Il vecchio opificio meccanico Catello Coppola di Castellammare di Stabia fu ristrutturato con la denominazione AVIS (Avioindustrie stabiesi) alla dipendenza del gruppo Caproni. |
Per capire quale fu lo sviluppo economico e industriale di Napoli nel ventennio fascista,ossia nel periodo tra le due guerre mondiali,occorre premette che esso non può prescindere da quella che fu la politica meridionalistica del Regime. Napoli,pur nella sua particolarità di grande conglomerato urbano non era qualcosa di avulso dal Mezzogiorno nel suo complesso. E,contrariamente a quanto si è detto in seguito anche prendendo spunto da quanto scritto dal Tasca sulla questione meridionale nell’Enciclopedia Italiana,il Fascismo non ignorò la questione meridionale,che considerò però come qualcosa di variegato e non unitario e comunque parte integrante di un'unica questione nazionale. Non a caso la più importante rivista di studi al riguardo si chiamò “Questioni meridionali” fra il 1934 e il 1939, per sottolineare la pluralità di problemi che si nascondevano sotto il termine “questione meridionale”. La rivista fu diretta da Giuseppe Cenzato e Francesco Giordani,personaggi che in gran parte dopo la disfatta si ricicleranno con l’antifascismo e giunsero pure a collaborare con il PCI.
E ancora è da dire che,mentre in campo politico in Italia nel corso del primo cinquantennio dello scorso secolo vi sono stati tre regimi politici - quello liberale,quello fascista e quello democratico -repubblicano - nel campo economico,e non solo per quel che concerne Napoli e il Mezzogiorno, non vi è stata praticamente alcuna soluzione di continuità. Spesso gli stessi personaggi che avevano collaborato con Nitti ministro del Tesoro - tipici Beneduce, Menichella, Pasquale Saraceno - saranno nel 1933 alla testa dell’IRI costituito dal Fascismo dopo la “grande crisi” e nel secondo dopoguerra daranno vita alla Cassa del Mezzogiorno. Il Fascismo,che costrinse Nitti all’esilio, adottò in politica economica gran parte del programma nittiano, che già era stato definito da Gobetti l’unico serio programma per un’Italia conservatrice. Basti pensare al riguardo proprio a Napoli: il Fascismo attuò l’idea nittiana della “grande Napoli” con l’accorpamento nella struttura municipale di Napoli di comuni limitrofi quali Bagnoli, Secondigliano, Pianura, Soccavo, Barra, Ponticelli, San Giovanni a Teduccio, Chiaiano. Occorre dire che fin dal primo momento il “problema Napoli” fu considerato dal Fascismo così particolare che ritenne non bastasse, come per altre città d’Italia, sostituire i sindaci elettivi con i podestà: a Napoli si ebbero spesso gli “Alti Commissari” fra i quali si ricorda soprattutto Castelli. E’ anche da dire che lo sviluppo economico a Napoli fu strettamente collegato alle due fasi della politica economica fascista: quella “liberista”, impersonata soprattutto dal ministro delle Finanze Alessandro de’ Stefani fino al 1930, e quella “interventista” dopo la “grande crisi” con la costituzione dell’IRI, del1’IMI, il complesso e originale sistema delle Partecipazioni Statali e la legge bancaria del 1936.
