venerdì 31 agosto 2012

I CRIMINI DEI VINCITORI



di Giorgio Pisanò

Anche ammesso che le "verità" imposte sui crimini di guerra attribuiti ai tedeschi,a cominciare dal genocidio degli ebrei, siano tutte indiscutibili, sta di fatto che i crimini compiuti dai vincitori durante e dopo ilconflitto furono molto più numerosi e spaventosi: eccone un primo elenco.

È trascorso mezzo secolo dalla fine del secondo conflitto mondiale: mezzo secolo dominato dalla implacabile, martellante, quasi totalmente incontrastata valanga quotidiana di celebrazioni, rievocazioni, memoriali, ricostruzioni storiche e pseudostoriche degli eventi che dal 1939 al 1945 insanguinarono il mondo intero, ma soprattutto l'Europa e l'Asia.


Una valanga ampliata e moltiplicata dalla forza dirompente del mezzo televisivo che ha finito col plagiare i cervelli di almeno tre generazioni sulla base di un motivo dominante: vale a dire la barbarie, la ferocia disumana, la criminalità senza limiti dei vinti, responsabili di ogni nefandezza. Una barbarie sconfitta grazie al valore, alla disinteressata bontà, alla sconfinata umanità degli eroi belli, vendicatori e liberatori che, indossando le divise degli eserciti vincitori, seppero restituire ai popoli oppressi la possibilità di vivere in un mondo giusto e felice, sconfiggendo la delinquenza organizzata italo-tedesco-nipponica. E a dimostrazione e conferma di questa edificante favola, si riproducono ossessivamente, da cinquanta anni, soprattutto le immagini filmate dagli americani al loro arrivo in alcuni campi di concentramento tedeschi nei giorni conclusivi del conflitto.

Montagne di cadaveri, masse cenciose di agonizzanti, cumuli di occhiali, di capelli, di denti già appartenuti a uomini e donne spietatamente eliminati in nome di un'ideologia aberrante e dell'odio di razza. Forni crematori. Camere a gas. Tutto vero, certamente, fino a prova contraria. Che nessuno può azzardarsi ad avanzare perché, in Germania, è addirittura reato dubitare della totale autenticità di queste documentazioni prodotte e imposte, dal 1945 in poi, dai vincitori.

Ma nonostante la ferrea, quasi invalicabile barriera protettiva eretta dai vincitori a difesa della favola bella dei "liberatori" che sconfissero il Male con le armi della giustizia e della umanità, larghe crepe cominciano ormai a prodursi in questa muraglia, e l'opinione pubblica inizia a capire che la "verità protetta" imposta dai vincitori è cosa diversa dai fatti così come si svolsero e, soprattutto, inizia a comprendere che, dietro a quella "verità", nascosta da quella "verità", ce n'è un'altra, che affiora sconvolgente e atroce: la verità sui crimini dei vincitori. Inizia a capire, in poche parole, che i crimini dei vinti (e ne sono stati commessi, così come se ne commettono in tutte le guerre) sono stati moltipllcati, esasperati, deliberatamente gonfiati, anche inventati di sana pianta, al solo scopo di nascondere, o di fare dimenticare, ben altri, spaventosi crimini: i crimini, appunto, dei vincitori. Siamo così di fronte ad una materia esplosiva, che va portata alla luce dopo essere rimasta sepolta per mezzo secolo. Una materia che allinea centinaia di migliaia di episodi, di portata singola e collettiva, e che coinvolge la storia, finora sconosciuta, di popoli interi. Noi ci sforzeremo, nei prossimi numeri di questa pubblicazione, di documentare, per ora, i grandi episodi di criminalità di cui i vincitori si sono resi responsabili, e invitiamo i lettori che ne siano a conoscenza a collaborare con questa nostra opera di documentazione, segnalandoci fatti, situazioni, protagonisti e testimoni. Cominceremo così a creare un archivio da lasciare a coloro che, dopo di noi, vorranno fare luce completa su questa terrificante pagina di storia che offende l'intera umanità. Ecco, intanto, un primo elenco di crimini dei vincitori.

I BOMBARDAMENTI TERRORISTICI ANGLO AMERICANI SULLE CITTÀ ITALIANE DOPO LA RESA DELL'8 SETTEMBRE 1943

Furono migliaia. Solo nel 1944, gli angloamericani effettuarono sull'Italia centro-settentrionale, territorio della Repubblica Sociale Italiana, 4.541 incursioni, uccidendo 22.000 civili e ferendone oltre 36.000. Da ricordare, inoltre, nel 1943, proprio durante i quarantacinque giorni di Badoglio, i bombardamenti terroristici su Milano, Torino, Genova e, l'1 settembre, la distruzione di Pescara, città completamente senza difesa contro le incursioni aeree, e il bombardamento di Frascati, rasa al suolo con migliaia di morti, solo perché ai comandi alleati era giunta notizia che in quella cittadina laziale aveva sede il comando del Maresciallo Kesselring. Altro selvaggio crimine da ricordare è il bombardamento di Treviso che, il giorno di Venerdì Santo del 1944, venne distrutta da un feroce attacco aereo, senza che nella città avessero sede basi militari o comandi italo-tedeschi. Solo a guerra finita si seppe che l'incursione era stata decisa dopo che un'informazione, proveniente da fonte antifascista clandestina, aveva comunicato che quel giorno Mussolini e Hitler dovevano incontrarsi a Treviso. L'informazione era sbagliata. Quel giorno i due Capi di Stato si incontrarono sì, ma al confine di Tarvisio. La spia antifascista scambiò TREVISO per TARVISIO e quell'errore costò la vita a quattromila abitanti della città veneta.

