di Ubaldo Sterlicchio
È una domanda molto interessante, alla quale però occorre dare un’adeguata e coerente risposta.
In base al suo significato etimologico, la democrazia, vocabolo derivante dal greco e composto dai termini dèmos [popolo] e kràtos [forza, governo], è quella forma di gestione della cosa pubblica alla quale partecipano, direttamente o indirettamente, tutti i cittadini.
Le forme di «democrazia diretta» erano possibili nelle città-stato dell’antica Grecia, nell’antica Roma repubblicana, nei comuni medioevali. In età moderna, invece, sono realizzabili solamente forme di «democrazia indiretta», in considerazione dell’elevata consistenza numerica del démos.
Oggi, nell’ordinamento giuridico italiano, l’unico istituto superstite di democrazia diretta è il referendum abrogativo, previsto e disciplinato dall’articolo 75 della Costituzione repubblicana. Esso, quantunque soggetto a molteplici limitazioni formali e sostanziali,(1) consente al popolo di deliberare l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge. Il 2 giugno 1946, inoltre, il popolo italiano fu chiamato, una tantum [per una volta soltanto], ad esprimersi per scegliere, attraverso il referendum istituzionale, la forma dello Stato fra quella monarchica e quella repubblicana.
È bene puntualizzare, però, che la democrazia non si realizza affatto con l’arido atto formale di depositare, in un’urna, una scheda sulla quale “eventualmente” sia stato segnato un simbolo e/o siano state espresse delle preferenze. Parimenti, la democrazia non si realizza neppure attraverso il conferimento di una «delega in bianco» ad un rappresentante del popolo, impunemente libero, poi, di disattendere gli impegni assunti e di non tener fede alle promesse fatte durante la campagna elettorale o, comunque, di non tutelare gli interessi del démos. Questa è, in realtà, solo una pseudo-democrazia, che si traduce in una presa in giro ai danni dello stesso popolo.
Ciò premesso, vorrei qui proporre una chiave di lettura alquanto differente da quella solita, che tenga conto soprattutto degli aspetti «sostanziali», piuttosto che di quelli puramente «formali».
Io credo che la democrazia, indipendentemente dal tipo di Stato e dalla forma di Governo, consista nel dare concretamente voce al popolo, nell’ascoltarlo, nel recepirne le istanze, nel soddisfarne le esigenze ed i bisogni, nonché nell’assicurargli senza eccezione alcuna una vita dignitosa. La democrazia si realizza mantenendo un sincero rispetto verso il popolo, salvaguardandone gli interessi e non conculcando i suoi diritti, onde garantirgli il maggior benessere possibile.
Non è democratico, quindi, uno Stato che non solo non si ponga e non realizzi tali obiettivi, ma che tiranneggi il popolo, procurandogli gratuite sofferenze, inutili sacrifici od arbitrarie privazioni di varia natura; che gli imponga un fisco gravoso, vessatorio, ingiusto; che reprima le sue legittime aspirazioni o rivendicazioni, attraverso la menzogna, l’inganno e/o la violenza (non esclusa quella morale o psicologica), con l’impiego di mezzi di coazione fisica, fino all’utilizzo delle armi.
Non è, inoltre, democratico un regime che attui una politica militarista e guerrafondaia, al fine di soddisfare le proprie brame egemoniche, di potere, di conquista coloniale o di espansione territoriale e che, pertanto, mandi a morire i figli del popolo in terra straniera, il più delle volte ipocritamente mascherando le guerre di aggressione come interventi armati per garantire la libertà di altri popoli, o come «missioni di pace» ed «umanitarie», ovvero ricorrendo al risibile pretesto di esportare – ahimè! – proprio la democrazia. In questo caso, l’antidemocraticità di un governo che agisca in tal modo sortisce guasti in misura doppia, perché qualsivoglia azione bellica, oltre ad essere condotta in danno di un «altro popolo», comporta sempre degli alti costi, in termini di sofferenze e di vite umane, anche per il «proprio popolo».
