mercoledì 6 febbraio 2013

Il Risorgimento anti-italiano



di Angela Pellicciari

Un intervento sulle polemiche sorte dopo la beatificazione di Pio IX


È convinzione comune che l'unificazione nazionale abbia avuto nei Savoia i propri alfieri perché moralmente (e quindi civilmente) migliori degli altri sovrani della penisola. Libertà e costituzione: detto in due parole sono queste le caratteristiche che avrebbero permesso ai reali di Sardegna di vincere; i Savoia sarebbero stati gli unici a garantire il progresso e la civiltà in un desolato panorama di arretratezza e di assolutismo oscurantista e superstizioso. Ebbene, se andiamo ad analizzare il concreto comportamento dei governi liberali, e di casa Savoia, ci accorgiamo che la costituzione (lo Statuto albertino) è sistematicamente fatta a pezzi proprio da coloro che si definiscono scupolosi seguaci del dettato costituzionale.
A partire dal 1848 i vari parlamenti subalpini si esercitano in animate discussioni sulla necessità di mettere fuori legge gli ordini religiosi della Chiesa cattolica: ma la "religione cattolica apostolica e romana è l'unica religione di Stato", come solennemente dichiara il primo articolo dello Statuto. È in corso la prima guerra di indipendenza contro l'impero austriaco ma i deputati sembrano non preoccuparsi tanto delle disastrose sorti della campagna militare quanto della presenza all'interno dello Stato di un nemico subdolo e potente: la Compagnia di Gesù definita "lue" e "peste". E così i "liberali" sardi decidono la soppressione (e l'incameramento dei rispettivi beni) dei gesuiti e stabiliscono che i padri debbano essere sottoposti a domicilio coatto non perché rei di qualche specifico misfatto, ma perché gesuiti. La sorte della Compagnia di Gesù è seguita da quella di altre prestigiose istituzioni cattoliche ritenute contagiate dall'ordine incriminato; dal momento che i gesuiti sono appestati è chiaro che infettano quelli che frequentano: i membri di altri ordini religiosi per l'appunto. L'intento di sopprimere tutti gli ordini religiosi della Chiesa di Stato (compiutamente realizzato nel 1873 con l'estenzione a Roma delle leggi eversive) è evidente dal 1848.
La guerra anticattolica riprende in Piemonte negli anni 1854-55 quando il governo Cavour-Rattazzi presenta un progetto di legge contro gli ordini mendicanti (francescani e domenicani in primo luogo) e contemplativi (monache di clausura) accusati, questa volta, di essere "inutili quindi dannosi". Proprio questa è l'incredibile imputazione addottata contro monaci e frati da Urbano Rattazzi, titolare dei dicasteri della giustizia e del culto. L'arbitrio (quale categoria, quale gruppo sociale, può essere certo di non incappare un giorno o l'altro nella definizione governativa di "inutilità"?) e il totalitarismo del "costituzionale" e "liberale" governo subalpino sono evidenti. Non è tutto. Il guardasigilli ritiene che, oltre a quella dell'inutilità, un'altra urgenza imponga la soppressione degli ordini religiosi: la necessità di fare giustizia all'interno della Chiesa attuando "una più equa" ripartizione dei suoi beni. Queste le testuali parole del ministro: è "impossibile negare la necessità d'una più equa ripartizione dei beni ecclesiastici [...] mentre si veggono benefizi con una rendita di oltre 100.000 lire [... esistono] altri benefizi la cui rendita non arriva nemmeno alle 500 lire. È forse giusto, è forse consentaneo ai principii della religione che esista questa disparità fra i membri del clero? No certamente [...] il progetto intende a introdurre la più equa ripartizione dei beni ecclesiastici". Togliere a chi ha di più per dare a chi ha di meno: si potrebbe sostenere che, almeno in teoria, avesse più ragione Lenin col pretendere l'applicazione di questo principio a cominciare (insieme a quelli della Chiesa) dai beni dei borghesi.
Sono molti, oltre al primo, gli articoli dello Statuto che diventano carta straccia: tanto per fare qualche esempio sono calpestate l'inviolabilità della proprietà privata "senza alcuna eccezione", l'asserita uguaglianza dei cittadini davanti alla legge (i membri degli ordini religiosi della Chiesa di Stato non sono garantiti), la tutelata libertà di associazione.
