martedì 9 ottobre 2012

L’economia del Regno Siculo-Partenopeo

 
tra il declino mediterraneo e la rivoluzione liberale

di Fara Misuraca ed Alfonso Grasso
Il lento tramonto della feudalità
Sul finire del XVIII secolo il Mezzogiorno d’Italia, allo stesso modo delle altre regioni italiane e della maggioranza dei paesi europei, era di fatto e di diritto un sistema feudale. Della necessità di superare tale stato feudale e del come, se ne occupò largamente anche un nostro studioso, Gaetano Filangieri, ne La Scienza della Legislazione. Nel suo trattato egli distinse due tipi di feudalità: la feudalità in quanto sistema istituzionale-politico e la feudalità in quanto complesso di rapporti tra economia, classi sociali, cultura, morale, comportamento, ecc. L’emancipazione da questi due tipi di feudalità deve necessariamente seguire tempi e percorsi diversi.
In Francia la feudalità “istituzionale” fu abolita nel 1789, in Italia ci si arrivò in seguito alle invasioni napoleoniche. Le prime regioni a muoversi in tal senso furono quelle del centro-nord che per prime furono assoggettate a Napoleone. Seguirono quelle del Mezzogiorno continentale governate da Giuseppe Bonaparte (1806) prima e da Gioacchino Murat (1811) dopo [1].
In Sicilia, dove Napoleone non arrivò mai, si giunse comunque all’abolizione della feudalità nel 1812 ad opera però di un Parlamento di rito feudale. All’atto della Restaurazione, re Ferdinando I confermò l’abolizione della feudalità [2]. Malgrado tutte queste buone intenzioni, nel 1860, al momento dell’unità d’Italia, oltre il 40% delle terre coltivabili apparteneva al clero, circa il 25% era baronale, altrettanti del demanio e solo il 10% era diviso in piccole proprietà [3].
L’ultima regione italiana ad abolire il feudalesimo fu la Sardegna dei Savoia, nel 1836.
Questa trasformazione da società feudale in moderna, come prevedibile, in un primo momento riguardò solo l’aspetto giuridico-istituzionale; le riforme erano sulla carta ma la loro trasformazione in un sistema borghese necessitava di una applicazione continuata e cosciente per poterne cogliere gli effetti nel campo dell’economia, della cultura, della politica, ecc. La trasformazione della mentalità sociale richiedeva tempi ben più lunghi ed ogni paese europeo la affrontò e la risolse in tempi e modi diversi in funzione del substrato sociale, culturale e religioso di partenza.
Possiamo osservare infatti che nelle regioni europee che insistevano sulle coste settentrionali dell’Atlantico e che si erano svincolate dall’influenza del papato, la società iniziò a mutare in senso “borghese” già fin dalla prima metà del ‘600 allorché, dopo la scoperta dell’America, la cacciata degli Ebrei dai paesi cattolici e la riforma luterana, erano divenute il cuore pulsante dei commerci internazionali a scapito del sud d’Europa ed in particolare del Mezzogiorno d’Italia che rimase chiuso nel Mediterraneo quasi come in un ghetto. [4]
La posizione di sudditanza nel Reame Siculo-Partenopeo
La lentezza della transizione nelle Due Sicilie ed in particolare nell’isola di Sicilia fu influenzata dal ruolo che il Regno ebbe tra le potenze europee. Ricordiamo poi che tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX l’Europa affronta la crisi agraria e la rivoluzione industriale: o ci si rinnova o si perisce! Ed è la stessa rivoluzione industriale che fornisce i mezzi per trasformare l’agricoltura. In questo frangente a fare la parte del leone sono le due grandi potenze Gran Bretagna e Francia che grazie alla loro influenza politica e alla loro potenza militare cercano di conquistare quanti più possibili mercati e di subordinarli a loro vantaggio. In questo panorama il Regno borbonico, proprio per la sua dislocazione geografica, non è libero di avere né una politica estera indipendente né una economia indipendente. Politicamente l’economia meridionale, pur non essendo una economia coloniale, è fortemente condizionata dal mercato internazionale che è saldamente controllato da Francia e Inghilterra.