Chiarissima è a tale riguardo, in piena concordanza con la testé enunciata nozione di democrazia, la Carta Costituzionale della Repubblica italiana, allorquando, all’articolo 11, sancisce che: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».
Alla luce di quanto detto, è lapalissiano che solo ed unicamente una «guerra difensiva» non contrasta con i princìpi della democrazia; anzi, la difesa militare diventa, in questo caso, un dovere imprescindibile, proprio per tutelare e garantire i diritti dello stesso popolo aggredito.
Non è, infine, conforme ai princìpi della democrazia la «cessione di parti di Sovranità», trattandosi di un atto illecito, illegale, illegittimo ed incostituzionale. Infatti, in virtù dell’articolo 1, comma 2, della già citata Carta Costituzionale, «La Sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione»; pertanto, solo il Popolo è legittimato a delegarla ai suoi rappresentanti regolarmente eletti. Questi ultimi, in virtù del principio giuridico in base al quale: «delegatus non potest delegari», qualora sub-deleghino una qualsivoglia parte della Sovranità popolare, della quale sono democraticamente divenuti depositari e garanti, si rendono responsabili di una grave violazione per «manifesta incostituzionalità». Nessun popolo, infatti, è più sovrano, se non può più decidere della sua Sovranità; la qual cosa costituisce, peraltro, un formidabile preludio di pericolose derive totalitarie.
Ricapitolando: è conforme alla democrazia tutto ciò che viene fatto in favore del popolo, è antidemocratico tutto ciò che può danneggiare il popolo.
Volgiamo ora un breve sguardo diacronico alla storia d’Italia degli ultimi due secoli.
Alla luce di quanto premesso, possiamo, senza tema di smentita, affermare che, nell’Italia pre-unitaria, non furono affatto democratici i promotori delle varie «repubbliche giacobine» filo-francesi, che sorsero nel contesto delle invasioni napoleoniche.(2) Essi, infatti, non solo instaurarono, contro la volontà popolare, delle feroci «dittature oligarchiche», ma, in qualità di «collaborazionisti dello straniero invasore», rivolsero anche le armi contro le popolazioni della Penisola, provocando enormi bagni di sangue in danno dei propri connazionali.(3)
Successivamente, democratici non furono nemmeno i parlamenti ed i governi sedicenti «liberali», piemontesi prima ed italiani dopo, artefici del c.d. risorgimento. In primo luogo, perché essi erano espressione di un’esigua minoranza di borghesi, militari e nobili, che costituiva appena l’1% dell’intera popolazione;(4) si trattò, in realtà, di una «democrazia teorica», falsa ed esistente solo sulla carta, concretandosi, in tal modo, la più classica espressione del c.d. «totalitarismo d’élite».(5) Infatti, nel Regno sardo prima e nel Regno d’Italia poi, la classe dirigente, che si autodefiniva «liberale», si comportò in maniera dispotica, negando alle masse popolari il diritto ad essere rappresentate, ascoltate, tutelate.(6) In secondo luogo, perché i governi italo-piemontesi del 1860 e degli anni successivi, soprattutto con l’invasione e con l’annessione del Regno delle Due Sicilie, inaugurarono una stagione di terrore e di sangue, ponendo in atto una spietata repressione; furono massacrate centinaia di migliaia di figli del popolo duosiciliano e furono rasi al suolo ben 84 paesi del Sud d’Italia. Queste efferatezze sono semplicisticamente passate alla storia con l’ingannevole definizione di «lotta al brigantaggio», mentre innumerevoli furono le fucilazioni, indiscriminate e senza processo, di ex militari borbonici, popolani e contadini meridionali. Ci fu la più totale negazione della democrazia! Ed, a tale riguardo Antonio Gramsci, molto crudamente, puntualizzò: «Fino all’avvento della Sinistra al potere, lo Stato italiano ha dato il suffragio solo alla classe proprietaria, è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, crocifiggendo, squartando, seppellendo vivi i contadini poveri che gli scrittori salariati tentarono d’infamare col marchio di “briganti”».(7)
Non furono democratici nemmeno i governi dell’Italietta sabauda, nell’armare la mano del generale Fiorenzo Bava Beccaris, nel trascinare il Paese nelle patetiche avventure coloniali e nelle sanguinosissime guerre mondiali, nell’avvalersi ripetutamente degli stati d’assedio, nell’applicare con estrema leggerezza la legge marziale, nell’attuare feroci repressioni contro il popolo.