Nella prima fase, soprattutto nei tre anni – 1925-26 - in cui fu ministro delle Finanze Giuseppe Volpi di Misurata, successore del de’ Stefani ma in sostanza continuatore della sua politica, si ebbe la ristrutturazione delle fabbriche del gruppo Cotoniere Meridionali e la riapertura dell’Ilva nittiana di Bagnoli (polo siderurgico) anche in vista della “direttissima” ferroviaria Napoli-Roma via Formia, che evitava la deviazione per Cassino. Favorirono questa ripresa i buoni rapporti stabiliti dal Volpi con gli Stati Uniti donde l’esuberanza di capitali stranieri che favorirono anche l’industria napoletana, 1’istituzione appunto dell’Alto Commissario della provincia di Napoli e alcune particolari provvidenze fiscali che avvantaggiarono soprattutto l’industria conserviera che aveva allora a Napoli il principale fulcro nella CIRIO[1][1]. L’Alto Commissario fu istituito con decreto del 1925 per un periodo di cinque anni,ma fu prorogato fino al 1935. Fino al 1932 fu Alto Commissario il pugliese Michele Castelli, successivamente il genovese Pietro Baratono. Di particolare giovamento alle industrie conserviere napoletane fu il RDL 23 ottobre 1924 n.1736 che riduceva di tre quarti l’imposta di fabbricazione dello zucchero da marmellate e abbassava il dazio di confine relativo. Sempre in questo periodo si costruiscono a Napoli i primi impianti per la produzione di benzina, come la Benit (SA Benzina italiana) per l’estrazione della benzina dai residui della distillazione degli oli minerali.
L’impianto Benit si collegò al ponte di Vigliena con due oleodotti della lunghezza di 1860 metri. Ma sorgono altri depositi e punti di vendita quali quello dell’AGIP, primo nucleo del futuro ENI, la SIPOM (Società impianti e provvista di oli minerali), la SIAP (Società italoamericana per il petrolio). Riaprono o sorgono ex novo anche industrie indotte o comunque collegate all’industria conserviera, quali la Società Lattografica controllata da Signorini, “patron” della CIRIO, la Metalgraf, che produce barattoli e recipienti di latta, la Dewey & Almy Chemical Company a prevalente capitale americano che produce mastice, la Gold Seal Lining Company, la Metallurgica Meridionale, specializzata nei profilati di ferro per l’edilizia e le macchine agricole, l’ACME (Anonima Costruzioni MEridionali) che costruisce ville e abitazioni soprattutto a Bagnoli e Arco Felice, la Vetreria Meccanica Italiana, la Cristalleria Nazionale, la Precisa che produce macchine utensili esportate soprattutto in Nord America, la SAMSA (Società Anonima Meridionale Seta Artificiale) che produce viscosa e fibre artificiali in genere.
La ripresa produttiva è favorita anche dalla trasformazione del Banco di Napoli che perde sì il suo potere di emissione, ma che diventa organismo finanziario operante a sostegno della piccola, media e grande industria. È il Banco di Napoli a promuovere la costituzione della Società Autostrade Meridionali con l’esecuzione del tratto Napoli - Pompei, primo tratto della Napoli – Salerno, che sarà completata dopo la guerra. Al censimento industriale del 1927 risultano nella città. di Napoli 75.002 addetti all’industria su una popolazione di 843.751 abitanti, quindi quasi il 10% in un’epoca in cui l’intera Italia e non solo il Sud era considerata un Paese prevalentemente agricolo.
La crisi del 1929 arrestò questo sviluppo produttivo per almeno cinque anni sia per il mancato afflusso dei capitali USA, sia perché fu danneggiato 1’interscambio commerciale. Molte industrie furono costrette a chiudere o a ridimensionare impianti e produzione. Persino le allora floride Manifatture Cotoniere meridionali ebbero il loro momento di difficoltà, da cui uscirono grazie all’impulso del Banco di Napoli. Fu quello il momento dell’IRI e dell’intervento dello Stato nell’economia industriale. Il Fascismo, che aveva puntato soprattutto sull’agricoltura, sulla ruralizzazione dell’economia italiana e su un rallentamento dello sviluppo industriale, fu costretto dalla “grande crisi” ad accelerare l’industrializzazione italiana per arginare un eventuale effetto disoccupazione. Il che avvenne anche in seguito alla guerra d’Etiopia, alla scelta dell’autarchia e al riarmo.