LE "MAROCCHINATE" DI ESPERIA

Il crimine venne compiuto dalle truppe marocchine che, al comando del generale francese Juin, avevano combattuto a Cassino. Quale premio venne concesso loro il diritto di rapina e la libertà di disporre delle donne italiane. Fu così che duemila donne di Esperia, cittadina laziale ad ovest di Cassino, vennero selvaggiamente aggredite, stuprate, violentate dai soldati di colore. Tutte: dai dieci agli ottantatrè anni. L'episodio diede origine a un film famoso, interpretato da Sofia Loren, "La Ciociara", che però non diede assolutamente la misura dell'entità del crimine.

IL MARTIRIO DELLE DONNE DELLA SLESIA

Ma se duemila furono le donne italiane stuprate dai marocchini ad Esperia, di ben maggiore e apocalittica dimensione, fu la tragedia che si abbattè sulle donne tedesche della Slesia, dove vennero considerate "bottino di guerra" dalle truppe sovietiche conquistatrici, che ne violentarono, stuprarono e massacrarono oltre quattro milioni. E' una pagina, questa, sulla quale i vincitori hanno imposto per decenni il più totale silenzio. La tragedia iniziò quando la Slesia, regione orientale di confine della Germania, venne raggiunta e invasa dalle truppe dell'Armata Rossa che avanzavano verso occidente. In quelle terre martoriate non ci fu più legge umana né trattato internazionale che potesse valere, ma solo la legge della giungla e del terrore imposta dalle orde bolsceviche. Quattro milioni di donne violentate: quattro milioni di storie agghiaccianti che è vietato ricordare, delle quali esiste memoria scritta grazie alle autorità cattoliche della Germania Orientale che, nel dopoguerra, riuscirono a raccogliere testimonianze e documenti. Sull'argomento vennero infatti pubblicati, negli anni '50, alcuni "libri bianchi" a cura di monsignor Josef Perche, già vescovo di Breslavia al momento dell'occupazione sovietica.
Alcuni di questi libri giunsero, agli inizi degli Anni '60, anche in nostre mani, e fu così che venimmo a conoscenza di questa terrificante pagina di storia, che cercammo di rendere nota dedicandovi " alcuni articoli sul settimanale "Candido". Ma la verità intera potrà diventare di pubblico dominio solo quando i tedeschi della Germania unificata si scrolleranno di dosso quel complesso di inferiorità che grava su di loro dai giorni della sconfitta e si decideranno a rivedere la loro storia, nel bene e nel male, documentando finalmente la verità per quanto riguarda non solo l' "olocausto" degli ebrei nei loro lager, ma anche l'olocausto della loro gente per mano di nemici spietati e criminali.


IL MASSACRO DEGLI INNOCENTI

Erano bambini tedeschi, ancora abbastanza piccoli e leggeri da poter essere presi per i piedi, roteati in aria e scagliati con la testa a fracassarsi contro le ruote dei carri che li trasportavano. Questa fu la sorte spaventosa di migliaia di bambini tedeschi, in fuga con le loro famiglie dalle terre orientali della Germania verso occidente in lunghe colonne di carri trainati da buoi. Decine di migliaia di carri, centinaia di migliaia di donne e bambini terrorizzati, mentre gli uomini continuavano a combattere e a morire nell'illusione di contenere l'avanzata sovietica. Ma la marcia di queste colonne venne quasi sempre bloccata dai comunisti polacchi che controllavano ormai, in quelle ultime settimane di guerra, gran parte del territorio già occupato dai tedeschi nel 1939. A quei posti di blocco furono compiute atrocità inimmaginabili. Fucilazioni in massa dei profughi, stupri e violenze sulle donne indifese e, soprattutto, l'eliminazione sistematica dei bambini tedeschi perché si spegnesse il "seme del popolo germanico".
Anche su questa allucinante pagina di storia è d'obbligo il silenzio da cinquantanni. Un silenzio rotto solamente una decina di anni or sono da un documentato libro di Picene Chiodo, edito dalla Mursia, intitolato "E malediranno l'ora in cui partorirono", ma sul quale la pseudo­cultura antifascista ha fatto scendere un sudario tombale.


LE FOSSE DI KATYN

Le scoprirono i tedeschi, per caso, nel 1943 nel territorio polacco già occupato dai sovietici nel 1939: oltre 14.000 cadaveri mummificati in fosse di circa 30 metri per 16. Erano i cadaveri degli ufficiali polacchi catturati dai russi nel 1939. Indossavano tutti le loro divise. Avevano tutti le mani legate dietro alla schiena e presentavano, ognuno, un foro di proiettile alla nuca. I tedeschi denunciarono al mondo, con ampia documentazione, la spaventosa realtà e la fecero analizzare da una commissione della Croce Rossa internazionale. La conclusione fu che lo spaventoso massacro era stato deciso ed attuato dai sovietici che avevano voluto così eliminare spietatamente la classe borghese, vale a dire la classe dirigente polacca, interamente cattolica e anticomunista. La commissione della Croce Rossa giunse anche ad accertare che il massacro era stato attuato da speciali reparti della "Ghepeù" (la polizia segreta sovietica) nelle prime settimane del 1940, poco dopo la resa dell'Armata polacca. Ma i russi gridarono subito che la slrage di Kalyn l'avevano compiute i tedeschi: i loro alleali liberalcapitalisli, nonostante conoscessero perfettamente la verità, si adeguarono al loro volere. Così, per decenni, i 14.000 assassinati di Katyn furono attribuiti ai tedeschi.
Invece erano stati i comunisti, per ordine di Stalin. Oggi la verità si è fatta strada, anche perché i polacchi hanno trasformato la foreste di Kalyn in una selva di croci e di lapidi commemorative, molte ferocemente anticomunisle. Ma c'è ancora qualcuno, qui in Italia, imbevuto di quella subcultura "sessantonina" che discende dal pianeta delle scimmie, il quale osa sostenere che le fosse di Katyn le hanno fatte i tedeschi per darne poi la colpa ai sovietici.