Dopo la caduta di Napoleone ad esempio, l’Inghilterra, che aveva fatto della Sicilia una sua base militare, la smilitarizzò ma mantenne con essa un rapporto economico privilegiato con la stipula, nel 1816 [5], di un apposito trattato di commercio rinegoziato nel 1845. Per attenuare questa condizione di dipendenza economica il governo di Napoli sottoscrisse anche trattati con la Francia, la Spagna, il nord Africa e la Russia. Più che i trattati, contavano però gli effettivi legami siculo-inglesi rappresentati dalla cospicua presenza di commercianti e imprenditori inglesi che godevano di un doppio status: quello di cittadini inglesi e quello di cittadini siciliani beneficiati dal governo locale di particolari agevolazioni fiscali e doganali. Si era venuto a creare una sorta di Stato nello Stato. Famiglie come gli Ingham, i Woodhouse, i Whitaker si stabilirono definitivamente in Sicilia, divennero siculo-inglesi e con le loro immense fortune realizzarono nei fatti la supremazia britannica nell’economia siciliana [6]. Questa situazione si ripercuoteva anche all’interno del Regno stesso.
I viaggi di Vincenzo Di Bartolo: un caso emblematico
È in questa situazione ad esempio che possiamo inquadrare i viaggi di Vincenzo Di Bartolo [7]. Tutto cominciò nel 1838 quando gli Ingham, grandi produttori di Marsala che operavano in Sicilia, gli fornirono un brigantino, l’Elisa, di appena 248 tonnellate, con il quale salpò da Palermo il 28 0ttobre con 12 marinai. Era fornito di una cambusa viva, portavano con loro maiali e galline e partirono per Sumatra via Boston. Perché Sumatra? Per il pepe, il pepe nero. Merce preziosissima ai tempi. Fu di ritorno il 14 dicembre del 1839 e aveva le stive talmente colme di spezie che i marinai dovettero fare il tutto viaggio di ritorno sopra coperta perché le esalazioni delle spezie erano talmente intense da non consentire di respirare. L’avvenimento ebbe una tale risonanza da convincere il re Ferdinando II di Borbone ad investirlo di particolari privilegi: fu conferita infatti a Di Bartolo la medaglia d’oro al merito civile e la nomina ad Alfiere di Vascello della Regia Marina Borbonica. La nomina ad Alfiere di Vascello era anche un bel regalo perché gli dava franchigia doganale per il carico dei bastimenti al suo comando. Come dire una bella evasione fiscale autorizzata dal re che fece la fortuna del Di Bartolo ma soprattutto degli Ingham. Costoro infatti, qualche mese dopo, nel 1840 gli armarono un altro bastimento, ben più grande del primo e lo inviarono in Brasile con un carico di vino, olio, noci, mandorle che vendettero a Rio e poi a Sumatra dove fecero il carico di spezie. I viaggi furono sei, avventurosi e non scevri di pericolo. Ma Di Bartolo, non perse mai né un uomo d’equipaggio né un carico di merce. La cosa è dimostrata dal fatto che i Lloyds inglesi gli ridussero i premi assicurativi. Tutto questo però fu praticamente ad esclusivo beneficio degli Ingham che non reinvestirono mai i loro guadagni nell’isola ma in Inghilterra e in America. In questo consisteva la sudditanza economica dalla quale evidentemente era difficile sfuggire.
