è uno di quelli che meno ha conosciuto il razzismo.
A differenza del nazionalsocialismo che trae la sua essenza nella purezza della razza (razzismo biologico di origine illuminista e darwiniana), il Fascismo non fu ideologicamente razzista.
Nella carta di Piazza San Sepolcro del 1919, vero e proprio manifesto ideologico cui s’ispirò il Fascismo nelle sue tre fasi - movimento, regime e sociale - di razzismo non vi è traccia.
Mussolini stesso ebbe a dichiarare in più occasioni che in Italia non esisteva una questione ebraica e guardò con sufficienza alle teorie hitleriane. Nel ’34 a Bari il Duce afferma:
«trenta secoli di storia ci permettono di guardare con sovrana pietà talune dottrine di oltr’Alpe…»
Che nel bagaglio ideologico e culturale del Fascismo non vi fosse alcuna forma di discriminazione a sfondo razziale lo dimostra la presenza di ben cinque ebrei tra i partecipanti alla fondazione dei Fasci di Combattimento (embrione del futuro Partito Nazionale Fascista) del 23 marzo 1919; ebreo era il milanese Cesare Goldman che offrì a Mussolini la celebre sala di Piazza San Sepolcro; la partecipazione alla Marcia su Roma di molti ebrei e l’iscrizione al Partito Fascista fino al 1933 – data dell’ultimo censimento – di oltre diecimila ebrei(4). Senza contare la presenza ebraica in tutti i settori dell’economia e della vita pubblica e politica italiana fino ai primi mesi del 1939.
Il “Manifesto degli intellettuali fascisti” del 1925, redatto dal filosofo Giovanni Gentile, veniva sottoscritto da ben trentatré esponenti della cultura di religione ebraica.
Diversi ebrei occuparono posti di grande rilievo nelle strutture e nelle Istituzioni
del Regime basti pensare, solo per citarne alcuni, a Margherita Sarfatti che fino al 1936 diresse la rivista ufficiale del Fascismo “Gerarchia” e autrice della biografia di Mussolini“DUX”, a Ettore Ovazza direttore del giornale “La nostra Bandiera” punto di riferimento dell’ebraismo fascista.
Nel suo governo, Mussolini si circondò di una massiccia presenza di ebrei: Aldo Finzi, sottosegretario agli Interni, ex aviatore della “Serenissima” di D’Annunzio (fondamentale fu il suo contributo alla nascita dell’aeronautica militare italiana), squadrista, deputato e membro del Gran Consiglio del Fascismo;  Guido Jung fu a capo del Ministero delle Finanze dal 1932 al 1935, volontario  nella guerra di Abissinia nonostante i suoi 65 anni di età; Maurizio Rava, anch’egli ebreo, fu vicegovernatore della Libia e generale della Milizia Fascista; Paolo Orano, uno dei padri del giornalismo italiano e rettore dell’Università di Perugia (morirà nel 1945 nel campo di concentramento anglo-americano di Padula dove era internato con altri fascisti); Giuseppe Toeplitz, direttore della Banca Commerciale e finanziatore del giornale di Mussolini «Il Popolo d’Italia». Ebreo era anche il prefetto Dante Almansi, che fu vice capo della polizia e Capo di Gabinetto durante il ministero Jung. L’ebreo Giorgio Del Vecchio, ordinario di Diritto Internazionale, diventa il primo rettore fascista dell’Università di Roma.
Tra i primi caduti della rivoluzione fascista figurano gli ebrei Gino BolaffiBruno Mondolfo e Duilio Sinigaglia. Molti altri parteciparono con entusiasmo alla guerra di Spagna come il generale Alberto Liuzzi che si meritò la medaglia d’oro.
Molti furono gli ebrei italiani che parteciparono volontari alla guerra d’Africa. La vittoria e la proclamazione dell’impero furono salutate dalla stampa ebraica con vero entusiasmo. La conquista dell’Etiopia fu sentita non solo come una questione nazionale, ma anche come un fatto ebraico, dal momento che nella zona presso Gondar e il lago Tana viveva una popolazione di razza cuscitica e di religione giudaica, i falascià.
I rapporti tra istituzioni ebraiche – che godettero d’ampia autonomia – e regime fascista furono sempre improntati al reciproco rispetto.
Diversi furono i colloqui tra Sacerdoti, presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, e Mussolini che portarono, ad esempio nel campo dell’insegnamento, all’istituzione di sezioni elementari ebraiche nelle scuole comunali e alla modifica dei manuali di religione ad uso dei bambini ebrei nelle scuole statali.
La legge Falco del 1930 sulle comunità israelitiche italiane, voluta da Mussolini per salvaguardare il patrimonio artistico, storico e culturale ebraico, fu accolta con grande favore dagli ebrei italiani.
Artisti, registi e scrittori ebrei, molti dei quali profughi dalla Germania, poterono liberamente lavorare nell’Italia fascista senza alcuna preclusione(5).
Significativa fu la partecipazione di Mussolini al congresso ebraico sionista svoltosi, non a caso in Italia, a Milano alla fine del 1928.
Apprezzamento per l’attenzione nei confronti degli ebrei  venne dal periodico sionista“Israel” che riconosceva soddisfatto(6):
«dopo dieci anni di regime fascista, il ritmo spirituale della vita ebraica in Italia è più intenso, anzi assai più intenso di prima»
Altra vicenda poco nota riguarda la nascita della marina dello Stato d’Israele avvenuta con il supporto dell’Italia(7).
