mercoledì 27 novembre 2013

Io incazzato?


di Filippo Giannini

   Dicevamo: “Io incazzato?”. “No, Signori, sono superincazzato”.

   Scrivo questo pezzo nel mezzo della tragedia che ha colpito la Sardegna: fino ad  ora 14 morti.

   Ci informano che sono state aperte due o tre inchieste. Se la cosa non fosse tragica sarebbe comica: due o tre inchieste per stabilire i responsabili.
Ma se sono decenni che i geologi avvertono che i tre-quarti del territorio nazionale è a rischio idro-geologico e non passa mese che non si verifichi uno smottamento, una alluvione un qualsiasi fenomeno con danni al patrimonio con morti e feriti.
Cosa ci dicono lor signori? "la colpa è del clima che è cambiato".
A maggior ragione si doveva intervenire proprio in previsione del cambiamento del clima.
A prescindere che il clima è cambiato a causa dell’egoismo e dell’arroganza delle grandi industrie che non hanno voluto intervenire con mezzi adatti perché “troppo dispendiosi” (“signori, la grana è grana”).
Poi lorsignori ci dicono che non ci sono i soldi.
Mascalzoni! Non ci sono i soldi perché i vermetti furbetti non vogliono perdere i loro dorati privilegi. Prendete carta e penna e scrivete quanto un profano in economia osserva:
abolizioni delle così dette auto blu (ne possono rimanere al massimo 6 o 7 e tutte rigorosamente italiane);
abolizione del finanziamento pubblico ai partiti;
abolizione delle province;
abolizione del Senato;
riduzione di due terzi del numero dei parlamentari e drastica riduzione dei loro emolumenti; drastica riduzione del costo del Quirinale; r
iesame del cosiddetto debito pubblico, ritenendo che buona parte di esso è frutto della più pazzesca truffa;
abolizione dei 500 enti inutili;
riduzione del costo del parlamento (parrucchieri, dattilografe, uscieri ecc. tutti pagati con stipendi che superano 7/8 volte gli stipendi dei normali lavoratori che operano fuori del paradiso marcato Palazzo Chigi;
ridimensionamento degli stipendi ai magistrati e ai componenti della Corte dei Conti;
ritiro delle nostre truppe dalle zone di guerra (altro che missioni di pace);
rinuncia dell’acquisto dei difettosissimi F/35 e, ricordiamolo, nel periodo fascista i nostri aerei erano i migliori del mondo; r
iesame di tutti gli accordi siglati dai nostri politici (sic!) a partire dal 1947.
Rigoroso controllo di tutte le spese pubbliche, cioè di tutti i denari che provengono dal popolo affidandolo all’Arma dei Carabinieri;
dei magistrati di oggi non mi fido, non intravedendo fra questi alcun Falcone o Borsellino.
E così di seguito. Avete fatto il conto?
Mi si dice che la spesa corrente è di più di ottocento miliardi di Euro, sarei fuori logica se sostenessi che se si attuasse quanto propongo si avrebbe un risparmio di 150/200 miliardi annui?

      Non passa giorno che i mass-media non presentino un personaggio che lamenta che "ci sono famiglie che non arrivano a fine mese". Come sono premurosi! Quasi in odore di santità!

   Solo dopo aver approfondito la conoscenza di alcuni di questi  quasi santi, siamo rimasti sconvolti da notizie, sino a poco prima, impensabili. I quasi santi sono, in realtà, dei paraculi; sì, perché solo i paraculi possono escogitare queste paraculatine (scusate la volgarità dell’espressione).

   Solo in un secondo tempo abbiamo recepito che le leggi ad personam sono una prassi comune in questo Paese dei Diritti e delle libertà, espressione di Luciano Violante, usata per festeggiare una delle tante giornate inutili, oltre che vergognose, come quella del 25 aprile, giorno della riconquistata libertà.
Quale libertà? Suvvia, non continuiamo a fare i bischeri: i paraculetti avevano bisogno di abbattere il truce tiranno per reinstaurare il Paese dei paraculetti.
Sono anni ormai che si parla delle leggi ad personam concepite da Berlusconi, allora osserviamo: ci dovrebbe essere una legge che vieta il cumulo delle pensioni,
allora ci domandiamo: come mai i vari Prodi, Scalfaro, Amato (da quello che sappiamo, il cumulo delle pensioni di questi personaggi supera i 20/40 mila Euro al mese), Ciampi e chissà quanti altri godono di simili privilegi.
Le prebende dei parlamentari e dei senatori, con relativi benefici (diritto alla pensione dopo pochi mesi di attività parlamentare, telefono, viaggi ecc. ecc. tutto gratis), non sono leggi ad personam che si sono auto-concesse?

   In altre parole, per essere più chiari, questi privilegi che i soliti noti si sono attribuiti, sarebbero stati impensabili se non si fosse riconquistata la libertà.

   Come è accaduto tutto questo?
Un semplice esempio,  volgiamo lo sguardo a quanto accadde a luglio del 1943, quando i liberatori sbarcarono in Sicilia.
È noto che il Fascismo sgominò la mafia la quale, per sopravvivere, dovette fuggire negli Stati Uniti dove trovò un ambiente favorevole alla propria sopravvivenza.
Quando gli strateghi americani concepirono lo sbarco in Sicilia, contattarono alcuni importanti boss mafiosi siculo-americani, tra i quali Lucky Luciano, proponendo loro un cospicuo patto: la libertà e la ricchezza in cambio di un sostanzioso appoggio al momento dello sbarco.
Per la conquista della Sicilia vennero mobilitate le famiglie più prestigiose della mafia americana: gli Adonis, i Costello, gli Anastasia, i Profaci.
Circa tremila gli uomini d’onore che saranno poi utilizzati dall’esercito a stelle e strisce, per la loro guerra di liberazione della roccaforte europea.
Cioè era stata concepita una guerra ad personam mafia-statunitense.
Andiamo avanti. Gli eroi sbarcano e gli invasori vengono ovunque accolti con fiori, reverenze, applausi e offerte di segnorine. Ma il bello venne dopo: con l’appoggio di questo formidabile esercito subentra una nuova battaglia, quella delle cariche.
Con l’arrivo della libertà e dei liberatori e con il rientro dei mafiosi aventi diritto alla ricompensa, ebbe inizio la spartizione, come dagli accordi, delle prebende; e su questo argomento i liberatori furono larghi di maniche. Alcuni esempi: Genco Russo diviene sindaco di Mussomeli, Calogero Vizzini (un super assassino colpevole di una cinquantina di omicidi) fu nominato sindaco di Villalba, questo personaggio al momento dell’insediamento fu salutato dalla folla al grido di Viva la mafia.

   Cinquecento uomini di cosa nostra, confinati dal regime fascista ad Ustica, furono immediatamente liberati, tornarono a casa per prendere possesso dei posti vacanti di sindaco e di funzionari  nelle amministrazioni.
Lo stesso governo civile alleato, che era guidato da Charles Poletti, completerà il proprio organico pescando nel ricco serbatoio mafioso: Damiano Lumia, nipote di Calogero Vizzini, divenne interprete del Civil Affair; a Vincenzo di Carlo, capo della mafia di Raffadali, venne affidata la responsabilità dell’ufficio requisizioni del grano. Il capo mafia di Corleone, Michele Navarra, fu incaricato di raccogliere gli automezzi militari abbandonati.

   Grazie alla democrazia statunitense, la Sicilia è ora saldamente in pugno a cosa nostra, la quale, costituita una struttura politico-militare, quella separatista, fu in grado di assicurare il controllo del territorio e delle rotte marittime agli States.
Mentre negli altri territori sotto controllo dei vincitori era vietata qualsiasi attività politica, i separatisti organizzano pubbliche riunioni, cui prendevano parte ufficiali americani in divisa.
Il separatismo siciliano godeva di ampi appoggi nei più importanti complessi industriali, finanziari e politici americani, per esempio la signora Eleonora Roosevelt (moglie del Presidente) scrisse: “Saremo lieti e orgogliosi se la Sicilia potrà essere la nostra longa manus degli Stati Uniti in Europa." Materiale bellico verrà fatto pervenire a nuclei dell’esercito separatista a cura di Salvatore Sciortino.