Al di qua del Faro
La parte continentale e la parte isolana avevano due economie diverse. Nel napoletano, già a partire dalla fine del secolo XVIII erano sorte numeroso fabbriche ed imprese. Il sito ha dedicato a tale sviluppo numerose pagine, come da elenco in calce. Qui basti ricordare: l’industria metalmeccanica e siderurgica (circa 100 opifici metalmeccanici di cui 21 con più di 100 addetti e l’eccellenza costituita dallo stabilimento di Stato di Pietrarsa, nel 1860 la più grande industria d’Italia) [8]; la Cantieristica navale (il cantiere di Castellammare di Stabia, con 1.800 operai, l’Arsenale di Napoli con annesso bacino in muratura); l’industria tessile, capillarmente diffusa in tutto il Regno; le circa duecento cartiere; i pastifici alimentari; le fabbriche di cristalli e ceramiche, tra cui la rinomata Capodimonte.
La statua di Ferdinando II a Pietrarsa
Le aziende godevano dei vantaggi, ma subivano anche gli svantaggi, del protezionismo statale, specialmente con Ferdinando II teso all’autarchia. Il contesto in cui agivano era quello dell’economia dirigista borbonica, con la sua blanda pressione fiscale e, quindi, con investimenti altrettanto blandi.
Differenze apparenti
La differenze tra Sicilia e parte continentale erano tuttavia più apparenti che reali perché l’asse portante della società sia nel continente che nell’isola era rurale e in questo non ci sarebbe stato niente di male, se non fosse stato che la terra rimaneva saldamente in mano all’aristocrazia che, specie in Sicilia e nelle zone montane della parte continentale del Regno, ben si guardava dall’ammodernare le colture e continuava a sfruttare in maniera obsoleta il latifondo, con predominio della cerealicoltura e del pascolo, con scarso sviluppo del mercato interno. Inoltre è bene ricordare che il grano nella prima metà dell’ottocento aveva perso gran parte del suo valore strategico. L’espansione delle aree coltivate in Europa e la parallela evoluzione dei trasporti via mare fecero si che nel Mediterraneo ormai si commerciasse anche il grano russo e il grano turco a prezzi concorrenziali. È da notare come si mantenne praticamente invariato il tessuto urbano: mentre nel nord Italia e nel resto d’Europa si disgregavano i borghi medievali e si costituivano fattorie e aziende agricole, nel Mezzogiorno il sistema di coltivazione rimase in gran parte immutato e poche furono le zone che si adattarono ai nuovi modelli e introdussero nuove colture. Per fare un esempio la patata ed il mais che tanta importanza ebbero per lo sviluppo dell’Europa perché rispondevano all’espansione della esigenze alimentari determinate dalla rivoluzione industriale furono scarsamente considerate. Non tutto ovviamente era rimasto immobile, notevole sviluppo ebbero le colture della vite e degli agrumi e dell’olivo. Ma anche qui, dispiace dirlo, i maggiori produttori portavano cognomi stranieri: Ingham, Whitaker, Woodhouse, Wood, ecc. Solo un nome italiano spicca tra questi, quello dei Florio.