Non solo durante il periodo risorgimentale, ma anche dopo la stessa unità d’Italia, furono conculcate molte libertà del popolo italiano, quali quella politica all’autodeterminazione ed alla libera scelta dei propri governanti, quella di espressione, quella di associazione, quella di stampa e, soprattutto, quella religiosa dei cattolici.(8)
Riguardo, poi, ai cosiddetti «plebisciti di annessione» degli antichi Stati pre-unitari al Regno di Sardegna, è oramai acclarato e ben documentato che si trattò di consultazioni-farsa, la cui legittimità fu inficiata in toto, non solo per il clima di intimidazioni e di violenze in cui si svolsero, ma anche per i risaputi brogli dai quali furono caratterizzati.(9)
Un pietosissimo velo deve essere steso anche sui referendum abrogativi indetti nell’Italia repubblicana, molti dei quali si sono rivelati inutili, vuoi perché invalidi a causa del mancato raggiungimento dei relativi quorum, vuoi perché i responsi popolari (ad esempio, quello sul finanziamento pubblico ai partiti politici o quello sulla responsabilità civile dei magistrati) sono stati successivamente disattesi attraverso molteplici sotterfugi ben noti a tutti gli italiani e sui quali, in questa sede, reputo superfluo soffermarmi. Una vera e propria presa in giro!
Non credo che possano, infine, ritenersi democratici quei regimi che non amministrino con onestà la cosa pubblica, ignorando quel principio cardine di buon governo, immortalato dal brocardo latino: «obliti privatorum, publica curate [dimentichi dei privati interessi, occupatevi degli affari dello Stato]»; che non assicurino l’efficienza e l’imparzialità della giustizia, tanto quella penale, quanto quella civile e quella amministrativa; ovvero quei governi che, nell’odierno mondo globalizzato, attraverso l’uso di strumenti ancora più subdoli di quelli impiegati in passato, come l’indulgenza legislativa verso l’usura bancaria, non disgiunta da una contestuale iniqua tassazione, soffochino l’economia di un Paese, spingano al fallimento le attività economico-produttive e generino, di conseguenza, elevati livelli di disoccupazione, tanto da indurre al suicidio padri di famiglia e figli del popolo, ormai privati di ogni benché minimo mezzo di sostentamento.
Alla luce della chiave di lettura fin qui utilizzata, ritengo che nel nostro Sud, prima dell’unità d’Italia, in luogo di una banale ed inutile democrazia puramente «formale», esistesse una «democrazia sostanziale», di fatto. Vediamo perché.
Cominciamo col dire che il Regno delle Due Sicilie era uno Stato legittimo e sovrano, che nei 730 anni della propria storia non aveva mai nutrito mire espansionistiche e che, quindi, non aveva mai aggredito o minacciato nessuno. Pertanto, i figli del popolo duosiciliano non erano mai stati mandati a morire in alcuna guerra di conquista. Esso, al contrario, ha solamente subito infami e sanguinose aggressioni!
Lo storico Giacinto de’ Sivo,(10) testimone coevo, ci informa che nella società delle Due Sicilie «…la vita lieta e a buon mercato, piena di ricreazioni e godimenti era; chi non si impicciava di sette era civilmente liberissimo, e poteva far quello che voleva (…); qui tenui le statistiche dei delitti: raro l’omicidio, pochi i poveri, la fame quasi male ignoto; la carità religiosa e privata, comunale e governativa provvedeva; non carta moneta, tutto oro e argento, poche tasse, poche privazioni, con poco si godeva tutto. Facile il lavoro, lieve il prezzo, molte feste popolari, rispetto ai gentiluomini, giustizia, tutela, sicurezza per tutti, ordine sempre. Nella somma delle cose il reame era il meglio felice del mondo; e quanti vi arrivavano stranieri si arricchivano, e i più restavano. La popolazione in quarant’anni crebbe d’un quarto».(11)
Ebbene, in tutta franchezza, confesso che io preferisco senz’altro una siffatta forma di governo, poiché la giudico molto più democratica dei sedicenti «regimi democratici» che l’Italia unita ha avuto durante gli ultimi 151 anni della sua storia; e, meno che meno, gradisco quella attuale!