Il Regno di Sardegna, che non è certamete uno Stato costituzionale, non è nemmeno uno Stato "liberale" se per liberale si intende quanto il linguaggio comune definisce tale. Per rendersene conto basta analizzare cosa Cavour abbia in mente quando parla di libertà. Secondo il conte di libertà in senso proprio si può parlare solo per l'1,7% della popolazione che ha diritto di voto. Punto e basta. Tutti gli altri, per definizione, non contano né possono contare nulla. Proprio così sostiene nel 1855, al Senato, rispondendo all'autorevole maresciallo Vittorio Della Torre che osa mettere in dubbio l'asserita popolarità del provvedimento contro i conventi, chiamando a testimoni le migliaia di fedeli che affollano le chiese per scongiurare l'approvazione della legge. Ecco cosa afferma Cavour: "L'onorevole maresciallo ha detto che gran parte della popolazione era avversa a questa legge. Io in verità non mi sarei aspettato di vedere invocata dall'onorevole maresciallo l'opinione di persone, di masse, che non sono e non possono essere legalmente rappresentate".
Stando così le cose è evidente che anche la tanto sbandierata libertà di stampa sarà tale per la sola stampa liberale. Nel pieno della campagna antigesuitica, il 25 gennaio 1848, il provinciale Francesco Pellico (fratello del più noto Silvio) si rivolge a Carlo Alberto con queste sconsolate parole: "Era sapientemente dichiarato da V. M. nella nuova legge sulla stampa che dovesse rimaner inviolato l'onore delle persone e dei ministri della Chiesa. Ma pare che nell'avvilire e calunniare i Gesuiti non si tema di trasgredire la legge [...] esposti per la sola qualità di Gesuiti al pubblico odio o alla diffidenza e al dispregio. Intanto però i giornali e i libelli che ci fanno la guerra, approvati in ciò dalla censura, hanno diritto di rifiutare le nostre smentite; né tuttavia abbiam noi un altro organo imparziale da stamparle con uguale pubblicità, se pure non ci venga concesso di farlo per via della gazzetta del Governo". A colmare la misura penserà Cavour che non permetterà nemmeno la pubblicazione delle encicliche del Papa.
Sul piano della teorizzazione politica l'aspetto di maggior rilievo è forse quello relativo all'asserita necessità di garantire la libertà della Chiesa, nel rispetto di quella dello Stato: "libera Chiesa in libero Stato" come dirà Cavour. Si tratta del fondamentale principio del separatismo, illustrato in parlamento da Carlo Cadorna relatore della proposta di legge contro i conventi. In un lunghissimo quanto applaudito intervento l'onorevole Cadorna per definire la giusta separazione dei poteri fa ricorso alla volontà di Dio. Dio affiderebbe al potere spirituale la parte più intima e più preziosa dell'uomo, vale a dire la sua anima; la Chiesa si troverebbe così ad avere autorità sui "pensieri, le aspirazioni, le credenze". Secondo quest'ottica la Chiesa sarebbe "spirituale nel suo scopo, e noi non sapremmo invero comprendere troppo agevolmente quale nesso possa esistere [...] tra l'oggetto spirituale, cioè l'anima umana sulla quale la Chiesa può unicamente agire e gli oggetti materiali i quali hanno inabilità naturale di esercitare sull'anima un'azione di qualsivoglia natura". Al potere temporale, al contrario, Dio affiderebbe "la potestà... sopra i beni temporali e materiali". Stabilendo una più che dubbia identificazione fra ambito materiale e ambito temporale e confinando la Chiesa nel fantasioso regno delle coscienze (che, come noto, non sono visibili), anche sotto questo aspetto Cadorna (e la maggioranza di governo con lui) teorizza un totalitarismo assoluto che attribuisce allo Stato un potere smisurato. E così, dal momento che i visibili beni della Chiesa non diventano spirituali per il solo fatto di appartenere a un'istituzione spirituale (come esplicitamente afferma Cadorna), a maggior ragione la Chiesa non può rivendicare il possesso di un intero Stato. Cadorna non lo dice, ma è evidente che questo è uno dei principali obiettivi che la legge contro i conventi si ripromette di conseguire: la delegittimazione dell'esistenza dello Stato pontificio, che, vale la pena di ricordarlo, è il più antico Stato dell'Occidente.