   Ed ora, concludendo. O italiani, da queste radici quale altra Italia vi sareste aspettati?

   Cosa avveniva nell’altra parte?

   Finora abbiamo esaminato solo alcune delle nobili persone che hanno condannato il male assoluto ed ora, quale persona informata dai fatti (mi sembra che oggi si dica così!), diamo uno sguardo alle malefatte compiute dal male assoluto (solo questo termine caratterizza la capacità intellettuale di colui che lo concepì. Ma andiamo avanti).

   Vogliamo iniziare come l’essere demoniaco concepiva le leggi ad personam?
Tutti sanno, o dovrebbero sapere, dato che ci sono in giro tanti capiscioni, che a guerra terminata Donna Rachele,  quando si accinse a chiedere la pensione del marito, sorsero mille difficoltà, in quanto Benito Mussolini aveva sempre rifiutato ogni compenso. Esattamente come agiscono le anime candide citate all’inizio di questo scritto.

   Prima di terminare, e per maggior chiarezza di quanto sin qui scritto, desidero citare un pensiero di Benito Mussolini che risale al 1944: “Non ho mai potuto capire quelle sanguisughe che, pur possedendo già molto più di quanto non possono consumare, non si sentono sazie prima di avere aumentato ancora di milioni o di miliardi il loro patrimonio. Eliminare queste brutture umane sarà uno dei compiti che mi sono prefisso”.

   Per completare la mia apologia di “quel periodo” riporto quanto mi ha inviato il mio amico Alessandro Mezzano, valido ricercatore storico e scrittore

 

.

QUANDO C’ERA IL FASCISMO..

-Quando c’era il Fascismo la mafia era dovuta fuggire in America.

-Quando c’era il Fascismo i ragazzi non si drogavano.

-Quando c’era il Fascismo le città erano sicure.

-Quando c’era il Fascismo la scuola italiana era ai primi posti nel mondo.

-Quando c’era il Fascismo non ci si doveva vergognare di essere italiani.

-Quando c’era il Fascismo il potere non era corrotto e non corrompeva.

-Quando c’era il Fascismo non c’era il “Paese”, ma la Patria.

-Quando c’era il Fascismo anche i figli degli operai andavano nelle colonie al mare o in montagna.

-Quando c’era il Fascismo non c’erano né tante auto blu, né tanti stipendi e pensioni scandalose come oggi.

-Quando c’era il Fascismo c’era l’orgoglio di essere onesti e non, come oggi, quello di essere “furbi”.

-Quando c’era il Fascismo le grandi crisi economiche ( 1929 )  si affrontavano così bene che dal resto del mondo venivano in Italia per vedere come avevamo fatto ..!

-Quando c’era il Fascismo l’Italia era ammirata e invidiata in tutto il mondo come dimostrano i giornali dell’epoca.

-Quando c’era il Fascismo non c’era questa casta politica infame, disonesta, corrotta, mafiosa e sporcacciona ..!!

 

Ecco perché nell’altro secolo le più potenti lobby si coalizzarono per abbattere il nazionalsocialismo e il fascismo.

sabato 23 novembre 2013

L’arbitraire fiscal. L’impôt sous l’Ancien Régime et en 2013

 

Inizio della tassazione iniqua , come tutte le negatività sociali nascono dalla rivoluzione francese

23 novembre 2013 alle ore 11.59

L’arbitraire fiscal. L’impôt sous l’Ancien Régime et en 2013
  • Ci è stata tramandata, da parte dei massoni rivoluzionari, che poi si sono appropriati del governo degli Stati, una concezione abominevole dell’Ancien Regime: tirannia, arbitrarietà, fiscalità oppressiva.
  • In verità, il lavoratore francese, sotto l’oppressione dell’Antico Regime pagava imposte equivalenti a 18 giorni lavorativi; 
  • oggi, sotto la libertà dei governanti odierni, il lavoratore medio corrisponde tasse che equivalgono a 208 giorni del suo lavoro.
  • In verità, sotto l’ancien regime, le imposte dovevano essere sistematicamente giustificate e legittimate con un editto pubblico del re che ne motivava precisamente la finalità … e si trattava per lo più di una guerra; finita essa, l’imposta diventava obsoleta e quindi non più prelevabile. 
  • Oggi, che si vive in pace, sembrerebbe, le imposte le paghiamiamo per lo più perché c’è un deficit, un debito pubblico che grava anche su ogni neonato che l’ha contratto venendo al mondo, circa 48mila euro a testa. 
  • Il nome e cognome dei nostri e suoi creditori non ci è dato saperlo.
  • D’altra parte non è un cruccio nostro o del nostro neonato: pensano a tutto loro, i governanti, a sistemare il deficit … basti che il “citoyen”, vecchio o piccino che sia, paghi e ci sistemano.
  • E che dire dell’esecrabile disparità fra chi le tasse non le pagava, la noblesse, i privilegiati e il contadino che le pagava. 
  • Ma perché così poche rivolte ebbero luogo contro i signori come invece succedette quando i bisogni dello Stato per i fatti di guerra si tradussero in deficit? 
  • C’erano forme multiple di privilegi nell’antico regime che non avvantaggiavano solo i nobili ma anche la gente comune. Per esempio, la gabella sul sale, il cui uso era talmente e universalmente diffuso , il cui bisogno era enorme giacché serviva per la conservazione degli alimenti oltre che per l’uso comune e quotidiano di insaporire i piatti, fruttava entrate fiscali per un decimo di tutti i prelievi, paragonabile a una IVA, ebbene da questa imposta erano esenti i bretoni. 
  • Se si pensa che nelle altre regioni di Francia si pagava il sale trenta volte di più dei bretoni, essi, in questo caso, apparivano privilegiati quanto il nobile proprietario terriero, che era familiare, si conosceva e magari aveva anche aiutato l’uno o l’altro in qualche circostanza. 
  • E , inoltre, in caso di carestia, di cattivi raccolti , di minacce esterne, era il nobile proprietario a cui si faceva riferimento per assicurare protezione. Quindi il contadino del medioevo e dell’antico regime sembrava abbastanza incline a pagare il proprio signore quando aveva un ritorno effettivo in fatto di protezione e di servizi (il mulino, il ponte, la bonifica, il torchio, la viabilità …). In circostanza di guerra, quella per cui il prelievo era maggiore, se il contadino sborsava per essa, il nobile pagava con la sua presenza nelle operazioni militari.
  • Anche in questo caso, il contadino era privilegiato rispetto agli altri del suo ceto sociale giacché egli, contadino, era esentato dalle operazioni militari essendo la sua produzione più che mai essenziale in caso di operazioni militari. 
  • La musica cambiò quando a piccarsi di nobiltà furono i borghesi “arrivati”, i parvenus liberali: il codice d’onore divenne una questione di quantità di ricchezza, di accumulo del capitale.
  • Alla familiarità tra le diverse classi, costituita da mutua dipendenza e bisogno reciproco (riconosciuti!) si sostituì l’opportunità dell’affare.
  • Ai nostri giorni, dopo che ha vinto l’égalité, le imposte le pagano tutti, onorevoli e presidenti inclusi. 
  • Poco incide sull’uguaglianza se il mantenimento degli onorevoli odierni ci costano 153.000 euro al giorno, se lor signori, pur percependo ciascuno più di venti volte di un contadino, Hanno stadio, viaggi con quale mezzo che sia, teatro, terme e barbiere e parrucchiere ecc… ecc… ecc… se alle guerra ci fanno partecipare gli altri in prima persona. 
  • In conclusione, i liberal-massoni o giacobini che si voglia dire, che tanto si sono indignati per l’atrocità delle prepotenze a cui hanno voluto sostituire le proprie imposizioni, hanno creato una condizione fiscale per noi che paragonata a quella dell’antico regime ci fa fremere.
  •  “I 25 milioi di francesi avevano da pagare 470 milioni in imposte, vale a dire 18 o 19 libbre a testa; il guadagno medio di un muratore era di quasi una libbra al giorno cosicché al lavoratore, “ceto medio”, di allora il fisco richiedeva intorno a diciotto giorni di lavoro per gabelle, taglie, capitazione ventesime e altre imposte indirette.
  • E oggi? Con una percentuale media di imposta del 56,9% occorono non meno di 208 giorni di lavoro per pagare le imposte dell’anno.
  • C’ è da chiedersi se la Rivoluzione Francese è servita a migliorare la nostra condizione o se non sarebbe ora di produrne una nuova.” 
  • (François Hinckler, nel suo libbro sulle imposte sotto l’Ancien Regime). Fonte: http://www.institutcoppet.org/2013/11/14/larbitraire-fiscal-limpot-sous-lancien-regime-et-en-2013/
 