Nell’Ottobre del 1934 a seguito di un accordo tra Mussolini, impegnato a sostenere il nascente stato ebraico, e il leader sionista Jabotinsky, giungono a Civitavecchia i primi 28 allievi ufficiali ebrei per essere addestrati alla Scuola Marittima; nei tre anni successivi i diplomati saranno quasi 200. Sulle uniformi portano un’ancora, la Menorah (il candelabro a sette bracci) e il fascio littorio e nelle cerimonie ufficiali salutano a braccio teso, come ha ricordato Avram Blass, successivamente divenuto Ammiraglio della Marina Israeliana.
La formazione dei quadri della futura Marina ebraica conferma i buoni rapporti che si istaurano fra il Duce e il movimento sionista mondiale presieduto da Chaim Weizmann (il futuro primo presidente dello Stato d’Israele).
Quando, con l’ascesa al potere di Hitler, riprese vigore in tutta Europa il mai sopito antiebraismo, l’Italia fascista, a differenza delle democratiche Francia e Inghilterra che si chiusero a riccio rifiutandosi di ospitare gli ebrei nei loro confini e nelle loro colonie, aprì le sue frontiere(8).
Fu creato un organismo ad hoc - il comitato di assistenza agli ebrei in Italia – che permise a circa diecimila profughi provenienti da Germania, Polonia, Ungheria e Romania di trovare rifugio nel nostro Paese; altri 80 mila ebrei poterono emigrare in Palestinae in altre nazioni grazie alla collaborazione delle autorità italiane.
Dal porto Trieste gli ebrei emigranti viaggiavano su navi del Lloyd triestino che concedeva loro sconti fortissimi, fino al 75%(9).
Mussolini, per un certo periodo, abbozzò anche l’idea di costituire in Etiopia, colonia italiana dove viveva tutelata dal Governo italiano una folta comunità di falascià (ebrei africani), l’embrione della futura nazione ebraica.
Uniche voci dissonanti di un certo rilievo provenivano da Giovanni Preziosi e dalla sua rivista “La vita italiana”, il cui antisemitismo si collocava nella tradizione cattolica (non a caso Preziosi era un ex sacerdote) e da Telesio Interlandi che attraverso le pagine del“Tevere” riproponeva i luoghi comuni dell’antiebraismo classico. Argomenti che, in ogni caso, ebbero scarsa presa sull’opinione pubblica italiana e ancor meno considerazione da parte della cultura fascista(10).
Improvvisamente (in verità qualche accenno vi fu nel corso dell’anno precedente) nel 1938, a seguito di una deliberazione del Gran Consiglio del Fascismo del 6 ottobre, furono emanate le famigerate e mai tanto deprecate leggi razziali la cui essenza tuttavia, essendo di natura spirituale, mirava ad emarginare gli ebrei senza perseguitarli, contrariamente a quanto avveniva in Germania, in Europa orientale e, in maniera strisciante, in alcune democrazie occidentali.
Va evidenziato che l’opinione pubblica, soprattutto quella cattolica, non fu del tutto ostile al quel provvedimento considerate le 360 firme apposte al “Manifesto per la difesa della Razza” da parte di intellettuali e scienziati di estrazione cattolica ed anche di autorevoli esponenti della Chiesa e del cattolicesimo come il fondatore dell’Università cattolica Padre Agostino Gemelli, Luigi Gedda, storico presidente dell’Azione Cattolica e il futuro leader democristiano Amintore Fanfani.
In definitiva tale provvedimento, che oggi ci appare aberrante, all’epoca fu accolto con indifferenza quasi fosse un fatto normale, a causa di quel diffuso antisemitismo e razzismo ben radicati in tutti i paesi occidentali (non dimentichiamoci che negli stessi anni in America i neri erano pesantemente discriminati e organizzazioni paramilitari razziste come il Klu Klux Klan ampiamente tollerate).
Le leggi italiane per la tutela della razza oltre ad essere blande, se confrontate con le legislazioni di Germania e poi di Francia, prevedevano numerosissime eccezioni (parenti di caduti per la Patria, partecipanti alla marcia su Roma, meriti militari e civili, ecc.). In alcune sue parti furono inoltre volutamente ignorate, come ad esempio il mai applicato divieto di matrimoni misti.
Nella sua sintesi la legislazione razziale italiana mirava ad escludere gli ebrei dalla funzione pubblica e da alcune professioni come quella di notaio e a porre limitazioni di principio come quella che vietava agli ebrei benestanti di avere al loro servizio ariani (ben più pesanti erano le limitazioni imposte ai neri, in quegli anni e in quelli successivi, da parte della democratica America).
Gli ebrei che abbandonarono l’Italia in quel periodo, pur potendolo fare (non vi era alcuna limitazione alla libera circolazione. Tutti, tranne i sorvegliati speciali, avevano in tasca il passaporto e potevano usarlo quando volevano) furono ben pochi. Furono infatti solo personalità di rilievo a lasciare il nostro Paese, a dimostrazione di come i provvedimenti razziali non intaccarono in profondità la vita della comunità ebraica la quale accettò – seppur obtorto collo – le limitazioni imposte.
Non vi furono emigrazioni di massa, anche perché gli ebrei italiani non avrebbero saputo dove andare, considerato ciò che avveniva nel resto d’Europa e il netto rifiuto ad accoglierli da parte delle Nazioni cosiddette democratiche, Inghilterra in testa.
Durante la guerra, nonostante le pressanti richieste da parte tedesca, Mussolini si rifiutò sempre di consegnare gli ebrei italiani ai nazisti e diede disposizioni per attuare nelle zone controllate dall’esercito italiano (Tunisia, Grecia, Balcani e sud della Francia) vere e proprie forme di boicottaggio per sottrarre gli ebrei ai tedeschi (era sufficiente avere un lontanissimo parente italiano, spesso inventato, per ottenere la cittadinanza italiana e sfuggire in questo modo alla deportazione).