SIR ARTHUR HARRIS, IL MACELLAIO DI DRESDA E AMBURGO

Sir Harris fu il capo dei bombardieri inglesi che distrassero le città tedesche, massacrando oltre cinque milioni di civili. Fu lui ad inventare la "feuerslurm", vale a dire la "tempeste di fuoco", che si otteneva con l'infernale alternanza di bombe incendiarie e bombe dirompenti. E fu lui ad essere soprannominalo, dai suoi stessi uomini, "il macellaio". La sua impresa più "epica" resta il bombardamento di Dresda la notte del 13 febbraio 1945, quando la guerra slava per finire. La spaventosa notte di Dresda fu realizzala lanciando sulla città che, completamente priva di difesa antiaerea, contava 600.000 abitanti e ospitava 650.000 profughi dalle terre orientali già occupate dai russi, tre ondate successive di 244, 529 e 450 bombardieri quadrimotori. Dresda, gioiello dell'arte e della cultura germanica, divampò come un braciere. Tra le fiamme morirono dai 135.000 (secondo le storico inglese Irving) ai 270.000 civili (secondo la Croce Rossa Internazionale). Ma la notte di Dresda era già stata preceduta, tra il 25 luglio e il 3 agosto del 1943, da un primo, spaventoso esperimento di "tempeste di fuoco": vale a dire il bombardamento di Amburgo. Cinque notti di incursioni continue condotte da 3.095 bombardieri che avevano sgancialo 9.000 tonnellate di bombe, massacrando 55.000 civili. A sir Arthur Harris, "il macellaio", gli inglesi hanno recentemente dedicalo un monumento. Ma i tedeschi stanno facendo di Dresda il simbolo dell'olocausto tedesco. Uri olocausto terribilmente autentico.

L'ELIMINAZIONE PER FAME DI UN MILIONE DI PRIGIONIERI TEDESCHI

Fu Ike Eisenhower, il comandante in capo dei "liberatori", a volerlo: fece morire di fame, di stenti e di malattie un milione di soldati tedeschi, prigionieri di guerra e rinchiusi nei campi di concentramento americani in Europa. Lo ha documentato, in un recente libro edito dalla Mursia e intitolato "Gli altri lager", lo scrittore canadese James Baque.

LE FOIBE

Adesso finalmente si comincia a parlarne. Ma per oltre quarant'anni, solo noi giornalisti e scrittori liberi da ogni condizionamento antifascista, ne abbiamo documentato l'esistenza. Ottenendo l'unico risultato di vedere inventare un "campo di sterminio", mai esistito, nella ex Risiera di San Sabba a Trieste: inventato negli anni '60 e costruito con cento milioni
stanziati dal Comune di Trieste al solo scopo di far dimenticare, con la storia fasulla di quattromila "martiri antifascisti" altrettanto fasulli, la verità vera delle foibe carsiche e dei 10.000 italiani che vi furono scaraventati dentro.

Ma c'è ancora tanto da scoprire sui campi di sterminio jugoslavi dove i comunisti titini, a guerra finita, hanno massacrato altre migliaia di italiani.

L'OLOCAUSTO DEI FASCISTI REPUBBLICANI

Aprile - maggio 1945: oltre cinquantamila assassinati in pochi giorni nelle strade e nelle piazze dell'Italia del Nord. Ma gli italiani ancora non sanno che cosa accadde veramente in quella primavera di sangue. Bisogna intensificare gli sforzi perché tutti, un giorno,possano sapere tutto. E giudicare.

LE BOMBE ATOMICHE DI HIROSHIMA E NAGASAKI

Cercano di non parlarne mai. E quando sono costretti a parlarne, gli americani sostengono che quelle bombe le sganciarono con le lacrime agli occhi, ma solo per fare finire presto la guerra. Balle. Le sganciarono perché le avevano costruite e perché vollero usarle. E una realtà è certa: anche ammesso, ma non concesso, che i tedeschi abbiano commesso tutti i
crimini loro attribuiti, sta dì fatto che solo gli americani sono riusciti a massacrare quasi duecentomila innocenti in soli due secondi.



da www.kommandofascista.cjb.net


mercoledì 29 agosto 2012

O la Costituzione della Repubblica Italiana o l’Unione Europea


di Stefano D’Andrea*
1. Breve premessa.