La conquista dell’Impero significò anche lo spostamento del baricentro politico - economico del Paese verso il Mezzogiorno e l’assunzione da parte di Napoli del ruolo di principale porto proiettato verso l’Africa. Già fra il 1934 e il 1935 le Officine Ferroviarie Meridionali, in collaborazione con le Industrie Aeronautiche Romeo di Pomigliano, avevano superato la crisi fornendo il 25% dei velivoli necessari alla guerra d’Etiopia all’Aereonautica militare. Tali Officine nel 1926 passarono sotto il controllo del gruppo Breda con il nuovo nome di Industrie Meccaniche e Aeronautiche Meridionali e costruirono l’aereo da combattimento tutto metallico Breda 88, che fece buona prova nella guerra di Spagna. Il vecchio opificio meccanico Catello Coppola di Castellammare di Stabia fu ristrutturato con la denominazione AVIS (Avioindustrie stabiesi) alla dipendenza del gruppo Caproni. Ma l’iniziativa più importante fu l’apertura il 1° aprile 1939 dello stabilimento aeronautico dell’Alfa Romeo a Pomigliano che occupava 7.000 operai.
In campo cantieristico, sempre nel 1939, si costituì grazie all’IRI la Navalmeccanica che assorbiva precedenti industrie quali i cantieri Pattison, la Bacini e Scali, il cantiere di Castellammare, le Officine meccaniche già Miani e Silvestri. Al posto delle Officine e cantieri meridionali di Baia si impiantò il Silurificio italiano, importantissimo durante tutto il corso della guerra, per non parlare dell’impianto a Bagnoli da parte della Montecatini di un vero polo chimico. Alla vigilia della seconda guerra mondiale dunque Napoli con la sua provincia era una vera città industriale con 128.776 addetti su una popolazione di 875.855 abitanti, dunque il 14%. Per quanto concerne l’intera provincia gli addetti all’industria erano il 34,53% della popolazione attiva contro il 30,65% degli addetti all’agricoltura. Questo senza sottovalutare la prevalenza o di industrie di Stato, dovute dunque all’IRI, o di industrie come la Montecatini aventi i loro centri direzionali nel Nord.
Va detto che la gestione della politica di sviluppo a Napoli fu mantenuta dal governo nazionale attraverso gli organi dello Stato quali prefetti, alti commissari e al massimo podestà. Non vi fu, come in altre città d’Italia quali Firenze o Ferrara, la gestione strettamente politica da parte dei locali “ras” o dei federali. A Napoli non vi fu un Pavolini che istituì il Maggio musicale fiorentino o un Di Crollalanza che strutturò integralmente la Bari nuova. E questo perché il “ras” locale, Aurelio Padovani, cadde ben presto in disgrazia e fu addirittura espulso dal partito. Qualche eccezione però vi fu, come nel caso di Vincenzo Tecchio, cui ancora miracolosamente è dedicata una piazza a Napoli, chefu il massimo promotore e diremmo creatore della Mostra d’Oltremare, il cui significato era quello della proiezione di Napoli, del Meridione e dell’Italia intera verso il Mediterraneo.
Tecchio, già braccio destro di Padovani e poi contrarissimo alla sua riammissione nel partito, oltre che presidente della citata Mostra, fece parte del consiglio d’amministrazione della irizzata Navalmeccanica e dell’Alfa Romeo di Pomigliano.Anche Tecchio avrà un periodo di eclissi dopo la fine della segreteria Farinacci, ma riemergerà nel 1934 con l’assunzione della carica di federale da parte di Francesco Picone e chiuderà la sua stagione politica nella Repubblica Sociale. Comunque tutti i più noti federali di Napoli, da Nicola Sansanelli a Niccolò Castellino, da Natale Schiassi a Picone, da Edoardo Saraceno agli ultimi Fabio Milone e Francesco Saverio Siniscalchi, anche per temperamento personale, non furono se non marginalmente protagonisti dello sviluppo economico di Napoli in quel periodo, mentre lo furono invece tecnocrati come Ivo Vanzi, Giuseppe Paratore, Giuseppe Cenzato, Stefano Brun, e in genere l’ambiente dirigenziale della SME (Società Meridionale Elettrica), cui fu facile poi riciclarsi nella restaurata democrazia.