Fino a quando Mussolini ebbe il pieno controllo dell’Italia, questo fino al 25 luglio del 1943, nessun ebreo fu deportato in Germania.
Solo successivamente con la Repubblica Sociale Italiana essendo, di fatto, l’Italia centro settentrionale diventata un protettorato tedesco, i nazisti poterono imporre facilmente la loro volontà fatta di rastrellamenti e deportazioni. Ma, a differenza di altri paesi occupati, come ad esempio la Francia di Vichy, dove i tedeschi poterono attuare il loro programma di persecuzione degli ebrei con il pieno appoggio delle autorità locali (che superarono per zelo gli stessi nazisti), in Italia i tedeschi dovettero provvedere in prima persona per la ferma opposizione del governo fascista che negò sempre la sua collaborazione.
La partecipazione dei fascisti ai rastrellamenti degli ebrei fu, infatti, sporadica e opera di formazioni irregolari che sfuggivano ad ogni controllo.
La Risiera di San Sabba a Trieste, unico campo di concentramento di ebrei in Italia fu, non a caso, istituito e gestito totalmente dai tedeschi.
Lo storico israelita Léon Poliakov, fondatore del Centro di Documentazione Ebraica di Parigi, nel suo libro “Il nazismo e lo sterminio degli ebrei” (pagine 219, 220) afferma:
«Ovunque penetrassero le truppe italiane, uno schermo protettore si levava di fronte agli ebrei  (…). Appena giunte sui luoghi di loro giurisdizione, le autorità italiane annullavano le disposizioni decretate contro gli ebrei ( …). Un aperto conflitto si determinò tra Roma e Berlino a proposito del problema ebraico»
Il procuratore generale al processo contro il gerarca nazista Eichmann Gideon Hausner(11). nella sua  relazione introduttiva afferma:
«La Nazione più cara a Israele è l’Italia: per quello che le autorità civili, diplomatiche e militari hanno fatto per sottrarre alla deportazione masse di ebrei di Francia, Grecia, Croazia; per l’atteggiamento assunto dalla popolazione verso gli ebrei stessi italiani, per l’aiuto dato ai rifugiati ebrei d’ogni parte d’Europa che furono concentrati in varie direzioni geografiche. Passare nella zona italiana, tanto in Grecia che in Francia, era andare verso la salvezza».
Il docente dell’Università ebraica di Gerusalemme, George L. Mosse, nel suo libro “Il razzismo in Europa”, a pag. 245 scrive:
«Il principale alleato della Germania, l’Italia fascista, sabotò la politica ebraica nazista nei territori sotto il suo controllo (…). Ovunque, nell’Europa occupata dai nazisti, le ambasciate italiane protessero gli ebrei in grado di chiedere e ottenere la nazionalità italiana.
Le deportazioni degli ebrei cominciarono solo dopo la caduta di Mussolini, quando i tedeschi occuparono l’Italia»
Dopo molte insistenza da parte tedesca Mussolini, nel 1942, si decise a firmare il nullaosta per la deportazione in Germania degli ebrei jugoslavi.
Appena il Ministro tedesco Von Ribbentrop fu partito da Roma il Duce convocò il generale Robotti e gli confidò:
«È stato a Roma per tre giorni e mi ha tediato in tutti i modi il Ministro Ribbentrop che vuole a tutti i costi la consegna degli ebrei jugoslavi. Ho tergiversato, ma poiché non si decideva ad andarsene, per levarmelo davanti, ho dovuto acconsentire, ma voi inventate tutte le scuse che volete per non consegnare neppure un ebreo. Dite che non abbiamo alcun mezzo di trasporto per portarli sino a Trieste via mare, dato che via terra non è possibile farlo»
Così avvenne: mai un ebreo, di qualsiasi nazionalità fosse, fu consegnato ai tedeschi con la collaborazione delle autorità italiane.
E’ vero che molti italiani, fascisti e non, fecero opera di delazione e contribuirono attivamente per consegnare gli ebrei ai nazisti, spesso per motivi personali, ma è altrettanto vero che moltissimi altri italiani, fascisti e non, si adoperarono per salvarli, rischiando per questo la loro vita.
Purtroppo la proverbiale e provata generosità del nostro popolo è spesso contraddetta da episodi di pura cattiveria e grande meschinità.
Cosa indusse Mussolini ad imboccare la strada dell’antiebraismo che portò alla espulsione degli ebrei dagli incarichi pubblici e a negare loro molti diritti civili, è ancora oggi oggetto di discussione tra gli storici onesti.
Scartata la tesi marxista della contiguità ideologica con il nazismo che, come abbiamo visto, è totalmente priva di fondamento(12), quella più accreditata fa riferimento all’alleanza con la Germania e al conseguente influsso nefasto che le teorie di Rosenberg ebbero sul finire degli anni trenta anche in Italia e che andarono a rinfocolare il mai sopito antisemitismo di matrice cattolica.
Altra probabile causa fu l’avversione dell’internazionale ebraica verso il nazismoe, di riflesso, verso il fascismo (nonostante le proteste degli ebrei italiani contrari a quella sorta di Fatwa(13)) e, infine, il tentativo di porre un freno al fenomeno del meticciato esploso nelle colonie italiane.
Non è un caso che le leggi razziali furono promulgate ben 16 anni dopo la presa di potere di Mussolini a conferma che per l’Italia fascista la presenza ebraica nel nostro Paese non costituiva alcun problema.
Fin qui l’Italia. Proviamo ora ad allargare lo sguardo e a vedere cosa accadeva nel resto del mondo negli stessi anni.