giovedì 21 novembre 2013

L’UNITÀ D’ITALIA LEGITTIMÒ LA MAFIA E LA CAMORRA



di Ignazio Coppola

Quando oggi parliamo di trattativa “Stato- mafia”, non possiamo non andare indietro nel tempo e riferire questo vituperato ed aborrito binomio alle origini del nostro Paese, inteso nella sua accezione unitaria. In parole povere, questo sodale rapporto tra la mafia e lo Stato nasce con l’Unità d’Italia o, peggio ancora, con la mala unità d’Italia e sin dai tempi dell’invasione garibaldina che si servì, per le sue discusse e dubbie vittorie, del contributo determinante della mafia in Sicilia e della camorra a Napoli. In Sicilia, in quel lontano maggio del 1860, infatti accorsero, con i loro “famosi picciotti” in soccorso di Garibaldi, i più autorevoli capi-mafia dell’epoca come Giuseppe Coppola, di Erice, i fratelli Sant’Anna, di Alcamo, i Miceli, di Monreale, il famigerato Santo Mele così bene descritto  da Cesare Abba, Giovanni Corrao, referente delle consorterie mafiose che operavano a Palermo, nel quartiere del Borgo vecchio, e che poi, addirittura, diverrà generale garibaldino e che verrà ucciso tre anni dopo, nell’agosto del 1863, nelle campagne di Brancaccio in un misterioso ed enigmatico agguato a fosche tinte mafiose.La Camorra e Garibaldi
http://www.youtube.com/watch?v=hv-NpHIfvJ0
http://www.youtube.com/watch?v=L1hKigKF5WU

Un apporto determinante degli “uomini d’onore” di allora che farà dire allo storico Giuseppe Carlo Marino, nel suo libro” Storia della mafia”, che Garibaldi senza l’aiuto determinante dei mafiosi in Sicilia non avrebbe potuto assolutamente fare molta strada. Come del resto lo stesso Garibaldi sarebbe incorso in grandi difficoltà logistiche se, quando giunto Napoli, nel settembre del 1860, non avesse avuto l’aiuto determinante dei camorristi in divisa e la coccarda tricolore che, schierandosi apertamente al suo fianco, gli assicurarono il mantenimento dell’ordine pubblico con i loro capi bastone Tore De Crescenzo, Michele “o chiazziere”, Nicola Jossa, Ferdinando Mele, Nicola Capuano e tanti altri. Aiuti determinanti e fondamentali che, a ragion veduta, piaccia o no, a Giorgio Napolitano in testa e ai risorgimentalisti di maniera, ci autorizzerebbero a dire che  la mafia e la camorra diedero, per loro convenienze, il proprio peculiare e determinante contributo all’Unità d’Italia. Un vergognoso e riprovevole contributo, puntualmente e volutamente ignorato, per amor di patria, dai libri di scuola e dalla storiografia ufficiale.
Che la mafia ebbe convenienza a schierarsi con Garibaldi ce ne dà significativa ed ampia testimonianza il mafioso italo-americano, originario di Castellammare del Golfo,  Giuseppe Bonanno, meglio conosciuto in gergo come Joeph Banana, che nel suo libro autobiografico “ Uomo d’onore”, a cura di Sergio Lalli, a proposito della storia della sua famiglia, a pagina 35 del libro in questione, così testualmente descrive l’apporto dato dalla mafia all’impresa garibaldina.” Mi raccontava mio nonno che quando Garibaldi venne in Sicilia gli uomini della nostra “tradizione” (= mafia) si schierarono con  le camicie rosse perché erano funzionali ai nostri obbiettivi e ai nostri interessi”. Più esplicito di così, a proposito dell’aiuto determinante dato dalla mafia a Garibaldi, il vecchio boss non poteva essere.

Con l’Unità d’Italia e con il determinante contributo dato all’impresa dei Mille, la mafia esce dall’anonimato e dallo stato embrionale cui era stata relegata nella Sicilia dell’Italia pre-unitaria, e si legittima a tutti gli effetti, effettuando un notevole salto di qualità. Da quel momento diverrà, di fatto, una macchia nera indelebile ed un cancro inestirpabile  nella travagliata storia della Sicilia e del nostro Paese. E di questa metamorfosi della mafia, dall’Italia pre-unitaria a quella unitaria, ne era profondamente convinto Rocco Chinnici, l’ideatore del Pool antimafia ed una delle più alte e prestigiose figure della magistratura siciliana, ucciso il 29 luglio 1983 davanti la sua abitazione, in un sanguinoso attentato, in via Pipitone Federico a Palermo.

Rocco Chinnici, oltre che valente magistrato, in qualità di capo dell’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo ed ideatore, come anzidetto, del Pool antimafia di cui allora fecero parte tra gli altri giovani magistrati come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello, fu anche un profondo studioso e conoscitore del fenomeno mafioso e delle sue criminali dinamiche storiche.

Da studioso, fu relatore e partecipò a numerosi convegni organizzati in materia di mafia. In uno di questi, promosso a Grottaferrata il 3 luglio 1978 dal Consiglio Superiore della Magistratura, così, a proposito dell’evolversi della mafia in Sicilia, ebbe testualmente a pronunciarsi: “Riprendendo le fila del nostro discorso prima di occuparci della mafia del periodo che va dall’unificazione del Regno d’Italia alla prima guerra mondiale e all’avvento del fascismo, dobbiamo brevemente, ma necessariamente premettere che essa come associazione e con  tale denominazione, non era mai esistita in Sicilia”.

“La mafia nasce e si sviluppa in Sicilia – affermò Chinnici in quella occasione a conforto da quanto da noi sostenuto - non prima ma subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia”. Ed ancora in una successiva intervista rilasciata ad alcuni organi di stampa, a proposito della mafia legittimatasi con la venuta e con l’aiuto determinante dato a Garibaldi e successivamente con l’Unità d’Italia, Rocco Chinnici ebbe a dire:” La mafia è stata sempre reazione, conservazione, difesa e quindi accumulazione di risorse con la sua tragica, forsennata, crudele vocazione alla ricchezza. La mafia stessa è un modo di fare politica mediante la violenza, è fatale quindi che cerchi una complicità, un riscontro, un alleanza con la politica pura, cioè praticamente con il potere”.