A titolo di curiosità va ricordato che dal novembre 1927 al gennaio 1930 fu commissario al comune di Napoli l’ebreo Dante Almansi, il quale nel 1939, dopo le leggi razziali, diventerà presidente dell’Unione delle Comunità israelitiche. I tecnocrati come Cenzato e Giordani dettero vita, oltre che alla menzionata rivista “Questioni meridionali”, anche alla Fondazione Politecnica per il Mezzogiorno d’Italia, il cui scopo era di promuovere la cultura tecnica e le attività industriali nel Sud, in pratica la formazione di una classe dirigente adeguata.
Alla “Fondazione” si deve il piano regolatore di Napoli, elaborato nel 1936 e approvato con legge nel 1939. Da notare che quasi tutti i nomi dei dirigenti della “Fondazione” si ritroveranno dopo il 1945 nel CEIM (Centro Economico Italiano per il Mezzogiorno) promosso dal partito comunista cui parteciparono Giuseppe Paratore, Giovanni Porzio, Giorgio Amendola ed Emilio Sereni. Il piano regolatore, giudicato positivamente da esperti urbanisti, fu completamente disatteso nel dopoguerra, anche da amministrazioni di destra, e travolto dalla grande speculazione edilizia.
Il periodo tra le due guerre è anche contraddistinto a Napoli da uno sviluppo dell’edilizia che,se non è paragonabile alla speculazione selvaggia del dopoguerra, fu notevole e incisivo, anche perché accompagnò fenomeni di mobilità sociale. Lo sviluppo edilizio non fu dovuto solo all’imprenditoria privata, ma anche alle cooperative e allo IACP (Istituto Autonomo Case Popolari). Le case dell’Istituto furono date in genere a proletari specializzati, impiegati, militari soprattutto sottufficiali. Quando si ebbe il risanamento del Rione Carità, la massima opera urbanistica compiuta dal Fascismo a Napoli e nel dopoguerra completata da Lauro, le famiglie sgombrate o furono alloggiate in case dell’istituto o ricevettero un sussidio.
Le due opere maggiori sul piano della ristrutturazione urbanistica furono dunque il Rione Carità e la Mostra d’Oltremare cui si collegava la costruzione di un quartiere del tutto nuovo quale Fuorigrotta, ben presto popolato da piccola borghesia. Furono curate le infrastrutture, come dimostrano la galleria Laziale, uella della Vittoria, la funicolare centrale e quella di Mergellina. Si vollero migliorare i collegamenti tra il Vomero e il Centro oltre che tra la parte orientale e quella occidentale della città. Grazie anche allo sviluppo edilizio cominciò lo spostamento della borghesia benestante verso i quartieri Chiaia, Vomero e Posillipo, ove un tempo esistevano solo ville per vacanze. Oltre la bonifica del rione Carità si ebbe su scala minore quella del rione Betlemme alle spalle di via dei Mille. Si tentò anche, ma con scarso successo, la chiusura dei “bassi” attraverso tre diverse ordinanze del 1924, del 1928 e del 1934. I “bassi” erano, come sono ancora, rifugio di sottoproletari,,di malavitosi e qualche volta anche di artigiani. Le famiglie sgombrate furono alloggiate in case popolari o ricevettero un sussidio. Ma non mancarono provvedimenti più drastici: nel 1928 furono espulsi dalla città 1.400 pregiudicati e 5.000 persone che non avevano un mestiere dichiarato[2][2].
Indubbiamente si puntava molto alla “facciata” tanto da proibire addirittura di stendere i panni sui balconi. Ma l’immagine reggeva molto più che con il “rinascimento” di Bassolino: nel 1928 la rivista municipale riportava un articolo della “Gazette de Lausanne” che definiva Napoli irriconoscibi1e per la buona pavimentazione, la pulizia delle strade, le facciate dei palazzi ripulite. Napoli dei “fondachi” e dei vicoli descritta nelle “Lettere meridionali” di Pasquale Villari sembrava solo un ricordo. Certo si sarebbe potuto fare di più e lo si sarebbe fatto se non fosse sopravvenuta nel 1935 la stagione delle guerre: prima quella d’Etiopia, poi quella di Spagna e infine il catastrofico secondo conflitto mondiale.
Gabriele Fergola
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