La Svezia, ad esempio, nello stesso periodo inviò in Germania una delegazione del suo Parlamento per studiare la legislazione razziale tedesca e, insieme a Norvegia e Danimarca, attuò una politica eugenetica che portò tra il 1934 e il 1976 alla sterilizzazione coatta di oltre 200.000 persone, ritenute geneticamente pericolose per la purezza della razza(14).
Gli Stati Uniti tra 1899 e il 1979 costrinsero con la forza oltre 65.000 uomini e donne soprattutto immigrati  a sottoporsi alla sterilizzazione per il miglioramento della razza e per contenere i costi di assistenza sociale(15).
Da notare che mentre nei paesi cosiddetti democratici si obbligavano le donne emarginate e disadattate a sottoporsi alla sterilizzazione e si vietavano perfino i matrimoni tra “adatti e inadatti”, l’Italia fascista non solo bandiva tale pratica, ma istituiva un sistema di protezione sociale a sostegno della maternità e l’infanzia, soprattutto per le classi meno abbienti.
In Sud Africa gli Afrikaner, i bianchi di origine europea, attuarono la segregazione razziale rimasta in vigore fino al 1994.
L’America nello stesso periodo proseguiva imperterrita nella sua politica di sterminio dei nativi e di rigida separazione razziale nei confronti dei neri. Si dovettero attendere gli anni sessanta per vedere abrogate queste odiose misure razziste per le quali nessuno mai pagò, neppure davanti al tribunale della storia.
Stalin, non pago di aver massacrato milioni di contadini russi (Kulaki) contrari alla collettivizzazione forzata e altrettanti oppositori politici eliminò, come ha documentato lo storico russo Arkaly Vaksberg nel suo libro “Stalin against Jews”, non meno di 5 milioni di ebrei. Di questi ebrei, appunto perché perseguitati e uccisi dai comunisti si è, ovviamente, persa la memoria.
Un capitolo a parte riguarda le responsabilità dei vincitori: America, Inghilterra e Russia sapevano, vedevano e lasciavano fare.
La Germania sul finire della guerra era ridotta ad un ammasso di rovine ad opera dei bombardamenti alleati, ma le linee ferroviarie, tra cui il  tristemente famoso binario 21 da dove partivano i vagoni carichi di ebrei per i campi di concentramento, rimanevano inspiegabilmente intatte e neppure un solo campo di prigionia fu volutamente colpito dalle bombe che giorno e notte martellavano ogni angolo della Germania (tranne il lager di Buchenwald colpito per errore, dove trovò la morte sotto le macerie delle bombe alleate Mafalda di Savoia)(16).
Come dimostrato da una inchiesta di Rainews24 condotta da Angelo Saso attraverso documenti inediti degli archivi americani e testimonianze di protagonisti dell’epoca, gli alleati sapevano tutto. Infatti tra l’inizio di aprile del 1944 e il 27 gennaio del 1945 il campo di concentramento di Auschwitz fu fotografato dai ricognitori alleati non meno di 30 volte.
Eppure l’ordine di bombardare le vie ferroviarie e d’accesso ad Auschwitz e agli altri campi di concentramento, azione che avrebbe evitato la morte di moltissimi altri esseri umani, non fu mai dato. Evidentemente la salvezza degli ebrei non era nelle priorità degli alleati.
In precedenza i tentativi di espatrio degli ebrei dalla Germania nazionalsocialista furono sempre violentemente contrastati dalle Nazioni democratiche(17).
Come ci ricorda lo storico e giornalista Filippo GianniniRoosevelt fece intervenire la U.S. Navy per impedire con la forza l’approdo sulle coste statunitensi di un piroscafo carico di ebrei partiti da Amburgo. Churchill minacciò di silurare a Sulina, nel Mar Nero, un altro carico di ebrei in navigazione verso la Palestina. Nel febbraio del 1942 lo “Struma”, una nave di profughi ebrei proveniente dalla Romania, si vide rifiutare dagli inglesi il permesso di sbarcare, e, respinta anche dai turchi, affondò nel Mar Nero: 770 persone annegarono(18).
Nella Terra Promessa gli inglesi fucilavano e impiccavano gli ebrei riottosi per scoraggiare ulteriori sbarchi.
Poco nota è anche la vicenda della famiglia di Anna Frank che cercò inutilmente rifugio negli Stati Uniti. Fra il 30 aprile e l’11 dicembre 1941 Otto Frank, il padre di Anna, scrisse ripetutamente a parenti, amici e alti funzionari americani spiegando che era pronto ad «ogni sacrificio» pur di riuscire a superare l’Oceano Atlantico, ma in ogni occasione la risposta fu negativa. Osserva al riguardo Richard Breitman, storico dell’American University.
«Il tentativo di emigrazione verso gli Stati Uniti accomuna i Frank a migliaia di ebrei europei ed in particolare tedeschi che trovarono le porte sbarrate dalle leggi dell’epoca»
Dopo la fine della guerra i “liberatori” decretarono la nascita di Israele, scaricando di fatto sui palestinesi il peso delle loro responsabilità per non aver fatto nulla per evitare la persecuzione nazista del popolo ebraico e per aver rifiutato con la forza di accettare i profughi ebrei in fuga dalla Germania. A differenza dell’Italia fascista che si adoperò per accoglierli e proteggerli.
Tornando alle leggi razziali del 1938, queste furono indubbiamente un fatto deprecabile, sarebbe però moralmente ingiusto e storicamente sbagliato non riconoscere che se molti ebrei scamparono ai campi di concentramento ed ebbero salva la vita lo devono proprio a lui, a Mussolini.
Gianfredo Ruggiero
Note                                                                                                                      