Il Regno di Sardegna scatena in Italia la prima seria persecuzione anticattolica dall'epoca di Costantino seguendo pedissequamente le orme dei riformatori protestanti: non a caso i migliori, anzi gli unici alleati di Vittorio Emanuele, sono proprio i governi liberali e massonici, nemici dichiarati della Chiesa di Roma. Con questo non vorremmo sminuire l'indubbia novità dei provvedimenti antireligiosi di casa Savoia: quello italiano è infatti l'unico caso in cui una guerra di religione contro la Chiesa è scatenata in nome della stessa Chiesa. Nessuno, in Europa, era arrivato a tanto. Pio IX non si stancherà di ripeterlo in decine di encicliche e il 9 ottobre 1861, tanto per fare un esempio, dopo aver elencato le gesta dei liberali ("Inorridisce il cuore al ricordo dei molti centri del napoletano incendiati e rasi al suolo, ai moltissimi religiosi e cattolici di ogni età, sesso e condizione, gettati in prigione senza processo o crudelmente uccisi") esplicitamente afferma: "Misfatti simili si commettono da coloro che non arrossiscono di proclamare di voler dare libertà alla Chiesa, e restituire all'Italia il senso morale". Per la contraddizion che nol consente Vittorio Emanuele, rivendicando il diritto a governare l'Italia in nome della Costituzione e della libertà, non può denunciare apertamente la lotta scatenata contro la fede della stragrande maggioranza dei cittadini (garantita per di più dal primo articolo dello Statuto) e deve anzi risolutamente negarla.
È ingenuo domandarsi il perché di un uso così sistematico e spregiudicato della menzogna? Forse non sarà inutile ricordare che 57.492 sono i membri degli ordini religiosi soppressi, derubati di ogni avere (case, arredi sacri, biblioteche e archivi, oggetti di culto, terreni): centinaia di edifici splendidamente conservati, opere d'arte di inestimabile valore, più di 2 milioni e mezzo di ettari di terra, vanno ad arricchire, acquistati per due lire, l'1% della popolazione di fede liberale. Come conseguenza di questo massiccio spostamento di ricchezza nel giro di venti anni la percentuale dei proprietari terrieri crolla del 38% (si passa dai 191 ogni mille abitanti del 1861, ai 118 del 1881) e alle classi sociali marginali, private del sostegno capillare loro offerto dalle opere caritative della Chiesa e dalle decine di migliaia di opere pie (anch'esse soppresse), non resta che l'emigrazione.
Il vantaggio materiale, pur cospicuo, non basta però da solo a spiegare il totalitarismo liberale. Il fatto è che la maggioranza dei liberali ritiene in buona fede di costituire l'unica speranza di salvezza della povera Italia, abbrutita e schiavizzata da più di un millennio di fede cattolica. Non sarà difficile capire questa convinzione dei liberali dell'Ottocento visto che ancora oggi molti autorevoli commentatori imputano tutte le "arretratezze" nazionali alla mancata Riforma. Succede così che, in nome della libertà, l'1% della popolazione ciecamente convinta della verità del proprio credo, disprezzando la cultura e la tradizione del restante 99, smantella con violenza tutto il tessuto politico, economico e sociale della penisola. Dominati da un cieco spirito di onnipotenza, i liberali danno vita a uno Stato totalitario che si fregia del nome di "libero" e che realizza per la prima volta dopo più di due millenni l'asservimento culturale, economico e politico dell'Italia ad altre nazioni acriticamente definite "civili".
Il disprezzo dei liberali per l'identità nazionale, cattolica, e la loro volontà demiurgica di creare un'umanità di tipo nuovo (l'Italia è fatta, si tratta di fare gli italiani, si dirà autorevolmente) cozza con un dato di fatto di straordinaria evidenza. A stare ai dati dell'Unesco l'Italia possiede, da sola, più della metà dei beni artistici dell'intero pianeta. Il primato della bellezza è la prova più manifesta dell'errore liberale. Il Bel Paese, nonostante il degrado, sta ancora lì a dimostrare la grandezza della tradizione e della cultura dell'Italia cattolica. A partire da questa verità, da questo dato di fatto, si può forse cominciare a valutare con maggiore equanimità il nostro passato ingiustamente incriminato. Chissà che la verità storica sulla natura "antitaliana" del Risorgimento non riesca a sanare le ferite generate da un processo tanto violento quanto ingiusto contro la nostra identità nazionale. Chissà che non si finisca per constatare che la Chiesa di Roma è stata (ed è tuttora) per l'Italia occasione di primato mondiale.

Liberal - Febbraio/Marzo 2001

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