L’Unione Europea è una organizzazione internazionale. Ad essa si è dato vita mediante la stipulazione di Trattati internazionali.
I Trattati prevedono materie di competenza della UE e organi destinati ad emanare norme vincolanti ora per gli Stati ora per i cittadini degli Stati membri. Le materie di competenze della UE sono in espansione continua, man mano che i Trattati sono modificati. Al di là delle precise previsioni dei Trattati, la giurisprudenza della Corte di Giustizia europea, alla quale è riservata la decisione ultima sulle competenze della UE, tende da sempre ad espandere le competenze degli organi UE, ben al di là dei limiti, semantici e logico-giuridici, che discenderebbero dalle disposizioni dei Trattati.
Le (sempre più) ampie competenze della UE non tolgono che quest’ultima sia e resti fondata su accordi internazionali e pertanto abbia natura internazionalistica. L’UE esiste perché gli Stati membri vogliono questa forma di cooperazione. Gli Stati membri restano (formalmente) sovrani. La Corte Costituzionale tedesca in una sentenza del 2003 ha affermato con chiarezza che gli Stati membri sono i “padroni dei trattati”; e ha ribadito il concetto nella sentenza del 30 giugno 2009, pronunciata con riguardo alla legge tedesca di esecuzione del trattato di Lisbona.
Fino a quando uno Stato membro non esce dai trattati europei, il diritto dei trattati e quello “derivato”, emanato dagli organi previsti nei trattati medesimi, prevalgono sul diritto degli Stati membri, comprese le norme costituzionali (o meglio, comprese le norme costituzionali che disciplinano i rapporti economici). Il diritto della UE prevale sul diritto interno. Oggi, in seguito alla modifica dell’art. 117 della Costituzione (voluta e introdotta dal centro-sinistra), le norme di tutti i trattati internazionali ai quali sia stata data attuazione, e in particolare le norme di “diritto comunitario” (specificamente menzionato nell’art. 117 Cost.), prevalgono su quelle contenute in leggi ordinarie, sia anteriori che successive (Corte Cost. 348/2007; e Corte Cost. 349/2007), senza che sia più necessario porre in essere le piroette logico-giuridiche compiute in precedenza per giustificare soluzioni che, sotto il profilo tecnico, non stavano né in cielo né in terra. La possibile e necessaria interpretazione restrittiva dell’art. 117, suggerita da autorevoli dottrine, non nega quanto ho appena affermato.
Insomma, oggi è indubbio che il Parlamento italiano non può derogare ad una norma dei Trattati europei o a una norma introdotta dagli organi europei nemmeno all’unanimità. Uscire dai trattai europei o soggiacere; questa è l’alternativa a nostra disposizione. Il diritto interno contrario al diritto della UE o deve essere disapplicato dai giudici nazionali o comporta sanzioni per lo Stato italiano, comminate dalla UE. La modifica dei trattati, invece, non è nella nostra possibilità. Le modifiche richiedono il consenso di tutti gli Stati che hanno stipulato i trattati (ciò è vero anche per le “procedure di revisione semplificate”, perché esse prevedono la possibilità di atti di dissenso dei Parlamenti nazionali: art. 48 TUE).  

2. Il diritto della UE e il diritto costituzionale italiano

Come ho accennato, la prevalenza del diritto europeo sul diritto italiano riguarda anche il diritto costituzionale italiano, sia pure con taluni limiti.
La Corte Costituzionale Italiana ha da lungo tempo affermato e più volte ribadito che la prevalenza del diritto dell’Unione Europea trova un limite “nell’intangibilità dei principi e dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione” (dopo l’introduzione del nuovo art. 117, 1° co., cost., si veda Corte Cost. 348/2007; in altre precedenti sentenze il limite era enunciato con diversa formula: “i principi fondamentali del nostro ordinamento o i diritti inalienabili della persona umana”). La Corte Costituzionale, in questa materia, si riserva di giudicare costituzionalmente illegittima una norma UE contraria a “i principi fondamentali del nostro ordinamento o i diritti inalienabili della persona umana”.
La Corte Costituzionale ha anche creduto, in tempi risalenti, che “appare difficile configurare anche in astratto l’ipotesi che un regolamento comunitario possa incidere in materia di rapporti civili, etico sociali, politici, con disposizioni contrastanti con la Costituzione” (Corte Cost. 183/1973).
Non interessa in questa sede verificare se i principi di libertà siano stati toccati da uno o altro regolamento UE (in dottrina si crede che in un paio di occasioni siano stati almeno sfiorati), quanto osservare che la sentenza del 1973 non menzionava i “rapporti economici”. Se sfogliamo la Costituzione italiana, ci accorgiamo che, dopo il titolo I della parte I, dedicato ai rapporti civili e il titolo II dedicato ai rapporti etico sociali, prima del titolo IV dedicato ai rapporti politici, c’è il titolo III, dedicato ai rapporti economici (artt. 35-47).
La Corte Costituzionale non era incorsa in una dimenticanza; anzi voleva proprio precisare che con l’(allora) art. 189 del Trattato di Roma era stata limitata la sovranità in materia di rapporti economici.
La verità è che in materia di rapporti economici non ha senso indagare se i Trattai europei e la normativa europea derivata contrastino sotto uno o altro profilo con i principi costituzionali. Semplicemente siamo in presenza di due programmi radicalmente antitetici e quindi alternativi (N. IRTI, L’ordine giuridico del mercato, Roma-Bari, 1998, pp. 22 ss.) O il legislatore applica il primo e tradisce il secondo. O applica il secondo e tradisce il primo.
Confrontiamo i due programmi, con la stringatezza imposta dall’occasione. 
Non mi soffermo sul preteso fondamento giuridico della prevalenza dei Trattati europei rispetto alle norme della costituzione economica. Mi limito semplicemente a constatare e tra breve ad illustrare che quella prevalenza è un fatto, il quale ha una portata molto maggiore rispetto a quanto si creda comunemente, anche nella dottrina critica.