Ma, poiché qualcuno potrebbe ovviamente obiettare che Giacinto de’ Sivo era un filo-borbonico, reputo opportuno ricordare anche le illuminanti parole di un’autorevole personalità del tutto aliena da simpatie borboniche, ma senz’altro intellettualmente onesta, il liberale Francesco Saverio Nitti.(12) Lo statista, in merito al governo dei re Borbone, affermò che essi miravano «...ad assicurare la maggiore prosperità possibile al popolo (...) non si contentavano se non di contentare il popolo (...) bisognava leggere le istruzioni agli intendenti [i prefetti di oggi, n.d.r.] delle province, ai commissari demaniali, agli agenti del fisco per sentire che la monarchia cercava basarsi sull’amore delle classi popolari. Il re stesso scriveva agli intendenti di ascoltare chiunque del popolo; li ammoniva di non fidarsi delle persone più potenti; li incitava a soddisfare con ogni amore i bisogni delle popolazioni».(13)
Lo stesso Nitti ci fornisce, inoltre, una fulgida attestazione di gratitudine e di attaccamento del popolo meridionale alla Dinastia borbonica, riferendo che: «Le masse popolari delle Due Sicilie, da Ferdinando IV in qua, tutte le volte che han dovuto scegliere tra la monarchia napoletana e la straniera, tra il re e i liberali, sono state sempre per il re: il ’99, il ’20, il ’48, il ’60, le classi popolari sono state per la monarchia borbonica e per il re».(14)
Ed è fin troppo chiaro che le motivazioni a supporto dell’atteggiamento delle «masse popolari delle Due Sicilie», nelle scelte rilevate da Francesco Saverio Nitti, sono racchiuse proprio nel buon sistema sociale, politico ed economico in cui vivevano le popolazioni del Meridione d’Italia; queste condizioni di vita, così ben descritte dal summenzionato Giacinto de’ Sivo, sono indice inequivocabile del «reciproco rispetto» fra governanti e governati, che costituisce un valore fondamentale ed irrinunciabile nelle più autentiche forme di democrazia.
A ragion veduta, quindi, lo storico inglese Bolton King (1860-1937) affermò che «nessuno Stato in Italia poteva vantare istituzioni così progredite come quelle del Regno delle Due Sicilie».(15)
Ma c’è di più. Oltre alle direttive impartite ai responsabili della pubblica Amministrazione del Regno, lo stesso re Ferdinando II usava normalmente tenere «udienza privata» nel Palazzo reale di Napoli per due volte al mese. Chiunque del popolo poteva farne richiesta, venendo quindi inserito in una lista compilata dal c.d. «usciere maggiore», fino a che non si fosse raggiunto il numero massimo di sessanta persone al dì. Nel giorno loro assegnato, i convenuti affluivano nella Reggia e, dopo aver atteso il proprio turno nella gran sala [precisamente il salone che, all’epoca, era arredato con le due grandi tele del pittore romano Vincenzo Camuccini (1771-1844), raffiguranti rispettivamente la morte di Cesare e la morte di Virginia],(16) venivano ricevuti dal Sovrano. Entravano prima le donne e poi gli uomini, mentre i militari accedevano da ultimi, poiché per loro era più facile poter conferire con il re, disponendo di ulteriori opportunità presso gli acquartieramenti e nei campi d’arme.(17)
Non mi risulta che altrettanto abbiano fatto i sedicenti «costituzionali» re Savoia o facciano gli attuali presidenti della Repubblica italiana!