1) Ed. Mondadori, 1996.
(2) Ed. il Mulino, Bologna 1975.
(3) Ed. Einaudi, Torino 1993. ed. Bompiani, Milano 1996, pag. 134.
(4) Renzo De Felice : Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo. Ed. Einaudi, 1993, Torino.
(5) Osserva Maurizio Cabona in un lungo articolo del marzo 2013 dal titolo “fascisti, neofascisti, postfascisti ed ebrei”: «l’Italia fascista è stata più ospitale di varie democrazie con gli esuli dalla Germania nazionalsocialista, ebrei o non ebrei, e con le loro opere. Nel 1933 Max Reinhardt rappresenta a Firenze il “Sogno di mezza estate” e nel 1934 a Venezia “Il mercante di Venezia”; negli stessi anni “L’opera da tre soldi” di Bertolt Brecht va in scena sotto il titolo “La commedia dei ladri” per la regia di Anton Giulio Bragaglia; nel 1934 Walter Gropius partecipa all’ufficialissimo Convegno Volta di Roma sul teatro drammatico; nel 1939 il regista Max Neufeld gira e firma a Roma tre film di successo (dopo, lavorerà sotto pseudonimo). A partire dal 1933 soggiornano o si stabiliscono in Italia Stefan Andres, Walter Benjamin, Franz Blei, Rudolf Borchardt, Paul Oskar Kristeller, Alfred Neumann, Saul Steinberg, Veit Valentin, Franz Werfel, Karl Wolfskehl e un ragazzino promettente, Edward Luttwak. Prima dell’autunno 1938, sul mercato librario italiano ci sono oltre cento titoli di esuli, due terzi dei quali pubblicati dopo il 1933: di Alfred Doeblin, Lion Feuchtwanger, Erich Kaestner, Heinrich e Thomas Mann, Joseph Roth, Arnold e Stefan Zweig (cfr. Klaus Voigt, “Il rifugio precario”, La Nuova Italia, vol. I, 1993; vol. II, 1996; Giorgio Fabre, “L’elenco”, Zamorani, 1998)
(6) Arrigo Petacco: L’uomo della Provvidenza, Mussolini ascesa e caduta di un mito, Oscar Mondadori, 2004, Milano.
(7) Mario Veronesi, “La Marina di David” .www.storiain.net.
(8) Nel 1935 con l’autorizzazione del Governo e il contributo economico dell’industriale di Prato Giulio Forti, furono acquistate tre fattorie in Toscana per la preparazione agricola degli ebrei tedeschi che poi dovevano stabilirsi in Palestina. Analoghe iniziative si ebbero in altre località italiane.
(9) R. De Felice : Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo. Ed. Einaudi, 1993, Torino, pag. 116.
(10) Telesio Interlandi fu per 20 anni il direttore del giornale il Tevere a cui collaborarono, fra gli altri, Luigi Pirandello, Emilio Cecchi, Ungaretti, Cardarelli, Vitaliano Brancati, Alberto Moravia, Elio Vittoriani, Ardengo Soffici, Julius Evola e Umberto Barbato e, dal ’36, Giorgio Almirante poi divenuto redattore capo.
(11) Di Gideon Hausner vedasi il libro “Sei milioni di accusatori”. Ed. Mondadori, 2010.
(12) De Felice afferma che le differenze ideologiche tra i due regimi sono ben maggiori delle affinità. “Per Hitler il razzismo è ragione di vita, per Mussolini una mossa tattica dettata dal mutamento nei rapporti di forza internazionali”, sintetizza Meir Michaelis in “Mussolini e gli ebrei” (Comunità, 1982).
(13) Il 24 marzo del 1933, tre mesi dopo l’elezione di Hitler alla Cancelleria del Reich, il Congresso Ebraico Americano dichiarò la guerra economica e finanziaria alla nuova Germania e il totale embargo dei prodotti tedeschi al fine di strangolarne l’economia. Il governo tedesco reagì, attuando come rivalsa, il 1° aprile del 1933 il boicottaggio di un giorno dei negozi ebraici in Germania. Da notare che gli ebrei tedeschi, soprattutto quelli sionisti, mal digerirono il boicottaggio delle merci tedesche voluto dell’Internazionale Ebraica.
(14) In Svezia, tra il 1934 e il 1996, sono stati sterilizzati prevalentemente handicappati, malati mentali e asociali, delinquenti, minoranze etniche, indigeni di razza mista e prostitute, tutti accusati di pesare sull’assistenza pubblica e di essere portatori di malattie e di stili di vita dagli alti costi sociali. La sterilizzazione coattiva è rimasta in vigore fino al 1976, anno in cui una nuova legge rende obbligatorio il consenso degli interessati. La Svezia è stato il primo paese a fondare, nel 1921, un Istituto statale di biologia razziale. Gianni Moriani “ il secolo dell’odio” ed. Marsilio Padova, 1999.
(15) È del 1907 la prima legge che autorizza la sterilizzazione forzata nello stato dell’Indiana, segue nel 1909 la California, che, con una legge ulteriore del 1913, prevede la sterilizzazione dei pazienti degli ospedali psichiatrici e delle prigioni.http://www.cinziaricci.it/resistenze/galleria06-note.htm.
(16) Alcuni campi di concentramento furono comunque bombardati, come il lager di Buchenwald dove trovò la morte sotto le macerie Mafalda di Savoia, ma come effetto collaterale o per errore e non per precisa volontà degli alleati.
(17) Degna di nota è la collaborazione tra Gestapo e alcuni movimenti ebraici sionisti come il Mossad e l’Irgum di Abraham Stern per favorire l’emigrazione degli ebrei e dei loro averi verso la Palestina. In effetti il Governo tedesco aveva tutto l’interesse a sbarazzarsi degli ebrei e lo stesso interesse a lasciare la Germania lo avevano gli ebrei nazionalisti (sionisti) che vedevano nella Palestina la loro Nazione, fortemente contrastati in questo dagli inglesi. – Ingrid Weckert e Marck Weber: “Sionismo, Nazionalsocialismo ed emigrazione ebraica”. Ed. Effepi 2011 Genova.
(18) Paul Johnson, Storia degli ebrei, pag. 582.