3. Il programma costituzionale in materia di rapporti economici

La norma fondamentale della nostra Costituzione –a mio parere della Costituzione intera e non soltanto del gruppo di norme che disciplinano i rapporti economici– è posta dall’art. 41. Proprio quell’articolo che alcuni vorrebbero modificare.
La norma fondamentale non risiede, come si crede, nel secondo  comma dell’art. 41, il quale precisa che l’iniziativa economica privata, che il primo comma dichiara libera, “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana”. I principi espressi nel secondo comma sono evidentemente deducibili da altre norme ed è difficile pensare che, abrogando il secondo comma dell’art. 41 cost., nel nostro ordinamento l’iniziativa economica potrebbe svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o sacrificando la sicurezza, la libertà e la dignità umana. Naturalmente, resta salvo il problema del significato delle formule vaghe –si tratta di clausole generali– che esprimono i limiti (“utilità sociale”, “dignità umana”, ecc). Un significato che va viepiù  restringendosi, anche e soprattutto nella coscienza sociale dominante, man mano che la logica necrofila del capitale, promossa dai mezzi di formazione dell’opinione pubblica, da ideologie insegnate nelle università e dai mutamenti dell’ordine giuridico, penetra nell’animo e nelle menti dei cittadini italiani.
La norma fondamentale della nostra Costituzione è espressa nel terzo comma dell’art. 41: “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. Con questa norma i costituenti sceglievano un modello dirigista (N. IRTI, L’ordine giuridico del mercato, op. loc. cit.), un dirigismo che deve svolgersi nel rispetto della sacrosanta tutela costituzionale dell’iniziativa economica privata, ma pur sempre di direzione politica dell’economia si tratta.
L’insieme dei principi e dei valori espressi dalle altre norme del titolo (nonché altri principi e valori che trovano fondamento in altri luoghi della costituzione) non sono affidati al mercato, al libero incontro e scontro delle forze e quindi di fatto e di diritto al dominio del capitale. Sono invece realizzati mediante un programma. Il programma si esprime mediante prese di posizione e interventi. Questa norma dice chiaramente che l’attività economica soggiace alla decisione politica, la quale si esprime nella legge. Lo Stato è consapevole della forza del denaro, vi si oppone e, pur utilizzandola, la disciplina.
Ferma la libertà d’iniziativa economica privata e fermi i limiti sanciti nel secondo comma dell’art. 41 Cost., lo Stato, per mezzo della legge, programmava chi produceva determinati beni e servizi; cosa si produceva e vendeva; cosa non si doveva produrre e vendere; come si produceva e vendeva.
Lo Stato si riservava di stabilire prezzi equi per beni e servizi essenziali (equo canone e scala mobile, per esempio). Legiferava per realizzare i valori costituzionali e, per raggiungere l’obiettivo, poteva prevedere monopoli pubblici, discipline vincolistiche in settori economici di rilevanza pubblica, imporre prezzi minimi e massimi, imporre dazi all’importazione o all’esportazione, e altri strumenti di protezione di uno o altro settore dell’industria italiana.
Lo Stato, desideroso di tassare le rendite e i grandi patrimoni o i grandi centri di produzione di profitti, poteva limitare o vietare la libera circolazione dei capitali, al fine di impedirne la fuga, in caso di aumento dell’imposizione. La legge poteva prevedere aiuti di Stato a tipi di industrie e attività; vietare la produzione e la commercializzazione nel territorio dello Stato di determinati beni; ignorare il valore della concorrenza  -ignorare la concorrenza non significa imporre in ogni settore monopoli o oligopoli, bensì, semplicemente, non perseguire ossessivamente la concorrenza e preferire una sana e regolata competizione (1); condizionare l’esercizio di attività commerciali a licenze e autorizzazioni di vario tipo a tutela di uno o altro interesse; prevedere minimi tariffari nell’esercizio delle professioni, vietare la pubblicità delle attività professionali; accettare una inflazione modesta (o relativamente modesta) a tutela dell’occupazione (e quindi dei salari); limitare il potere delle banche commerciali di creare denaro, fissando un’alta riserva frazionaria (intorno al 25% fino alla metà degli anni Ottanta); consentire il finanziamento, attraverso le banche commerciali, soltanto della produzione e non del consumo (come avveniva fino alla seconda metà degli anni Ottanta); perseguire l’autosufficienza alimentare della nazione e pertanto tutelare in modo assoluto l’agricoltura. Lo Stato poteva fare ed effettivamente fece gran parte di ciò che ho indicato e molto altro. Ciò che non fece non deve essere imputato al programma economico costituzionale; bensì alla volontà politica che, pure nella dialettica politica del tempo, risultò dominante. 