Ed è questo “patto scellerato” tra mafia, potere politico e istituzioni, tenuto a battesimo prima dall’impresa garibaldina e poi, come sosteneva Rocco Chinnici, dall’Unità d’Italia che dura, tra trattative, connivenze e papelli di ogni genere, senza soluzione di continuità sino ai nostri giorni. Una lunga sequela di tragici avvenimenti che, sin dagli albori dell’Unità d’Italia, hanno insanguinato la nostra terra per iniziare con  la stessa uccisione del generale Giovanni Corrao a Brancaccio, poi i tragici e misteriosi avvenimenti dei pugnalatori di Palermo, il delitto Notarbartolo e il caso Palazzolo, la sanguinosa repressione dei Fasci Siciliani, in cui la mafia recitò il proprio ruolo, la strage di Portella della Ginestra, le stragi di Ciaculli e di Via Lazio, le uccisioni di Carlo Alberto Dalla Chiesa e di tanti servitori dello Stato e di tanti magistrati che della lotta alla mafia ne hanno fatto una ragione di vita e, purtroppo, anche di estremo sacrificio sino alla morte. Per arrivare alle stragi di Capaci e di Via D’Amelio, dove persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Quello stesso Paolo Borsellino che, da quanto in questi ultimi tempi e alla luce di nuove risultanze processuali che hanno fatto giustizia di ignobili e criminali depistaggi, ci è stato dato da apprendere si era opposto con tutte le sue forze ad ogni ipotesi di trattativa tra “Stato e mafia” e, per questo e per le connivenze tra mafia e servizi segreti deviati, ha pagato con la vita il suo atto di coraggio
Una lunga scia di sangue e di turpitudini che ha visto da sempre protagonisti un mix di soggetti: Stato, mafia, banditismo ( nel caso di Salvatore Giuliano), potere politico, servizi segreti deviati, massoneria e quant’altro che hanno ammorbato e continuano ad ammorbare, da 153 anni a questa parte, la vita dei siciliani onesti. Quando ce ne potremo liberare? Con l’aria che tira sarà difficile.


Aggiunto da SOCIALE.

Quando la mafia fu sconfitta.

Napoli da simbolo a strategia

 
di Nando Dicè - 14/01/2009

Fonte: rinascitacampania 

 


Napoli è un simbolo e come tale e stato più di ogni altro attaccato da chi ha tutto l'interesse a distruggerne l'identità. Enfatizzare determinati aspetti della napoletanità per condurli ad una parodia di se stessi è uno dei metodi per distruggere il senso di appartenenza.


Far divenire gli indiani d'America tutti ubriaconi era una strategia definita per distruggere dall'interno l'identità dei 100 e passa popoli indiani che costituivano la nazione indiana.Napoli era un simbolo del Sud non era e non è il Sud, ma attaccando Napoli si attacca un simbolo del Sud, quindi tutto il Sud.
Il problema [...] è che la strategia mira a far vergognare la Napoli che resiste della Napoli che si è arresa. Frasi del tipo "è colpa nostra", "siamo proprio fatti cosi", "al nord queste cose non succedono" sono sintomatiche di come vogliono ridurre i napoletani. Come ha ben scritto, e descritto, Malcom X , se vuoi dominare uno schiavo devi convincere lo schiavo che per lui non è mai esistita altra scelta e che la schiavitù è nella sua natura. Non puoi dirgli "sei schiavo perché io sono più forte" quello alla prima occasione cerca di ammazzarti nel sonno, e fa bene.
Quando una nave affonda é al grido "si salvi chi può" che si scatenano gli istinti bestiali di ogni uomo lasciato in balia degli eventi, Vale per i Napoletani ma anche per i Parigini o gli americani di Los Angeles o di New Orleans. Ordine, rispetto delle proprie regole comuni, fiducia nelle istituzioni, rispetto delle origini e delle proprie tradizioni, orgoglio dell'appartenenza, comportamento di integrità nel rispetto di se stessi e del proprio orgoglioso passato e presente stabiliscono l'atteggiamento di un popolo. Ma non quando a questo popolo si è insegnato sin dalle scuole elementari che nel proprio passato non c'è altro che schiavitù e dominazioni, che i propri antenati non erano altro che ladri, briganti (nel senso di banditi) e peones.
Quante volte sentiamo dire quella perdurante bugia che al Sud si è sempre emigrato, cantando “santa lucia luntano” come se l'emigrazione fosse nel dna dei nostri padri e non una precisa volontà politica dei liberali del nord. Quando a questo popolo non si danno istituzioni, leggi e stili di vita conformi alle tradizioni, anzi lo vogliono convincere che non ha mai avuto tradizioni, se non l'arte di arrangiarsi e di cantare, cosa succede?
Gli Inglesi sono divenuti impero grazie ai pirati, ma quando i pirati non sono serviti più non hanno sputato nel piatto in cui mangiavano e nella letteratura hanno epicizzato l'etica (inesistente) di corsari e bucanieri. Se avesse vinto il Nazismo in Inghilterra avrebbero insegnato agli inglesi che il loro punto di riferimento non era l'onore ma la vergogna piratesca, cosa sarebbero ora gli inglesi?
Gli americani hanno nel loro dna lo sterminio degli indiani, ma non senti nessun americano dire di se stesso, certo se ammazziamo 50 bambini iracheni in una scuola è perché abbiamo dai tempi di Custer sempre ammazzato bambini e se un americano fa saltare con una bomba un albergo, nessuno dirà siamo proprio noi che siamo bombaroli pur avendo scaraventato bombe su mezzo mondo. La festa che li accomuna tutti è l'indipendenza dagli Inglesi, mica la vittoria del nord sul Sud durante la guerra di secessione.
A noi cosa vogliono farci festeggiare, il Risorgimento? Cioè di come in nome dell'unire gli italiani qualcuno volle attaccare la religione degli italiani e volle depredare gli italiani del Sud? L'Arno puzza e Venezia è piena di zoccole, ma non senti nessun telegiornale ripetere ad ogni intervento su queste città, queste scontate verità. A Milano si rubano più auto che a Roma e Napoli messe insieme, ma se lo dici ad un Napoletano questo ti risponderà con quasi orgoglio che siamo noi che c'è le andiamo a rubare. E questo che dovrei insegnare a mia figlia? Che apparteniamo tutti ad un popolo di munnezzari e ladri di macchine?
Napoli è altro, Napoli è scienza, Napoli è cultura, Napoli è il posto dove nonostante 160 anni di dominazione risorgimentale si resiste ancora. Se lo stato Italianunito avesse trattato Milano come ha trattato Napoli a quest'ora tutti i Milanesi sarebbero peggio, ma molto peggio, della 167 di Scampia. E sarebbe anche normale visto che quando Napoli era faro di legalità e di diritto in Lombardia c'erano padrini mafiosi chiamati Don Rodrigo ed assassini incalliti e coglioni chiamati Bravi e vigliacchi chiamati Abbondio. Se non sono ancora arrivati ad insegnare ad i nostri figli che il Manzoni scrisse Lago di Como, ma voleva scrivere ....golfo di Napoli e perché non vogliono far capire bene cosa erano i Milanesi di quel tempo. Poveri, appestati, Assassini, mafiosi... e poi parlano del colera... ma mi facciano il piacere! Se ad un Mammasantissima di Napoli gli togli il potere che i Savoia gli hanno dato nel 1861, troverai un Don Rodrigo qualsiasi. Napoli per tutto il medio evo è stato il fulcro del feudalesimo (oggi lo potremmo chiamare federalismo) Francorum, il nord era governato dal principio feudale Longobardorum.
Per quasi mille anni gli italiani del Sud e del nord hanno avuto istituzioni e modi di concepire lo stare insieme diversi. Con il nazionalismo hanno fatto l'Italia, ma hanno iniziato a distruggere gli Italiani del Sud. Hanno iniziato amici, ma non ci sono ancora riusciti.
La mia Napoli è l'orgoglio di appartenere ad una grande civiltà, una grande cultura, dei grandi antenati. La mia Napoli siete voi che non vi arrendete, siamo noi che conserviamo il ricordo di quello che saremo e che lo tramandiamo ai nostri figli. La mia Napoli è lo sberleffo all'onorevole Trombetta, è la caustica pernacchia del de Filippo che ogni giorno facciamo NOI NAPOLETANI che non ci siamo arresi alle lusinghe della vita borghese. Io difendo Napoli, cari amici non perché sono napoletano (chi mi conosce sa che difendo con orgoglio le mie origini sannitiche), ma perché la Napoli che vogliono creare non è la stessa Napoli dei miei, dei nostri antenati. Napoli è gioia di vivere in un territorio baciato dagli Dei, non è quel luogo di rassegnazione e di sofferenza e stress che impongono con i media e con il traffico.
Napoli è ancora il simbolo del genio italico, anche se per applicarlo dobbiamo, costretti, emigrare all'estero. Napoli è la socialità dei popoli di mare, non è l'individualismo cronico dell'egoismo liberale. Potrei continuare, ma Napoli è un simbolo, non si può spiegare.
Dante definiva l'amore come la forza che muoveva il cielo, le stelle e tutte le cose dell'universo. Ciò che viene fatto per amore accade sempre al di là del bene e del male diceva Nietzsche e noi, amiamo Napoli.