L’estrazione dello zolfo: una produzione strategica
Si esportavano soprattutto materie prime non lavorate, quali zolfo e sale marino e prodotti agricoli pregiati quali olio, agrumi, manna, liquirizia, seta grezza e vino. Di contro eravamo costretti ad importare prodotti finiti quali tessuti, cuoio, medicine, ecc destinati quasi totalmente a soddisfare necessità individuali. Il segno tangibile della nostra subalternità ai mercati esteri è dato dalla modalità di produzione e del commercio degli zolfi. L’industria degli zolfi in Sicilia nasce nel 1808, quando il governo diede i consensi per lo sfruttamento del sottosuolo. La necessità di estrarre in gran quantità lo zolfo era dettata dalla nascita della moderna industria chimica europea e la Sicilia aveva il monopolio naturale dello zolfo. L’apertura delle miniere, avviata al tempo dell’occupazione inglese durante le guerre napoleoniche fece vivere alla Sicilia una sua particolare rivoluzione industriale che cresceva al crescere dell’industria inglese e francese. In Sicilia l’attività mineraria fu tuttavia caratterizzata da uno sfruttamento della manodopera a dir poco selvaggio. Gli operai lavoravano in condizione disumane. Eppure furono tantissimi i braccianti che preferirono lasciare i campi per lavorare nelle miniere. Questo ci fa capire quanto drammatiche fossero le condizioni dei lavoratori della terra. In miniera avevano per lo meno la certezza del pane quotidiano. L’esodo dalla agricoltura fu significativo e influì non poco nella diminuzione della produzione cerealicola dei latifondi. Nonostante si fosse venuto a creare un “proletariato industriale” enorme per quei tempi (le prime statistiche, risalenti al 1860, registrano la presenza nelle miniere di un’occupazione operaia di circa 16.000 unità) le connotazioni dello “sfruttamento” delle zolfare era prettamente coloniale. Tutto il prodotto era destinato all’estero allo stato grezzo e la commercializzazione era prevalentemente in mano ad operatori stranieri, per lo più inglesi che si occupavano anche dell’aspetto creditizio assicurando il pagamento anticipato sulle consegne. Il sistema però accontentava tutti e cioè i proprietari delle miniere, che erano i grandi proprietari terrieri, i gabelloti, a cui era affidato lo “sfruttamento” cioè la gestione dei singoli giacimenti e gli operatori commerciali che agivano sul mercato estero. Da questa situazione scaturiva una cultura di rapina e sfruttamento nei confronti degli operai. I metodi di estrazione, per risparmiare, rimasero in uno stato quasi primitivo, tipico delle industrie coloniali. Con il beneplacito al solito dei baroni e dei gabelloti. Una tale corsa alla produzione a basso costo portò spesso a crisi di sovrapproduzione e la situazione era diventata talmente poco sopportabile per uno Stato che aspirava a diventare moderno che il governo borbonico, nel 1838, cercò di arginare questo stato di cose offrendo un accordo vantaggioso alla società francese Taix-Aycard: i ministri di Ferdinando II offrirono ai francesi il monopolio del commercio degli zolfi, con un limite massimo di produzione annua, in cambio della costruzione di una moderna raffineria e di un impianto industriale per la produzione di acido solforico e soda solforata e l’impegno di addestrare manodopera locale. L’idea era di allentare la morsa del predominio economico inglese e permettere lo sviluppo di un’industria chimica siciliana. Un tale accordo avrebbe dovuto essere accettato con grande entusiasmo e invece “il cartello” costituito dagli inglesi, dai proprietari delle miniere e dai gabelloti lo osteggiarono fortemente: questi ultimi videro nell’iniziativa del governo soltanto una diminuzione del loro profitto individuale e non i vantaggi generali ed a lungo termine per il Regno. Contemporaneamente all’accordo con la Taix-Ajcard furono promulgate le leggi per lo scioglimento delle promiscuità e la censuazione dei beni ecclesiastici. Ciò colpì indistintamente sia gli interessi liberali che quelli delle economie più arretrate e parassitarie e quindi non ci fu una intesa tra governo e forze borghesi in vista di uno sviluppo economico autonomo. Nel contrasto con la Gran Bretagna il governo rimase isolato e finì col trovarsi tra due fuochi. Da una parte gli inglesi che minacciavano il ricorso alle armi, dall’altra i fuoriusciti siciliani [9]. La diplomazia borbonica cercò aiuto all’Austria e alla Francia e fece anche delle pubbliche proteste contro gli Inglesi disponendo l’embargo per le navi inglesi. Ferdinando si trasferì in Sicilia per meglio gestire la questione ma non ebbe nessun aiuto sul piano internazionale e l’appoggio locale non fu adeguato. Alla fine fu praticamente costretto a revocare l’accordo con la Taix-Aycard. Al danno si aggiunse la beffa perché il governo dovette risarcire sia i francesi che gli inglesi.