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Note:
1 Le limitazioni formali consistono nella necessità, affinché il referendum possa essere indetto, che la relativa richiesta venga avanzata da 500.000 elettori, oppure da 5 Consigli regionali (art. 75, comma 1, Cost.) e nella necessità, ai fini della validità della consultazione referendaria stessa, che vengano assicurati i seguenti quorum: a) partecipazione della maggioranza degli aventi diritto; b) raggiungimento della maggioranza dei voti validamente espressi (art. 75, comma 4, Cost.). Le limitazioni sostanziali riguardano invece le materie, in quanto sono escluse dal referendum popolare abrogativo le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, nonché di autorizzazione a ratificare trattati internazionali (art. 75, comma 2, Cost.).
2 Durante l’invasione francese della Penisola, molti furono i movimenti popolari che spontaneamente insorsero in Italia contro tale aggressione: tra i più noti e rilevanti, rammentiamo i «Viva Maria» in Toscana e le «Pasque Veronesi» nel Veneto. Cfr. Massimo Viglione, “La Vandea italiana”, Effedieffe, Milano, 1996.
3 In particolare, a Napoli, nei giorni 21, 22 e 23 gennaio 1799, mentre l’intera città combatteva e moriva contro le truppe francesi, i giacobini, asserragliatisi in Castel Sant’Elmo, cannoneggiarono vigliaccamente alle spalle il popolo, provocando un bagno di sangue fra la propria gente, come peraltro testimoniò lo stesso generale Jean Antoine Championnet, comandante in capo dell’Armata francese. Dopo tre giorni di feroci combattimenti, i francesi furono padroni della città disseminata di cadaveri: si contarono 2.000 morti tra le fila degli invasori francesi e ben 10.000 fra i napoletani. Cfr. Gustavo Rinaldi, “1799 la Repubblica dei traditori. Il popolo del Regno di Napoli contro gli invasori francesi e i loro lacchè giacobini”, Grimaldi & C., Napoli 1999, pag. 38. Inoltre, durante i 5 mesi della c.d. repubblica (fantoccio) partenopea, furono massacrati dai franco-giacobini oltre 60.000 regnicoli, come ebbe a testimoniare il generale francese Paul Thiébault nelle sue Memorie. Cfr. Paul Thiébault, “Mémoires du Géneral P.Thiébault”, Paris, 1894, vol. II. pagg. 324-325; in Gustavo Rinaldi, “1799...”, op. cit., in nota 6, pagg. 38-39.
4 In virtù della legge elettorale piemontese del 1848, gli aventi diritto al voto (per censo o per nascita) erano appena 418.696 persone su 21.776.953 abitanti, pari all’1,9% dell’intera popolazione. Alle prime elezioni politiche per la formazione del nuovo Parlamento piemontese allargato all’Italia (le consultazioni si svolsero il 27 gennaio 1861, prima che il 17 marzo dello stesso anno fosse proclamato il Regno d’Italia), i votanti furono 239.583, pari al 57% degli aventi diritto e, quindi, circa l’1% della popolazione. Cfr. Gerlando Lentini, “La bugia risorgimentale”, il Cerchio, Rimini, 1999, pagg. 31-32.
5 Angela Pellicciari, “L’altro risorgimento. Una guerra di religione dimenticata”, Ares, Milano, 2011, pag. 87.
6 Camillo Benso conte di Cavour, nel Senato subalpino, al maresciallo Vittorio Della Torre, che gli rinfacciava l’avversione della popolazione ai provvedimenti anticattolici della soppressione degli Ordini religiosi e della confisca dei loro beni, candidamente rispose: «Io, in verità, non mi sarei aspettato di vedere invocata dall’onorevole maresciallo l’opinione di persone, di masse, che non sono e non possono essere legalmente rappresentate». Il sedicente liberale Cavour, presidente del Consiglio del Regno sabaudo – Stato che riteneva di essere moralmente migliore degli altri Stati italiani, perché asseritamente rispettoso della libertà dei propri cittadini – non provò vergogna nell’ammettere che la libertà che aveva in mente valeva per i soli liberali. Cavour pensava ed affermava che l’opinione della stragrande maggioranza della popolazione (vale a dire della massa cattolica), che per semplici motivi di censo non aveva diritto al voto, non contava nulla per definizione. Cfr. Angela Pellicciari, “L’altro risorgimento”, op. cit., pagg. 136-137.