mercoledì 20 novembre 2013

Josè Antonio Primo De Rivera limpida figura di fascista spagnolo e capo della Falange.


di Maurizio Barozzi

Il 20 novembre 1936 quelli che solo genericamente possiamo definire i “rossi”, fucilarono Josè Antonio Primo De Rivera, limpida figura di fascista spagnolo e capo della Falange. 

MA SE I “ROSSI” FURONO GLI ESUCTORI MATERIALI DI QUESTA FUCILAZIONE, IL VERO RESPONSABILE FU UN PORCO, UN DITTATORE PUPAZZO DI CAPITALISTI E PRETI: TALE GENERALE FRANCISCO FRANCO, che manovrò in modo da impedire ogni accordo e un possibile scambio di prigionieri e comunque la salvezza del capo di quella Falange i cui contenuti sociali erano di ostacolo ai programmi reazionari di questo dittatore. 

Con Josè AntonioPrimo De Rivera finì anche la Falange fascista che venne emarginata e infine con il decreto di unificazione, emesso a Salamanca il 19 aprile 1937, la Falange e i Requetés venivano riuniti in una sola unità politica, che assumeva il nome alquanto eclettico di «Falange Espanda Tradicionalista y de la jons» ovvero una sottospece di “Falange” non invisa al potere franchista. Dentro vi fecero confluire anche i cattolici e i “repubblicani di destra”. 

E purtroppo negli anni seguenti si verificò proprio quello che Josè Antonio aveva sempre paventato: l’uso delle generose, ma ingenue milizie falangiste, per i turpi scopi di potere delle destre.
Non a caso nel suo testamento Josè Antonio aveva scritto: "Voglia Iddio che la loro ardente ingenuità non sia mai impiegata in altro servizio che non sia quello della grande Spagna sognata dalla Falange" (dal testamento di José Antonio redatto nella prigione di Alicante il 18-11-1936). 

Per Franco, il clero e il capitalismo, la Falange di Josè Antonio, che si era anche rifiutata di prendere parte alla sollevazione dei militari, poteva essere un nemico peggiore dei rossi, in quanto come auspicava una circolare scritta proprio da Josè Antonio: la Falange voleva la creazione di uno Stato nazional-sindacalista in conformità con i 27 punti del suo programma e non "la restaurazione di una mediocrità borghese conservatrice", per la quale ora si voleva sfruttare il suo intervento.
Per i conservatori le formazioni falangiste non sarebbero state altro che una specie di forza d'assalto, una milizia giovanile da far sfilare il giorno della vittoria davanti ai «fantasmones» impadronitisi del potere.
La Falange di José Antonio de Rivera, con quasi tutti i suoi capi in galera, aveva sempre condizionato ogni alleanza all'accoglimento di due precise richieste:
1) una riforma del credito, comprendente la nazionalizzazione delle banche;
2) una riforma agraria da attuarsi in senso rivoluzionario, lasciando in seconda linea la questione dei risarcimenti.

Figuratevi se le destre le potevano accogliere!

Italiani e tedeschi per ragioni di geopolitica intervennero in Spagna appoggiando Franco e determinandone la vittoria nella guerra civile,, ma il sangue dei legionari fascisti e dei camerati nazionalsocialisti, fu versato invano, perchè di lì a pochi anni Franco si guardò bene dallo scendere in campo nella guerra decisiva del sangue contro l’oro.
Stette alla finestra, il porco, e poi nel dopoguerra, lui amico di altri porci dirigneti del MSI, fece della Spagna una latrina ad uso della Nato, soprattutto dopo che De Gaulle aveva abbandonato il comando militare integrato del Patto Atlantico.

Ma come tutti i servi, questi dittatori di destraa Franco, Pinochet, ecc., utili in determinati momenti, non è raro l’ideale per gli americani e per il mondialsimo e quindi anche loro vennero poi buttati nella spazzatura della storia.
La definizione più consona alla guerra civile spagnola la diede Aldolf Hitler nei suoi ultimi giorni di vita, quando disse che in Spagna avevamo aiutato purtroppo il porco sbagliato, avevamo messo al potere una cricca di luridi e spietati capitalisti, e pretaglia varia, che vivevano sulle spalle del popolo.
E, disse ancora Hitler, non era vero che la Repubblica spagnola era comunista.
I comunisti erano una minoranza, la maggior parte del popolo era con la Repubblica, non con i comunisti, né con i franchisti.
Ed aveva ragione Hitler, perché la parte migliore del popolo era veramente nella Repubblica anche se questa repubblica venne strumentalizzata dagli interessi geopolitici di Stalin, poi anche dell’Occidente, e massoni, anarchici e trozskisti, che poi si scannarono con i comunisti al soldo di Mosca, ne avevano preso in mano la direzione politica e l’avevano etichettata.

Queste sono verità che noi pagammo a caro prezzo.

Nel dopoguerra, mentre i missistI sputavano le solite retoriche cazzate sul franchismo, sulla Spagna di destra anticomunista, i veri fascisti della FNCRSI ex combattenti della RSI, scrissero sulla loro rivista
“Corrispondenza Repubblicana” Nri 6 e 7 di settembre e ottobre 1966 una memorabile sintesi a puntate
“Spagna: Dallla Falange all’Opus Dei”, oggi visibile on line nel sito della Fncrsi 
http://fncrsi.altervista.org/ - Sezione - Periodici - Corrispondenza Repubblicana.

lunedì 18 novembre 2013

Le rivoluzioni «senza» il popolo generano crimini «contro» il popolo

Prima parte 


La Rivoluzione francese


 di Ubaldo Sterlicchio


Nelle scuole italiane si insegna a magnificare la Rivoluzione francese, la c.d. Repubblica partenopea ed il Risorgimento italiano, ingannando gli studenti i quali, in buona fede credono a quanto viene loro propinato dai propri docenti.

Un dipinto ben... riuscito per spacciare chiacchiere

In merito alla Rivoluzione francese, Rino Camilleri, nel suo pregevole libro dal significativo titolo «Fregati dalla scuola», affermò invece che: «Servendosi del segreto delle logge mas-soniche, nonché della loro efficiente rete di collegamenti su tutto il territorio, i club riuscirono a prendere il potere in Francia. Si trattò di un vero e proprio colpo di stato operato da soli seimilacinquecento uomini circa. Avendo ormai la monarchia accentrato tutti i suoi pur scarsi poteri a Parigi, bastò loro impadronirsi della capitale. Dal centro la rete clandestina dei club eseguiva immediatamente gli ordini in tutto il paese. I primi ad accorgersi che la Rivoluzione li metteva alla fame furono gli operai. Vietate per legge le loro associazioni, non ebbero più alcuna difesa contro lo sfruttamento. A Lione ed altrove le manifestazioni spontanee furono represse a cannonate».([1])

Le perverse ideologie giacobino-massoniche settecentesche, infatti, avevano corrotto le menti ed i cuori di quei sedicenti intellettuali e patrioti che non esitarono un solo istante a far uso delle armi contro il proprio popolo.