4. Il programma della UE in materia di rapporti economici

Quello che ho descritto nel paragrafo precedente è l’esatto contrario del modello prefigurato nei Trattati istitutivi dell’Unione Europea. Infatti, “L’Unione instaura un mercato interno” (art. 3, n. 3, 1° co., TUE). Il mercato interno  “comporta uno spazio senza frontiere interne nel quale è assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali” (art. 26, n. 2 TFUE).
L’UE è una “unione doganale” (artt. 30 ss. TFUE). L’Unione doganale implica un limite di sovranità molto maggiore rispetto alle zone di libero scambio (per esempio il NAFTA), perché queste ultime lasciano la libertà di porre tariffe doganali verso l’esterno e consentono una politica commerciale autonoma ai singoli Stati partecipanti. Ciò non accade con le unioni doganali, che vincolano anche verso l’esterno e privano gli Stati di una autonoma politica commerciale. La tariffa doganale comune la stabilisce il Consiglio Europeo a maggioranza qualificata su proposta della Commissione Europea. A rigore, l’Unione doganale non comporta un semplice limite alla sovranità, bensì la totale perdita della sovranità nel campo della politica commerciale. Va detto che si è arrivati a questa vera e propria forma di fanatismo della libera circolazione delle merci in modo graduale e si è pienamente conseguito il risultato diabolico soltanto nel 1993. Direi che è stato un lungo cammino verso l’adorazione di Satana.
Il valore supremo della UE è “la concorrenza”. Il termine e il concetto erano assenti nella Costituzione della Repubblica Italiana. La concorrenza è un valore che la UE promuove in ogni modo, anche se poi, quando ci sarebbero valori da difendere promuovendola, l’UE furbescamente si ritrae. Per recare un esempio, esistono ben due regolamenti UE (nn. 4087/1988 e 2790/99) che direttamente o indirettamente tutelano il “franchising”, il quale è un chiaro strumento per evitare non soltanto la concorrenza ma anche una sana competizione tra commercianti.
Lasciando da parte l’ipocrisia del diritto anticoncorrenziale, osservo che la disciplina europea della concorrenza si compone, oltre che di norme rivolte alle imprese, anche di norme rivolte agli Stati.  In particolare, l’art. 106, n. 2 del TUE, prevede che “Le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale sono sottoposte alle norme dei trattati, e in particolare alle regole della concorrenza, nei limiti in cui l’applicazione di tali norme non osti all’adempimento in linea di diritto o di fatto, della specifica missione loro affidata. Lo sviluppo degli scambi non deve essere compromesso in misura contraria agli interessi dell’Unione”. Inutile dire che la definizione di cosa sia  un “servizio essenziale” spetta alla Corte di Giustizia europea e che trattandosi di una deroga alle norme sulla concorrenza la nozione è interpretata restrittivamente. Anche il controllo sul superamento della misura necessaria a svolgere la missione è attribuito alla Corte di Giustizia. Si tratta di limiti all’azione pubblica (o svolta nell’interesse pubblico) del tutto ignoti alla nostra Costituzione.
Inoltre, in materia di banche e intermediari finanziari, l’Italia ha perduto ogni potere normativo (salvo quello di applicare i principi UE): non può alzare la riserva frazionaria; non può separare le banche d’affari dalle banche commerciali; non può imporre speciali vincoli di portafoglio alle banche commerciali italiane (per esempio: detenere  titoli del debito pubblico italiani); non può organizzare il credito secondo principi razionali, distinguendo (come prevedeva la vecchia legislazione italiana) tra istituti che erogano credito a lungo termine, istituti che erogano a medio termine e istituti che erogano a breve termine. La segnalata impossibilità è in gran parte di diritto, perché l’ordinamento italiano ha perduto la competenza o non potrebbe comunque disporre in contrasto con il diritto della UE. Per altra parte, è impossibilità di fatto, perché le discipline che sarebbe opportuno introdurre renderebbero meno competitive le banche italiane e quindi imporrebbero contestualmente limiti alle banche straniere o tutele delle banche italiane che il diritto europeo della concorrenza non consente.
Il dogma della concorrenza è poi la matrice della disciplina che pone il divieto di “aiuti di Stato” (art. 107 TFUE), nozione vaga che ovviamente è interpretata estensivamente (quindi ampliando il divieto) e il cui contenuto dipende, in definitiva, dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia europea. Ne consegue che se il popolo italiano intendesse investire enormi somme in un nuovo settore e “aiutare” le imprese italiane, pubbliche o private, che operassero in quel settore, le leggi italiane dovrebbero essere disapplicate e lo Stato italiano sarebbe sanzionato dagli organi competenti della UE.
Il divieto di aiuti di Stato e di ogni altra forma di “protezione” di settori economici rende pure declamazioni irrealizzabili le proposte di promozione di un ritorno a forme di agricoltura contadina, così come pressoché tutte le politiche industriali un tempo praticate dai governi italiani.
Per quanto riguarda i movimenti dei capitali (“operazioni finanziarie che riguardano essenzialmente la collocazione o l’importo di cui trattasi e non il corrispettivo di una prestazione”: Corte di giustizia 31 gennaio 1984, Luisi e Carbone), l’art. 63 del TFUE ne vieta “tutte le restrizioni… tra Stati membri nonché tra Stati membri e paesi terzi”. Identico principio è posto per i pagamenti (“sono trasferimenti di valuta che costituiscono una controprestazione nell’ambito di un negozio sottostante”: Corte di giustizia 31 gennaio 1984, Luisi e Carbone). Anche in questa materia, alla completa adorazione di Satana si è giunti dopo molti anni, per effetto della direttiva del Consiglio n. 88/361 del 24 giugno 1988 e poi con il Trattato di Maastricht.
Il divieto di tutte le restrizioni ai movimenti di capitali è mortale per ogni idea, anche vaga e moderata di “economia sociale e popolare”; inizialmente, forse, soltanto per gli Stati europei meno produttivi; ma alla lunga per tutti gli Stati. Per recare un solo macroscopico esempio, esso rende del tutto impossibile per i singoli Stati, in via di fatto, introdurre regimi giuridici che prevedono una effettiva progressività nella tassazione dei redditi, degli utili sociali e soprattutto delle rendite. Per introdurre un tale regime impositivo, infatti, uno Stato è costretto a limitare la libera circolazione dei capitali. Diversamente, i capitali fuggirebbero. Il divieto di restrizione ai movimenti dei capitali è un modo elegante e ipocrita per decretare la concorrenza fiscale tra gli Stati europei.
L’unione monetaria ha sottratto agli Stati anche il potere di svalutare la propria moneta e anzi ha sottratto agli Stati la moneta.
L’unione monetaria è stata un grave errore tecnico, non soltanto politico. Gli Stati del sud Europa hanno perduto la possibilità di svalutare, per promuovere le esportazioni e soprattutto per rendere competitive le imprese nazionali. In caso di svalutazione, la produzione nazionale è più economica rispetto a quella straniera, perché per le imprese nazionali, che in precedenza acquistavano beni strumentali all’estero o che erano solite vendere beni importati, i beni stranieri aumentano di prezzo in misura pressoché corrispondente alla svalutazione (l’impresa nazionale che intendesse acquistarli dovrebbe acquistare con la moneta nazionale svalutata la moneta straniera necessaria per acquistare i beni stranieri).
A causa dell’unione monetaria, gli Stati del sud Europa sono divenuti debitori cronici nei confronti di quelli del nord e segnatamente della Germania: si indebitano con la Germania, per acquistare beni tedeschi! Un tempo, invece, accadeva che la richiesta di beni tedeschi e di marchi per acquistarli portava a un aumento dei prezzi dei beni tedeschi, con la conseguenza che i beni prodotti dagli Stati del sud Europa ridivenivano competitivi. Oggi, la moneta unica impedisce l’aumento dei prezzi dei beni tedeschi e quindi il riequilibrio commerciale. Ovvio, poi, che i tedeschi abbiano limitato le vacanze che un tempo trascorrevano in massa in Italia, in ragione dei (per loro) bassi prezzi, che non sono più tali!
In questa sede non interessa indagare se gli svantaggi siano stati complessivamente superiori o inferiori ai vantaggi, tanto propagandati. Interessa soltanto sottolineare che l’Unione monetaria ha sottratto agli Stati e ai popoli europei ulteriori poteri.