7 Antonio Gramsci, “L’Ordine Nuovo” del 1920, Giulio Einaudi Editore.
8 Angela Pellicciari, “L’altro risorgimento”, op. cit., nonché “Risorgimento da riscrivere. Liberali & massoni contro la Chiesa”, Ares, Milano, 1998.
9 Il plebiscito-farsa che ci interessa più da vicino fu quello svoltosi nell’Italia meridionale il 21 ottobre 1860. Gli stessi ambasciatori di Francia ed Inghilterra (potenze favorevoli all’annessione delle Due Sicilie al Regno piemontese) ne presero le distanze. Sir Henry Elliot, ministro inglese a Napoli, osservò che: «a Napoli vogliono l’autonomia, ma sono costretti a votare l’annessione». Giacinto de’ Sivo testimoniò che: «per tutta la città, garibaldini e camorristi prelevavano i cittadini e li portavano al voto. In ogni seggio vi erano due urne (una per il SI ed una per il NO) e, quando capitava che qualche impudente osava preferire la cartella del NO, provava il bastone ed il coltello». Filippo Curletti, agente segreto di Cavour, nel suo diario ci rivela che: «...pel voto di annessione, un piccolo numero di elettori si presentò a prendervi parte, ma al momento della chiusura delle urne, noi vi gettammo dentro i biglietti, naturalmente in senso piemontese, di quelli che si erano astenuti; non tutti peraltro, ciò si intende; noi ne lasciavamo da parte qualche centinajo o qualche migliajo, secondo la popolazione del collegio. Bisognava bene salvare le apparenze, almeno in faccia all’estero, perché all’interno sapevamo a quale espediente attenerci. (...) Anche prima dell’apertura del voto, carabinieri ed agenti di polizia travestiti ingombravano le sale dello scrutinio e l’ingresso alle medesime. Era sempre fra di loro che sceglievamo il presidente dell’uffizio e gli scrutatori. Noi non eravamo quindi molestati da questo lato. In certi collegi questa introduzione di massa nell’urna dei biglietti degli agenti (noi chiamavamo ciò “completare il voto”) si fece con tale sicurezza e con così poca attenzione, che lo spoglio dello scrutinio diede più votanti che elettori inscritti. Vi si rimediò facilmente con una rettificazione nel processo verbale». Cfr. Filippo Curletti, “La verità sugli uomini e sulle cose del Regno d’Italia. Rivelazioni di J.A. agente segreto del conte Cavour”, a cura di Elena Bianchini Braglia, Terra e Identità, Modena, 2005, pag. 51-52.
10 Giacinto de’ Sivo (1814-1867), scrittore e storico napoletano, fu arrestato più volte dopo la proclamazione del nuovo Stato italiano e pagò anche con l'esilio la sua fedeltà alla verità storica.
11Giacinto de’ Sivo, “Storia delle Due Sicilie, dal 1847 al 1861”, Berisio, Napoli, 1964.
12 Francesco Saverio Nitti (1868-1953), uomo politico ed economista, fu Presidente del Consiglio del Regno d'Italia dal 23 giugno 1919 al 15 giugno 1920.
13 Francesco Saverio Nitti, “Scritti sulla questione meridionale”, Laterza, Bari, 1958, pagg. 27-32; in Gennaro De Crescenzo, “Ferdinando II di Borbone”, il Giglio, Napoli, 2009, pag. 51.
14 Francesco Saverio Nitti, “Nord e Sud”, Calice Editori, Rionero in Vulture (PZ), 1983, pag. 22.
15 Doctor J., “Diritto e carceri nelle Due Sicilie”, in http://www.frontemeridionalista.net, 4 gennaio 2011.
16 Nel 1864, queste tele furono trasferite presso la Reggia di Capodimonte, ove Annibale Sacco riordinò la Pinacoteca dello stesso Palazzo.
17 Mariano D’Ayala, “La vita del re di Napoli Ferdinando II”, Tipografia V. Steffenone, Camandona e C., Torino, 1856, pag. 31.
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