Una stampa dell’epoca ben riuscita... nella quale, in effetti,


i 7 detenuti della Bastiglia sembrano molto più... numerosi


Quantunque sfoggiassero uno sloganpropagandistico dal formidabile effetto psicologico: «LibertéEgalité Fraternité», i rivoluzionari batterono ogni recordcontrario ai principî da loro stessi proclamati. Infatti, con reiterate violazioni della Libertà, mai le prigioni della Francia furono così piene di detenuti come durante il periodo rivoluzionario; in relazione al principio della Uguaglianza, tutti i francesi vennero chiamati «cittadini», ma fu inaugurata l'ineguaglianza più odiosa, quella tra ricchi e poveri; mentre la Fratellanza valse solamente per gli appartenenti ai club giacobini, conformemente alla mentalità massonica, secondo la quale sono gli affiliati alla sétta ad essere «fratelli» tra loro, mentre i «profani», cioè le persone comuni, non vengono considerati nemmeno esseri umani!

Il 14 luglio di ogni anno ricorre la festa della Repubblica francese, in memoria del giorno della celeberrima presa della Bastiglia (1789). Sarebbe però appena sufficiente considerare che in quella prigione, al momento dell’assalto da parte di poche centinaia (non raggiunsero il migliaio) di rivoltosi, si trovassero solamente 7 reclusi (4 falsari, 2 mentecatti ed un maniaco sessuale: nessun detenuto per motivi politici od ideologici), per comprendere come l’89 francese sia un mito artatamente costruito a tavolino, frutto di vergognose manipolazioni storiografiche.
Leggendo poi le strofe della «Marsigliese» – inno nazionale francese – ci rendiamo conto come esse siano state (e lo siano tuttora) un fanatico e veemente invito all’eliminazione fisica di tutti coloro che non la pensassero come i giacobini: si tratta di un vero condensato di intolleranza e di violenza verbale. Il pensiero giacobino, peraltro, è sostanzialmente racchiuso nell’affermazione: «o con me o contro di me!».

La macabra ghigliottina
Tanto è vero che le belle parole contenute nella solenne «Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino» rimasero solo sulla carta e furono completamente disattese. I diritti in essa sanciti furono reiteratamente calpestati durante tutto il periodo rivoluzionario ed, al posto dei «Diritti», furono eretti i patiboli (la ghigliottina fu una macabra invenzione del medico massone Joseph-Ignace Guillotin); fu varata la legge dei sospetti; fu istituito il passaporto interno per spostarsi da una località all’altra della Francia; fu imposto l’abbigliamento patriottico; fu introdotto il certificato di civismo; fu abrogata la religione cattolica e fu imposto il culto della «dea ragione»; furono sequestrate le campane; furono abbassati i campanili, le cui guglie, secondo la logica dei rivoluzionari, erano incompatibili con il principio di uguaglianza; furono attuate deportazioni nella Guaiana (dove il 99% dei deportati democraticamente moriva).([2])

Un altro dipinto  ben riuscito...
per impressionare gli spiriti deboli
    
Una falsa leggenda, ancora oggi radicata profondamente nell’opinione di molti, è quella secondo cui la Rivoluzione francese sia stata una rivoluzione anti-aristocratica. Si tratta di una colossale fandonia, smentita dalle seguenti cifre.([3]) Dei 17.000 «cittadini» ghigliottinati durante il terrore e delle altre 35.000 esecuzioni sommarie avvenute in quello stesso periodo (esclusi, per il momento, i dati sui massacri in Vandea ed in Bretagna), questi erano i gruppi sociali di appartenenza: 28% contadini, 31% operai ed artigiani, 20% commercianti e piccoli burocrati, 8-9% aristocratici, 6% clero, 7% non identificato. Nella Francia della rivoluzione, su 28 milioni di abitanti, furono poi costretti a rifugiarsi all’estero 150-170 mila persone, appartenenti alle seguenti categorie: 25% clero, 21% borghesia, 19% contadini, 16% nobiltà, 14% operai ed artigiani, 4% non identificati; in maggioranza essi facevano parte del Terzo Stato.([4])

Lo scrittore cattolico Augustin Cochin, nel suo saggio «Lo spirito del giacobinismo»,([5]) non è il solo a sostenere che la rivoluzione francese non ebbe mai il consenso spontaneo del popolo. Furono sempre e solo gruppi di manipolatori della pubblica opinione, uniti a circoli estremisti capeggiati da fanatici, a proclamarsi interpreti della volontà collettiva, in nome dell’interesse pubblico. Questi gruppi ricorsero sistematicamente alla calunnia, praticando per primi il terrorismo psicologico allo scopo di alimentare la tensione e suscitare violenze, come nel caso della «grande paura» del 1789 nelle campagne.


In particolare, la Vandea e la Bretagna insorsero e lottarono per anni contro gli eserciti della rivoluzione, che praticarono il primo genocidio dell’era moderna: 250-300 mila contadini, colpevoli di battersi per la religione Cristiana e per il Re, vennero infamati con l’epiteto di «briganti» e democraticamente massacrati.


François Joseph Westermann
Il generale repubblicano François Joseph Westermann (1751-194), in un dispaccio del 23 dicembre 1793, inviato al Comitato di Salute Pubblica di Parigi, scriveva: «Cittadini repubblicani, non c’è più nessuna Vandea. È morta sotto la nostra sciabola libera, con le sue donne e i suoi bambini. L'abbiamo appena sepolta nelle paludi e nei boschi di Savenay. Secondo gli ordini che mi avete dato, ho schiacciato i bambini sotto gli zoccoli dei cavalli, e massacrato le donne che non potranno più partorire briganti. Non ho un solo prigioniero da rimproverarmi. Li ho sterminati tutti... le strade sono seminate di cadaveri, ve ne sono in tal numero che in alcuni punti formano una piramide. Le fucilazioni continuano incessantemente a Savenay, poiché arrivano sempre dei briganti che pretendono di liberare i prigionieri».

Questo «eroico» generale, democratico e repubblicano, che non era né un millantatore, né un vanaglorioso e né tanto meno un visionario, ma che era solo ed esclusivamente – questo sì – un ufficiale indegno, che aveva lordato il proprio onore di soldato e di uomo, commettendo crimini che, per lui, costituivano titoli di merito e di lode, purtroppo aveva scritto la pura e semplice verità.([6])

A giusta ragione, per le atrocità commesse, Westermann venne soprannominato «il macellaio della Vandea» (in francese «Le boucher de la Vendée»).


Nella sola Vandea vennero infatti massacrati 150 mila contadini, offerti in sacrificio all’Essere Supremo per annientare il male ed instaurare l’età dell’oro repubblicana.([7])

Il consenso popolare era talmente «sentito» che, per terrorizzare la gente, vennero istituiti 20.000 tribunali rivoluzionari aventi diritto di vita o di morte: non c’era possibilità alcuna di appellarsi o di addurre prove e testimonianze a difesa degli accusati.

La rivoluzione fu anche «esportata» con le armi e almeno due milioni di francesi (in maggioranza figli del popolo) morirono lontani dalla loro terra.