5. Conclusioni

Anche un ingenuo comprende che il modello di disciplina dei rapporti economici prefigurato nella Costituzione e quello prefigurato nei Trattati europei sono antitetici. Ciò che dobbiamo sapere,  e dobbiamo ripetere fino alla nausea, è che il Parlamento italiano non può violare i Trattati europei e il diritto derivato, nemmeno all’unanimità e nemmeno modificando la Costituzione. Perciò, per attuare o per non violare il diritto dei Trattati europei e il diritto derivato, il Parlamento deve rinunciare ad attuare il programma costituzionale e deve rinunciare a dirigere la vita del popolo italiano. Oramai da venti anni la rinuncia è sistemica e senza eccezioni.
Coloro che innalzano il vessillo della Costituzione della Repubblica Italiana e non si pongono l’obiettivo di uscire dalla UE o sono ingenui e non consapevoli della prigione nella quale è stata rinchiusa la parte più nobile e moderna della nostra Costituzione, o sono ipocriti in mala fede, privi di coraggio e non degni di candidarsi al ruolo di classe dirigente della nazione.
L’UE è una organizzazione internazionale nata per distruggere gli Stati europei e per dissolvere i popoli europei in masse di consumatori anonimi, in balìa del mercato globale e del potere del capitale. L’UE non è altro che un insieme di vincoli per i popoli e quindi per gli Stati europei. Per il momento gli effetti deleteri della UE si sono verificati soprattutto nei paesi del Sud Europa. Ma essi non tarderanno ad apparire anche negli altri paesi.
Divieti di restringere la circolazione dei capitali, dei servizi, delle merci e dei lavoratori. Divieto di disciplinare in uno o altro modo i diversi settori economici, per rispettare l’obbligo di adeguarsi al dogma della concorrenza totale, ossia al “valore” della guerra totale permanente. Divieto di perseguire la piena occupazione sopportando il costo di qualche punto d’inflazione; dunque divieto di evitare la deflazione salariale. Vincoli esterni alla spesa pubblica, anche in periodi di recessione, a costo di sprofondare in una grande depressione. Impossibilità di svalutare la moneta. L’Unione Europea è l’insieme di questi vincoli e niente altro. L’Unione Europea è la più potente delle armi utilizzate dal neoliberismo per lanciare contro i popoli, le nazioni, le culture e i mercati nazionali la quarta guerra mondiale (secondo l’acuta analisi e la terminologia del comandante Marcos).
Sono vincoli pensati e voluti per uccidere Stati e Popoli. Dalla metà degli anni Ottanta i principi fondanti della UE (che altro non sono se non divieti e limiti per Stati e popoli) sono stati estesi e privati di eccezioni, dando così vita, anche in ragione dell’introduzione della moneta unica, a un veleno micidiale che aspira a uccidere nazioni secolari e millenarie.
Il destino al quale i popoli del sud Europa sono chiamati è la liberazione dalle catene imposte dalla UE, le quali, dopo averli indotti, con conseguenze culturali e antropologiche gravissime, all’indebitamento (privato – il problema è l’indebitamento privato, non quello pubblico!) e al conseguente impoverimento, hanno fatto ad essi conoscere finanche il disonore del commissariamento.
Inoltre, con specifico riguardo all’Italia, la UE, ostacolando la coesione non soltanto sociale ma anche territoriale –in Italia la questione sociale coincide in parte con la questione meridionale– è un cancro che sta colpendo l’unità della nazione.
Recedere dai trattati europei (e dal WTO, che pone regole molto simili a quelle della UE) e attuare il modello dirigista previsto nella nostra costituzione economica, questo è il programma che deve essere accettato da tutti i patrioti italiani. Invece, come debba essere applicato il modello dirigista prefigurato nella nostra Costituzione, lo deciderà democraticamente il popolo italiano quando avrà riconquistato la piena sovranità. Dividerci oggi sul come attuare un potere che non ci è dato e che non potremo utilizzare fino a quando non sarà stata completamente riconquistata la sovranità, è atteggiamento ingenuo, infantile, massimalista e gruppettaro (da gruppetti di sinistra degli anni Settanta), che deve essere assolutamente evitato e censurato.