mercoledì 22 gennaio 2014

Missini ed antifascisti.


di Maurizio Barozzi

Una delle vecchie prime tessere della FEDERAZIONE NAZIONALE COMBATTENTI DELLA RSI, che nel dopoguerra raccolse e cercò di guidare i reduci del fascismo repubblicano. 
Non passarono pochi anni che i dirigenti della FNCRSI, TUTTI FASCISTI REPUBBLICANI, si resero conto del carattere truffaldino e mistificatorio del MSI, il partito creato nel 1946 dietro l’ispirazione dell’Oss americano, della Confindustria, della Chiesa e del Ministero degli Interni democristiano di allora
In particolare dai primissimi anni, quando i Michelini, i De Marsanich, gli Almirante e i Romualdi, tutti fondatori del MSI per conto altrui, pilotarono il MSI verso il sostegno all’Alleanza Atlantica e alla Nato, la FNCRSI, che già aveva contestato per gli ex combattenti fascisti, la ignobile collocazione a DESTRA, si indirizzò verso la contestazione al diritto del MSI a volersi definire fascista. 
Il Direttivo della Fncrsi indicò, e da allora si attestò su questa posizione antimissista per tutti i decenni successivi, invitando a votare scheda bianca o ad astenersi ad ogni elezione.
Ma la pappatoia elettorale faceva comodo e gola a tanti farabutti, conaspevoli che vi era un buon serbatoio di voti a cui attingere spacciandosi per neofascisti. Nel 1958 anche Valerio Borghese, ex eroe di guerra, ma mai stato fascista e che anzi i fascisti Rsi avevano messo in galera per le sue collusioni con la marina del Sud badogliana, dalle pagine del Secolo d’Italia sponsorizzo l’elezione del figlio del suo amico missista Franz Turchi. Nel 1959 Borghese vene espulso per indegnità dalla FNCRSI che non guardava in faccia a nessuno. 
Il Borghese , che nel 1970 si rese protagonista della pagliacciata del golpe destrista e para massonico alla “Vogliamo i colonnelli”, fondò allora la UNCRSI, una patetica associazione di reduci, che si distinse per mere attività reducistiche, messe, cene pellegrinaggi e rivendicazioni pensionistiche, e la cui unica politica era quella di fare da scorta elettorale per i missisti.
I fascisti della FNCRSI andarono avanti per la loro strada, quella della coerenza e della rivendicazione del fascismo socialista e repubblicano della RISI. Li troveremo negli anni ’70, con il loro gruppo giovanile Controcorrente, impegnati a rivendi are la socializzazione nelle aziende, a contestare l’oramai iniquo Concordato, a sostenere l’eroica lotta del popolo vietnamita contro gli yankee, le guerre di sopravvivenza e difesa del popolo arabo e dei palestinesi, a denunciare il patto Atlantico, a manifestare contro Nixon e la Nato, contro il Colonnelli greci, mentre il partito missista, falso neofascista, manifestava per Nixon, per la Nato, per Israele, per i colonnelli golpisti pro Cia e per il macellaio Pinochet.
Memorabile la stampa della FNCRSI dell’epoca, ancora oggi quasi tutta reperibile nel sito -http://fncrsi.altervista.org/ - dove si rivendicò il socialismo fascista, si precisò e si mise al bando il ruolo del franchismo in Spagna, una dittatura di pretacci e capitalsiti, si rivendicò la figura di Ernesto Che Guevara, nella comune guerra contro l’imperialismo yankee, si cimentò in una lotta ad oltranza contro i nostri colonizzatori americani .
Fu la strategia della tensione, lo stragismo, a cui vari personaggi della destra pseudo neofascista furono complici sotto il controllo dei Servizi, gli “anni di piombo” che posero politicamente fuori gioco la FNCRSI e la costrinsero a restringere le sue attività politiche per attestarsi nella pura testimonianza del fascismo repubblicano.
In quegli infami anni, oltretutto, era anche avvenuta un mutazione genetica: dopo oltre due decenni di missismo destrista, le nuove generazioni che negli anni ‘ 70 venivano prodotte da questo ambiente, tra rune, asce bipenne e croci celtiche, erano oramai espressione di un pur anticomunismo viscerale, carne da cannone per le carriere elettorali dei papponi della dirigenza missista.
Per la FNCRSI oramai il MSI e le sue appendici “extra” erano un nemico irriducibile, da contestare e combattere senza tregua, da indicare a tutti che dietro l’evolismo, il tricolore, le parole d’ordine di una politica destrista, pregna di odi demenziali come in un tifo da stadio, nulla più c’era di fascismo, se non i “saluti romani”.
Per le sinistre, i comunisti, la FNCRSI erano fascisti e basta, fascisti possibilmente da eliminare. 
E così mentre ragazzi giovanissimi, adolescenti, di destra e di sinistra, vennero fatti scannare, contrapposti in falsi e demenziali estremismi di comunismo - anticomunismo, finirono i galera o persero la vita, mentre i dirigenti missisti face vano carriera, mentre in Italia esplodevano bombe assassine di natura atlantica che ammazzavano o invalidavano i nostri concittadini, la FNCRSI si attesto irriducibile nella testimonianza del fascismo.
Oggi, come volevasi dimostrare, gli epigoni del missismo, esauritosi il serbatoio nostalgico a cui attingere per la pappatoia, hanno buttato a mare tutti gli orpelli, sono andati a Gerusalemme a fare ammenda, e hanno definito il fascismo il male assoluto. Nulla di straordianrio, nessun tradimento: è l’esatta prosecuzione del missismo reazionario, filo americano e filo israeliano. E soprattutto antifascista.
Gli ex combattenti, fondatori e militanti della FNCRSI, sono “andati oltre”, ma per noi sono SEMPRE PRESENTI, le loro posizioni intransigenti, la loro rivendicazione del fascismo repubblicano, la loro indicazione di lotta contro i nostri colonizzatori e il sionismo, prosegue con gli oggi non più giovani militanti del gruppo giovanile Fncrsi, Controcorrente e dai tanti che hanno percepito la politica e la testimonianza storica della FNCRSI proseguo nella lotta, tanto più oggi che, anche grazie alla infame politica delle destre, il paese ha perduto ogni minimo residuo della sua sovranità nazionale.

domenica 19 gennaio 2014

Ferdinando II. Un regno di progresso civile e materiale



Ferdinando II fu sicuramente il Re di Napoli più amato dai suoi sudditi, ed è per tal ragione ovviamente che a tutt'oggi risulta essere il sovrano più calunniato della storia, perché la storia fu scritta da coloro che portarono via il Regno a suo figlio, e lo portarono via tramite un'invasione a tradimento di uno Stato pacifico ed alleato, legittimo e benvoluto dai propri sudditi. Pertanto è chiaro che un tale atto poteva essere giustificato solo con l'accusa da parte dei vincitori di indegnità di governo verso la famiglia dei Borbone delle Due Sicilie. Insomma, per fornire una parvenza di giustificazione storica all'assalto piratesco del pacifico, alleato, legittimo e sette volte secolare Regno delle Due Sicilie, occorreva infangare la memoria dei detentori di quel Trono, ed in particolare la memoria del suo migliore e più recente esponente (essendo Francesco II appena salito al Trono e troppo giovane ancora per essere credibilmente calunniato).


Nella successiva voce dedicata a Francesco II e ai fatti storici che condussero alla caduta del Regno, approfondiremo gli eventi specifici della politica cavouriana, della spedizione dei Mille e della eroica resistenza borbonica. Per il momento, analizziamo la politica riformatrice svolta da Ferdinando II, in quanto in tal maniera si potrà ben capire perché fu il sovrano più amato dal suo popolo. I suoi calunniatori, vale a dire coloro che tramarono in maniera diretta o indiretta per la caduta del Regno, presentarono il suo governo come "la negazione di Dio", e da allora tutti i libri di storia scolastici e non solo continuano a ripetere stancamente le stesse calunnie indottrinate. Noi invece lasciamo la parola ad alcuni fra i più noti storici del Risorgimento antichi e recenti non supinamente allineati a tali menzogne per descrivere la vera personalità e il reale operato del sovrano.

Lo storico Angelantonio Spagnoletti (A. SPAGNOLETTI, "Storia del Regno delle Due Sicilie", Il Mulino, Bologna 1997, pp. 80-90) descrive la fama che circondava Ferdinando II fra i suoi sudditi. Sicuramente fu il più amato fra i Re Borbone di Napoli; egli sempre si preoccupò di alleviare le sofferenze delle sue popolazioni quando venivano colpite da terremoti, epidemie, andando di persona sul luogo, e spesso era presente in Sicilia per risolvere direttamente gli immancabili problemi con le difficili popolazioni locali (perfino Luigi Blanch riconosce l'attaccamento delle popolazioni al sovrano e Niccolò Tommaseo lo descrive come il migliore dei Principi italiani). Nei suoi viaggi viveva con i sudditi, faceva da testimone ai lori matrimoni e battesimi, lasciava loro denaro, ecc. Insomma, amava presentarsi come il Padre del suo popolo, che per lui era la sua famiglia. Commenta Spagnoletti (p. 88): «La calunnia sembrava accompagnare costantemente la vita e l'operato di Ferdinando II; ciò nonostante quella che gli ambienti filoborbonici costruivano era l'immagine di un sovrano virtuoso e leale, che aveva mantenuto in sé il valore, la clemenza e la religione dei suoi avi, aveva evitato il coinvolgimento del regno nei moti del 1830-'31 e, con quello, pericolose interferenze straniere, aveva difeso l'onore nazionale nella questione degli zolfi e, per questo, aveva dalla sua l'intero popolo napoletano che era quasi "immedesimato" nei pensieri del suo re». 