La Rivoluzione napoletana



Stampa dell’epoca raffigurante
 la cosiddetta Repubblica (giacobina) 
Napoletana
Nel 1799, alcuni collaborazionisti napoletani (una sparuta minoranza di giacobini nostrani) favorirono l’invasione francese e si macchiarono dei gravissimi crimini di «alto tradimento» e di «intelligenza con il nemico», reati questi commessi contro il loro Popolo e la loro Patria.

I giacobini napoletani, infatti, con l’appoggio delle truppe straniere ed anch’essi attraverso il solito colpo di stato, instaurarono a Napoli, contro la volontà popolare, una feroce dittatura oligarchica, impropriamente denominata «repubblica» partenopea.

Nei giorni 21, 22 e 23 gennaio 1799, mentre l’intera città di Napoli combatteva contro gli invasori e moriva in difesa della Patria, i giacobini, asserragliatisi in Castel Sant’Elmo, cannoneggiarono vigliaccamente alle spalle il popolo, provocando un bagno di sangue fra la propria gente. Questa circostanza ci viene testimoniata dal generale francese Jean Antoine Championnet, il quale così relazionò al Direttorio di Parigi: «Si combatte in tutte le strade; il terreno si disputa palmo a palmo; i Lazzaroni sono comandati da capi intrepidi. Il forte S. Elmo li fulmina [laddove si erano asserragliati i giacobini napoletani, n.d.r.]; la terribile baionetta li atterra; ripiegano in ordine, tornando alla carica, si avanzano con audacia, guadagnando spesso terreno... mai combattimento fu più tenace: mai quadro fu più spaventevole. I Lazzaroni, questi uomini meravigliosi... sono degli eroi!».([8])

Benché fossero bersagliati alle spalle dai giacobini, attaccati dall’alto e dal basso dagli studenti sedicenti «democratici» [in particolare, i «figli dei nobili e dei ricchi borghesi» frequentatori dei corsi di medicina presso l’ospedale degli Incurabili, n.d.r.] e falciati dalle cariche francesi, i «veri patrioti napoletani» combatterono con eroico ardimento al Ponte della Maddalena, a Porta Capuana ed a Capodimonte.([9])

Jean Antoine Championnet
Alla fine Championnet prese la città; ma, per vincere la resistenza popolare, fu necessario assalirla su tre fronti (a Capodimonte, al castello del Carmine ed a Porta Capuana), disponendo quindi le truppe assalitrici su tre colonne (più un quarta di riserva) e si dovette inoltre ricorrere alla mostruosità di dare fuoco alle case del popolo per far venire fuori la gente e fucilarla sul posto. All’alba del fatidico 23 gennaio 1799 i francesi furono padroni della città, conquistata dopo tre giorni di feroci combattimenti, in un lago di sangue: si contarono 2.000 morti tra le fila degli invasori francesi e ben 10.000 fra i napoletani.([10])

Durante l’invasione della Penisola, furono numerosi i movimenti popolari che spontaneamente insorsero in Italia contro l’aggressione francese: tra i più noti e rilevanti, rammentiamo i «Viva Maria» in Toscana e le «Pasque Veronesi» nel Veneto;([11])ma, la resistenza opposta dal popolo di Napoli fu la più fiera, la più ostinata e la più cruenta che le truppe francesi dovettero affrontare. Migliaia di valorosi napoletani di ogni estrazione sociale morirono per difendere la loro terra, la loro Patria.

Durante l’insorgenza popolare e fino alla riconquista di Napoli da parte del Cardinale Ruffo (vale a dire nei soli 5 mesi della cosiddetta repubblica!), furono massacrati dai carnefici franco-giacobini oltre 60.000 regnicoli, come ebbe a testimoniare il generale francese Paul Thiébault nelle sue Memorie: «Poche insurrezioni sono state così formidabili. Era una crociata; e, come ho già detto, dopo averci costretti a disprezzarli come soldati, questi Napoletani ci hanno insegnato a temerli come uomini. Non appena formavano dei plotoni regolari, diventavano consistenti; armati come banditi, per mezzo di truppe di fanatici, erano terribili, e, per così dire, quando non ci fu più esercito napoletano, la guerra di Napoli diventò terribile. Sebbene questi Napoletani del 1798, scontrosi e superstiziosi, siano stati battuti dappertutto, sebbene, senza contare le perdite che subirono nei combattimenti, più di sessantamila sono stati passati a fil di spada sulle macerie della loro città o sulle ceneri delle loro capanne, non li abbiamo mai lasciati vinti».([12])

È doveroso tener presente che, nelle Due Sicilie del ‘700, la maggior parte delle persone colte seguiva il pensiero politico dell’Illuminismo con animo moderato; si pensava più ad una monarchia costituzionale che ad una repubblica. D’altra parte, il disagio materiale del popolo napoletano non era così grave come quello del popolo francese; e Napoli non era Parigi. Non c’erano pertanto le condizioni per uno stato insurrezionale, come ben dimostrarono i fatti del 1799 (e, successivamente, dimostreranno quelli del 1820, del 1848 e del 1860). Lo spirito popolare era borbonico: le masse ed i loro sovrani consideravano i loquacissimi intellettuali come dei demagoghi, dei pescatori nel torbido.([13]) E poi, come avrebbe potuto un popolo, con una tradizione monarchica di ben sette secoli, ormai facente parte del suo DNA, accettare dalla sera alla mattina la sconosciuta ed incomprensibile forma di governo repubblicana?

Nel 1799 quegli intellettuali, invece, rinunciarono ad un elemento basilare e peculiare dell’Illuminismo napoletano: l’originalità, l’essere precursori e propulsori. Con l’arrivo dei francesi, s’inizia la fase dei cc.dd. «liberatori»cui spalancare le porte e con cui collaborare in posizione gregaria. Questo atteggiamento si stabilizzerà nell’800 dei «paglietti» e resterà presente fino ai nostri giorni con i politici meridionali, incapaci di strategie e politiche originali. Il periodo che parte dal 1799 e termina nel 1816 segna la rottura definitiva fra aristocrazia e classe media. Se sommiamo questi eventi a quelli del 1848, capiamo come si determinò l’allontanamento della borghesia nascente dai destini dirigenziali del Sud. Anche perché sul ceto medio borghese fecero fortemente leva i sentimenti massonici e liberisti.([14])

Lo storico Massimo Viglione osserva: «In un dispaccio del 21 gennaio 1799 inviato dai gia-cobini napoletani al generale Championnet, al fine di invitarlo ad affrettarsi a marciare su Napoli per la loro salvezza, troviamo scritto: “Non la Nazione, ma il Popolo è nemico dei francesi”». Questa affermazione, scritta dai filo-francesi durante i giorni della rivolta dei lazzari, con l’evidente paura di fare una brutta fine, dimostra che le poche decine di giacobini della cosiddetta repubblica napoletana avevano ben capito che solo l’arrivo immediato delle truppe d’invasione francesi avrebbe potuto salvarli dalla furia popolare. E lo stesso storico aggiunge: «Ma, proprio scrivendo quelle parole, essi dimostravano, a se stessi ed alla storia, il loro totale isolamento da tutto il resto del popolo. Il fare una distinzione fra la categoria di Nazione e quella di Popolo, attribuendo la prima a se stessi, cioè poche decine di giacobini, e la seconda, con valenza dispregiativa, a milioni di individui di tutte le classi sociali, dall’ultimo dei contadini al Re, risulta essere una testimonianza inequivocabile non solo dell’isolamento, ma anche della loro utopia, e dimostra anche tutto il loro reale disprezzo per il Popolo, atteggiamento tipico di ogni casta intellettuale di ogni tempo e luogo».([15])

Le persone intellettualmente oneste e libere da qualsivoglia condizionamento ideologico, più semplicemente ed obbiettivamente, ritengono che debba chiamarsi «patriota» solo colui che difende la Patria dall’invasione straniera, fino al sacrificio estremo della propria vita. Eppure, a distanza di due secoli, nel 1999, il Parlamento della Repubblica italiana stanziò (rectius, sperperò!) ben 8 miliardi di lire per le celebrazioni di quella effimera repubblica giacobina di servi e traditori!