* Pubblicato su Indipendenza n. 31 – novembre/dicembre 2011

http://www.riconquistarelasovranita.it/?p=191

domenica 26 agosto 2012

CULTURA E LIBERTÀ



di Alessandro Mezzano 
 
 Insomma, la libertà vera è libertà di scelta e la libertà di scelta si realizza soltanto quando il giudizio che la determina non è viziato né da ignoranza, né da condizionamenti.
Per poter scegliere sono necessarie tante cose, ma principalmente: gli strumenti e le opportunità!

Gli strumenti sono la cultura generale e non specializzata, quella che la scuola dovrebbe dare (e che una volta dava) a tutti gli studenti e che faceva da cornice e da terreno di cultura all’istruzione più specifica, quella cultura che non dà nozioni, ma apre la mente ed insegna a pensare, quella cultura che è il risultato dello studio del Greco, del Latino, della letteratura, della filosofia e di tutte le discipline che, a ragion veduta, sono chiamate “Umanistiche”, quella cultura insomma che le moderne teorie di un utilitarismo miope e stupido definiscono “Inutile” perché non insegna a costruire un’automobile, a programmare un computer od a sintetizzare un fertilizzante.
Le opportunità sono, sarebbero, la possibilità di uscire dalla tutela psicologica del “pensiero unico” imposto dalle oligarchie economiche-finanziarie che ce lo inculcano con la martellante azione mediatica e pubblicitaria che mira a convogliare in un unico fiume omogeneo la vita e l’azione dei Cittadini che diventano così meglio prevedibili e governabili per ottenere la realizzazione di progetti che sono nell’interesse delle suddette oligarchie, ma che sono spesso contrari agli interessi dei Cittadini.

Nella realtà di questa nostra società abbiamo invece una scuola che non prepara e non insegna a pensare e che produce laureati istruiti ma non colti, quasi robot specializzatissimi che diventano, nella logica dell’economia di chi li userà, niente di più che schiavi di serie A da porre accanto alla massa scarsamente istruita e poco scolarizzata che costituisce la categoria degli schiavi di serie B.
Il tutto è congeniale a questa società retta da quelle oligarchie di cui si parlava dianzi, che hanno loro piani strategici per realizzare progetti e servire interessi che sono privati e non pubblici con i quali, anzi, spesso configgono.

D’altra parte, per il raggiungimento di tali obiettivi, è necessaria la collaborazione passiva di tutti ed ecco quindi la necessità di poter manovrare le masse senza che queste si pongano troppe domande, il che diventa molto più facile se la capacità di giudizio critico è ridotta al minimo.
Insomma, meglio una massa di rincoglioniti ed assuefatti consumatori che una di Cittadini pensanti, perché chi pensa rischia di capire, di criticare, di voler cambiare e tutto ciò è sabbia negli ingranaggi del meccanismo...

In questo quadro, è chiaro che le oligarchie che dominano la società non hanno alcun interesse a promuovere una scuola che produca individui liberi perché capaci di scelte e dunque si spiega il perché del degrado culturale che ha sistematicamente, in modo programmato, infettato, con successive riforme peggiorative, tutti i livelli dell’istruzione pubblica.

Il risultato è la semplificazione delle pulsioni, specie di quelle giovanili, più vitali e piene di fermenti, verso obiettivi tutti banali e superficiali che si riassumono nella triade “sesso, droga e rock and roll” alla quale noi aggiungiamo la passione sportiva che è stata anch’essa snaturata e declassata da partecipazione agonistica e palestra di carattere a fenomeno spettacolare mutando la competizione in “guardonismo”.
L’esasperazione del consumismo, figlio del capitalismo, ha poi fatto il resto cancellando concetti come “elevazione spirituale” e sostituendoli con l’appagamento della ebete sazietà da possesso di beni non essenziali e spesso inutili!

Il potere sa, per raffronto con gli eventi della storia, che il vero, l’unico pericolo gli viene dalla cultura perché mai nessuna opposizione efficace e soprattutto nessuna grande rivoluzione si è realizzata senza la partecipazione protagonista delle élites culturali.
Di qui la strategia del distrarre i Cittadini dal pensiero fornendo come surrogati divertimenti stupidi come i “reality show”, la discoteca, la droga ed i grandi magazzini…
Ne deriva che la cultura è la nemica dell’oppressione, che il pensiero è il nemico dell’omologazione e che entrambi sono gli strumenti fondamentali della libertà!
Benito Mussolini diceva: “...l’ignoranza esclude dalla partecipazione...” ed il Fascismo fece seguire alla parole i fatti con la riforma Gentile varata il 6 Maggio 1923, a soli 7 mesi dalla marcia su Roma, con la quale, oltre ad aprire a tutti le porte dell’istruzione scolastica, si rafforzò in modo massiccio la presenza nei programmi scolastici della cultura umanistica generalizzando lo studio del latino ed ampliando la presenza del Greco, della filosofia, della letteratura e della storia.

Evidentemente quella “bieca dittatura” non aveva paura né della cultura, né della capacità di produrre pensiero autonomo che da essa scaturisce, al contrario di questa “radiosa democrazia” che alla cultura ha tarpato le ali con le riforme e con il degrado della scuola, nel timore che la libertà di pensiero e quindi di scelta dimostrino che “Il re è nudo”.

Ma anche la menzogna storica usata massicciamente da questo regime è strumento di dominio e di sottomissione dei popoli perché, come diceva Orwell “... chi controlla il passato, controllerà anche il futuro…”


http://www.nexusedizioni.it/apri/Notizie-dal-mondo/Ultimi-articoli/CULTURA-E-LIBERTA-di-Alessandro-Mezzano/