Scrive Carlo Alianello (C. ALIANELLO, "La conquista del Sud. Il Risorgimento nell'Italia meridionale" (1972), Rusconi, Milano 1998, pp. 121-126) riguardo le riforme e le innovazioni di Ferdinando II: «Volle strade, volle porti, volle bonifiche, ospizi e banche; poco sopportava una borghesia saccente e rapace, la cosiddetta borghesia dotta, i "galantuomini". E questa fu la sua grande "colpa". Fu un Re, ma non un "re borghese", come andava di moda a quei tempi. Fu un Re al servizio dei bisogni del suo popolo, e non degli interessi di quella classe "intellettualoide" che aveva aperto il Regno all'invasione del nemico francese e aveva di poi amoreggiato con l'usurpatore murattiano. Cercò piuttosto di creare una borghesia che mirasse al sodo. Non fu fortunato per la ragione che nel Napoletano altra borghesia non esisteva che quella delle professioni e degli studi, "pennaruli e pagliette", quelli che avevano cacciato suo nonno da Napoli, legati a fil doppio allo straniero per sole ragioni ideologiche che il Re, come re, non capiva; e l'avida schiera dei proprietari terrieri».

Dice F. Durelli (F. DURELLI, "Cenno storico di Ferdinando II, Re del Regno delle Due Sicilie", Stamperia Reale, Napoli 1859) che «In quattro anni soltanto, dal 1850 al 1854, furono reintegrati nei demani comunali più di 108.950 moggia di terreni usurpati e divisi in sorte ai bisognosi agricoltori»; continua Alianello: «Riporto dall'Almanacco reale del Regno delle Due Sicilie del 1854, dopo una lunga e particolareggiata lista d'istituti di credito e beneficenza, la seguente nota: "Si ha, oltre i luoghi pii ecc. ecc., pei domini continentali un totale di 761 di stabilimenti diversi di beneficenza, oltre 1131 monti frumentarii, ed oltre de' monti pecuniari, delle casse agrarie e di prestanza e degli asili infantili" (...) Per sua volontà si badò a costruire strade, che dalle 1505, quante se ne assommavano nel 1828, erano divenute nel 1855 la bellezza di 4587 miglia. E non straduzze da poco..». Erano l'Amalfitana, la Sorrentina, la Frentana, che fu interrotta per l'arrivo dei "liberatori"; l'hanno finita solo cento anni dopo. Poi la costiera adriatica, la Sora-Roma, l'Appulo-sannitica, che collegava Abruzzi e Capitanata, l'Aquilonia, che collegava Tirreno e Adriatico, la Sannita, da Campobasso a Termoli. Continua Durelli: «In breve dal '52 al '56, che sono solo quattro anni, furono costruite 76 strade nuove, di conto regio, provinciale e comunale. Moltissimi i ponti, e fra tutti il ponte sul Garigliano, sospeso a catene di ferro, che fu il primo di questa foggia in Italia, e tra i primissimi in Europa. Eppoi le bonifiche, l'inalveazione del fiume Pelino, la colmata dei pantani del lago di Salpi, la bonifica delle paludi campane (...) In 30 anni, la marina a vela raddoppiata, la marina a vapore creata dal nulla, che nel 1855 contava 472 navi, per 108.543 tonnellate, più 6 piroscafi a ruota, 6913 tonnellate di barchi diversi. E le scuole, i collegi nautici, le industrie».

Scrive Marta Petrusewicz, fornendo un quadro del suo regno, «(...) la popolazione in crescita, la tassazione ed il sistema doganale meglio regolati, ed il governo impegnato in un intervento intelligente di costruzione delle ferrovie e strade, manifatture reali e prigioni moderne» (M. PETRUSEWICZ, "Come il Meridione divenne una questione", Rubbettino, Catanzaro 1998, p. 37).

Per capire ancora meglio il personaggio, leggiamo quanto scrive lo zuavo pontificio (parla quindi per esperienza diretta) irlandese P.K. O'Clery, nella sua celebre opera sul Risorgimento (P.K. O' CLERY, "La Rivoluzione italiana. Come fu fatta l'unità della nazione", (I ed. 1875, 1892), Ed. Ares, Milano 2000, pp. 95-96). Appena salito al Trono, Ferdinando II concesse l'amnistia generale e così si regolava nelle sue azioni: «Per introdurre criteri di economia nelle finanze, Ferdinando ridusse di molto il proprio appannaggio, abolì diversi uffici inutili e alcune delle prerogative reali. Semplificò le procedure nelle Corti di giustizia, sostituì l'impopolare viceré di Sicilia, nominando suo fratello a tale carica e, allorquando viaggiava per il Regno, proibiva alle municipalità di farvi preparativi costosi per la sua venuta, accettando l'ospitalità di qualche residente, o prendendo dimora nella locanda di un villaggio o in un convento francescano. Non c'è da stupirsi che fosse un sovrano popolare». Da ricordare v'è anche che egli aderì nel 1838 agli accordi franco-britannici contro la tratta dei negri e sempre nello stesso anno stabilì pene severissime contro i duelli (sia la detenzione che la decadenza dagli ordini cavallereschi), anche per i padrini. Concesse l'aministia per i detenuti per ragioni politiche in Sicilia e grande autonomia giuridica ed amministativa all'isola; seguì inoltre personalmente la lotta alla feudalità. L'economia fu in continua crescita "malgrado le oscillazioni, la politica economica borbonica fu di una continuità notevole". (PETRUSEWICZ, "op. cit.", p. 72), e grande sviluppo ebbe la marina mercantile (CONIGLIO, op. cit., pp. 340-342).