Ed è estremamente significativo come, diversamente dagli altri paesi europei, laddove si festeggiano ancora oggi le ricorrenze storiche che ricordano le battaglie vinte contro Napoleone e si venerano come eroi coloro che impugnarono le armi e sacrificarono la propria vita combattendo l’invasore francese, in Italia si spende denaro pubblico per festeggiare la «rivoluzione napoletana», che dagli storici più attenti è stata definita, nel migliore dei casi, con la ridicola denominazione di «rivoluzione passiva», al fine di giustificare il fatto che essa fu imposta dall’esterno e non maturò nella stessa società. Si esaltano, nel contempo, personaggi che, pur di imporre le proprie idee, collaborarono con le forze straniere, consegnando nelle loro mani la Patria, e non esitarono a fare uso della violenza contro i propri connazionali.
Infatti, i giacobini napoletani, in soli 5 mesi (tanto durò la c.d. «repubblica partenopea»), condannarono a morte e giustiziarono, dopo processi farsa, ben 1.563 oppositori al regime filo-francese.([16])
Attraverso un Tribunale Rivoluzionario ad hoc per il «giudizio sommario» dei nemici della repubblica, i giacobini napoletani vollero mostrare il pugno di ferro, coprendosi di inutili crudeltà, con arresti arbitrari di innocenti e, addirittura, di «distratti»; a quest’ultimo riguardo, il De Nicola riferisce che «...furono arrestati molti senza coccarda [con i colori repubblicani, n.d.r.]» e parla di un «...sistema di terrorismo che nelle attuali circostanze i patriotti vogliono che si spieghi. E si dice che Pagano e Cirillo possino essere i Robespierre di Napoli».([17])

Lo stesso Vincenzo Cuoco ammise che «negli ultimi tempi si eresse in Napoli un tribunale rivoluzionario il quale procedeva cogli stessi principî e colla stessa tessitura di processo del terribile comitato di Robespierre».([18])


Francesco Mario Pagano
Molto si è scritto su questa c.d. «repubblica» giacobina meridionale; forse troppo e, spesso, in modo inesatto. Ma alcuni giudizi su di essa, a parere di chi scrive, meritano di essere ricordati.

In una lettera a Vincenzo Russo, Vincenzo Cuoco così scrisse: «Ascoltami. Tu conosci la mia adolescenza e la mia gioventù; tu sai se io ami la virtù e se sappia preferirla anche alla vita... Ma quando, parlando agli uomini, ci scordiamo di tutto ciò che è umano; quando, volendo insegnare la virtù, non sappiamo farla amare; quando, seguendo le nostre idee, vogliam rovesciare l’ordine della natura: temo che invece della virtù insegneremo il fanatismo, ed invece di ordinar delle nazioni fonderemo delle sètte...».([19])

Per Luigi Blanch, il più equilibrato storico di queste vicende napoletane, i giacobini «erano una minoranza quasi impercettibile aspirante a stabilire, per mezzo della conquista, una forma di governo non voluta dal paese e appunto in quell’anno talmente screditata in Francia che con applauso cessò il 18 brumaio. Ciò ch’essi volevano contrastava coi principî liberali, basati sull’indipendenza nazionale all’esterno e sul consenso della gran maggioranza all’interno: furono contenti della dolorosa campagna del ’98 e irritati dall’energica resistenza popolare... Nel senso morale fu una fortuna che divenissero vittime; ché, se avessero trionfato, sarebbero stati carnefici tanto più crudeli quanto più erano pochi. Sacrificati, hanno ispirato compassione per gl’individui e simpatia per la causa. Sacrificatori, avrebbero ispirato orrore per gli uni come per l’altra».([20])

Lo storico Harold Acton osservò, infine, che «da allora è stata perfezionata la tecnica per cui una minoranza può impadronirsi del potere dello Stato contro la volontà della maggioranza, e la maggior parte di noi sa dove questo può condurre. Un attento esame della breve vita della repubblica partenopea ci porta a dubitare che essa avrebbe potuto mantenere il potere, se non sottomettendo la maggioranza a violenze ed a continue minacce di violenza. Il che avrebbe generato uno “stato di polizia” molto più disumano di quello dei Borboni».([21])


dott. Ubaldo Sterlicchio




[1] Rino Camilleri - “Fregati dalla Scuola” - Edizioni Effedieffe.
[2] Giuseppe L.P. Picazio, “L’altra faccia della Rivoluzione francese”, Rivista mensile L’Altra Voce (Solopaca - BN), novembre 2005, pag. 41.
[3] Coloro i quali desiderassero verificare i dati riportati, possono consultare il Fouret, il Taine, il Gaxotte.
[4] Giuseppe L.P. Picazio, opera citata.
[5] Augustin Cochin - “Lo spirito del giacobinismo” - Edizioni Bompiani.
[6] Giuseppe L.P. Picazio, opera citata.
[7] Epiphanius, “Massoneria e sette segrete. La faccia occulta della storia”, Controcorrente Napoli, 2008. pag. 139.
[8] Niccolò Rodolico, “Il popolo agli inizi del Risorgimento nell’Italia meridionale 1798-1801”, pagg. 129-130.
[9] Harold Acton, “I Borboni di Napoli”, Giunti, Firenze, 1997, pag. 366.
[10] Gustavo Rinaldi, “1799 la Repubblica dei traditori. Il popolo del Regno di Napoli contro gli invasori francesi e i loro lacchè giacobini”, Grimaldi & C., Napoli 1999, pag. 38.
[11] Massimo Viglione, “La Vandea italiana”, Effedieffe, Milano, 1996.
[12] Paul Thiébault, “Mémoires du Géneral P.Thiébault”, Paris, 1894, vol. II. pagg. 324-325; in Gustavo Rinaldi, “1799...”, op. cit., in nota 6, pagg. 38-39.
[13] Autori vari, “La Storia proibita”, Controcorrente, Napoli, 2008, pag. 212.
[14] Lino Patruno, “Fuoco del Sud”, Rubettino, Soveria Mannelli, 2011, pagg. 104-105.
[15] Autori vari, op.cit., pag. 205.
[16] Francesco Mario Agnoli, “1799 la grande insorgenza”, Controcorrente, Napoli, 1999, pag. 288. L’autore, attenendosi ai conteggi della storiografia progressista, riferisce che «...i condannati alla pena capitale da un Tribunale... furono 1.563 di parte legittimista e non più di 120 di parte repubblicana». A tale proposito, egli menziona Giuseppe Pianelli che, nel seminario da lui tenuto nell’anno accademico 1997-98, La Storia del Sud vista da Sud, nell’ambito del Corso di laurea in scienze dell’Educazione dell’Istituto Universitario Suor Orsola Benincasa, ricorda come anche Giustino Fortunato, uno studioso certamente non sospetto di simpatie borboniche, abbia riconosciuto che sedici di quei giustiziati non hanno in realtà nulla a che vedere con le condanne inflitte dalla Giunta.
[17] Mario Giordano, “Controinformazione sulla Repubblica Napoletana del 1799”, MG Grafitalia, Cercola, 1998, pag. 67.
[18] Vincenzo Cuoco, “Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli”, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 2006, pag. 241.
[19] Vincenzo Cuoco, op.cit., Appendice: Frammenti di lettere dirette a Vincenzo Russo - Frammento VI, Censura, pag. 369.
[20] Luigi Blanch, “Scritti Storici”, a cura di Benedetto Croce, Sorrento, aprile 1943. Bari, Laterza, 1945, vol. I, Introduzione; cfr. Harold Acton, op. cit., pag. 457.
[21] Harold Acton, op. cit., pag. 457.