Prendiamo ad esempio anche quanto scrive Angela Pellicciari (A. PELLICCIARI, "L'altro Risorgimento. Una guerra di religione dimenticata", Ed. Piemme, Casal Monferrato 2000, pp. 181-182). Nel Regno delle Due Sicilie, le spese previste sono sistematicamente superiori alle effettive; non si pagano tasse di successione, tasse sugli atti delle società per azioni e su quelli degli istituti di credito; il debito pubblico è minimo, l'imposta fondiaria lievissima, la Sicilia è esente dalla leva militare, dall'imposta sul sale e dal monopolio del tabacco; inoltre Ferdinando, come si trova scritto nella rivista "L'Armonia", ha «stabilito nei maggiori centri della popolazione monti frumentari per somministrare grano agli agricoltori da seminare e per mantenersi colle loro famiglie, tagliando così in pari tempo le gambe all'usura».

Tutto ciò è confermato anche da Giuseppe Paladino nella sua voce dedicata a Ferdinando II nell'Enciclopedia Italiana (Treccani), ove scrive: «Diede impulso a costruzioni di pubblica utilità. La prima ferrovia inaugurata in Italia fu la Napoli-Portici (1839). Ad essa seguì nel regno l'altro tronco Napoli-Capua. Sotto Ferdinando II fu ampliata la rete telegrafica a sistema elettrico (...) La marineria mercantile a vapore ricevette grande incremento; nel 1848 aveva il terzo posto per numero e armamento di navi. Una serie di trattati di commercio con l'Inghilterra, con la Francia, con la Sardegna inaugurarono un sistema illuminato di moderato protezionismo (1841-1845). Le finanze erano amministrate in modo mirabile: il contribuente napoletano pagava meno degli altri italiani...».

Per quanto riguarda l'amministrazione della giustizia, occorre ricordare che dopo la rivoluzione del '48 non sono state eseguite nel Regno di Napoli esecuzioni capitali (eccetto quella futura di Agesilao Milano). Delle 42 comminate dai tribunali, Ferdinando II ne commuta 19 in ergastolo, 11 in 30 anni ai ferri, 12 in pene minori (PETRUSEWICZ, "op. cit.", p. 114: come "Molti prigionieri, tra cui il De Sanctis e il Dragonetti, dopo aver scontato qualche anno di carcere, vennero deportati in apparenza in America, mentre le autorità sapevano benissimo che sarebbero sbarcati ‘en route' a Malta o in Inghilterra e si sarebbero rifugiati in qualche paese europeo"). Negli stessi anni il Re grazia 2713 condannati per reati politici, e 7181 per reati comuni, mentre dal '48 la statistica criminale nel Napoletano è in costante diminuzione. Quando si celebrò il processo a Settembrini e Spaventa per aver fondato la società segreta "Unità italiana", gli osservatori stranieri, seppur nemici dei Borbone, dovettero ammettere che il processo fu condotto con magistrale correttezza (M. PETRUSEWICZ, "op. cit.", p. 107: negli eventi del '48 a Napoli "Il sentimento prevalente, tanto nel governo quanto nell'opinione pubblica, non fu né repubblicano né anti-borbonico. A parte qualche repubblicano convinto, come Ricciardi, Saliceti e La Farina (il futuro ferreo sostenitore di Cavour), la maggioranza dei leaders (...) ritenevano che Ferdinando II fosse in grado di svolgere questo compito").

Del resto, così il giornalista francese Charles Garnier descrive la situazione del Regno nella sua "Memoria sul Regno delle Due Sicilie" (Parigi, 1866): «le imposte erano meno gravose di quelle del Piemonte e minori di quelle italiane degli anni postunitari; il credito del governo solido, il debito basso, la coscrizione molto più tollerabile; gran parte delle entrate erano spese nell'agricoltura e nei lavori pubblici, fra cui si ricordano la prima ferrovia e il primo telegrafo elettrico in Italia, e anche il primo ponte sospeso e i primi fari diottrici furono attuati nel Regno; e così il primo battello a vapore. Il commercio era in crescita, fiorenti le manifatture». Inoltre Garnier fornisce le prove di come nei primissimi anni unitari le manifatture del Sud furono distrutte per favorire quelle del Nord.

In generale, ai già più che eloquenti giudizi storici finora riportati, si può aggiungere che Ferdinando viaggiò molto per il Regno a visitare ospedali, carceri, campi di lavoro, ecc., al fine di sovvenire sempre di persona ai reali bisogni dei sudditi; per risparmiare e poter diminuire le tasse, oltre a ridurre le spese di Corte e quelle personali, ridusse lo stipendio dei ministri e stabilì contro la disoccupazione che la stessa persona non potesse ricoprire due cariche pubbliche; molti parchi di caccia reale furono restituiti all'agricoltura; sviluppò l'industria, specie quella tessile, fece costruire, oltre alle strade ed alle ferrovie prime elencate, porti, cantieri mercantili, ponti su fiumi, cimiteri fuori dell'abitato, ospedali, conservatori, orfanotrofi, asili infantili per fanciulli poveri, anche case di ricovero per malati di mente (abolì di fatto l'accattonaggio), case per fanciulle, carceri moderni e istituti per sordo-muti; curò la cultura fondando cattedre, aprì biblioteche, convitti, educandati, orti agrari e scuole gratuite; bonificò le terre delle paludi sipontine e l'isola di S. Stefano di fronte a Gaeta e introdusse nuove coltivazioni nel Regno; fondò istituti per incoraggiare l'intrapresa economica premiando con medaglie i migliori; ad ogni occasione (matrimoni reali, feste particolari, ecc.) elargiva donazioni per poveri e doti di matrimonio per fanciulle bisognose; quando vi erano epidemie di colera andava di persona negli ospedali, e così faceva anche quando vi erano terremoti e disastri naturali, soccorrendo materialmente i derelitti; d'altro canto rafforzò anche l'esercito e la marina militare, che divenne una delle prime in Europa. Molto altro vi sarebbe da dire. Ma appare chiaro come Ferdinando II fu la massima e più completa espressione di quel riformismo politico e sociale, inaugurato dal suo bisnonno Carlo, che caratterizzò sempre la Real Casa di Borbone delle Due Sicilie.

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