Dobbiamo tuttavia osservare che fin dagli anni ’30 dell’800 si era sviluppato un vivace dibattito tra protezionisti e liberisti, tra agraristi e industrialisti per lo sviluppo economico ma continuava a mancare un qualsiasi spirito di associazione che avrebbe consentito di aumentare non solo il capitale in denaro ma anche di macchine, di strumenti, di materie grezze e soprattutto di operai e dirigenti specializzati. Non dimentichiamo infatti che le nostre università vantavano cattedre di teologia, di filosofia, di economia, di lingue orientali, di astronomia ma mancavano di cattedre di ingegneria e di qualsiasi materia inerente la gestione dell’industria. Non si curava, in parole povere quell’”arte” che oggi chiamiamo “gestione aziendale” né di preparare operai qualificati.
La latitanza del capitale da investimento
Alla base del mancato decollo dell’economia isolana, come bene scriveva Lucchesi Palli (Effemeridi scientifiche e letterarie, 1834), c’era soprattutto la mancata crescita del mercato finanziario “La Sicilia non sarà mai né perfetta agricola, né commerciale, né manifatturiera, se pria un’immissione di nuovi capitali circolanti non ne vivifichi il suo stato.” Non si reinvestivano i capitali nell’isola, come abbiamo già avuto modo di osservare, e non solo per gli interessi della finanza internazionale (in prima fila i Rothschild) ma soprattutto per la mancanza di una cultura in tal senso degli operatori siciliani. Pochi furono quelli che si scostarono da questo andazzo: Vincenzo Florio e Camillo Camposanto ad esempio si adoprarono per la nascita di stabilimenti per la lavorazione ed il commercio dei tabacchi. I Florio in particolare, diedero inizio alla loro spettacolare ascesa, intervenendo a 360° nell’economia isolana, nell’industria del vino, nell’estrazione e commercializzazione degli zolfi , nella produzione chimica , nella navigazione e nella cantieristica navale, nelle tonnare, ecc. Erano la dimostrazione che in Sicilia si poteva crescere. Bastava semplicemente investire capitali e formare mano d’opera qualificata impedendo il mero sfruttamento del territorio e della nostra forza lavoro da parte di operatori stranieri. Nell’attività degli zolfi dimostrarono come fare impresa, costituirono infatti società per azioni con i proprietari delle miniere anziché contentarsi del solito rapporto di gabella e anche nelle altre società si unirono ad altri validi operatori, come i Riso, i Bordonaro o gli stessi Ingham, formando società finanziarie con sede in Sicilia . Ad esempio, per ovviare alla carenza dei trasporti per il commercio e non affidare le merci a società estere, venne costituita, nel 1840 la società dei battelli a vapore con un capitale di 35.000 onze diviso in 350 azioni che l’anno successivo fu in grado di assorbire la Fonderia oretea che doveva essere una azienda di supporto a quella di navigazione. La fonderia fu ampliata e fornita di apparecchiature moderne adatte a costruire caldaie e motori per nave e creando posti di lavoro.
Malgrado queste iniziative che si sviluppavano contemporaneamente anche nell’area del messinese e del catanese l’industria siciliana non riusciva a decollare. Anche se erano presenti realtà aziendali in vari campi, le imprese erano in massima parte troppo piccole, al massimo 5-10 dipendenti, a carattere artigiano e familiare in grado di soddisfare soltanto le esigenze del mercato locale, al massimo provinciale o interprovinciale e raramente regionale[10]. Meno che nel settore minerario e in quello vinicolo non esistevano aziende in grado trovare sbocco nel mercato estero o in quello napoletano. Praticamente noi esportavamo quasi esclusivamente derrate agricole pregiate e vino di alta qualità (il Marsala), destinati però al consumo di lusso, sale marino e zolfo in massima parte sotto forma di materie prime non lavorate e quindi senza “indotto”. Da granaio d’Europa la Sicilia si era trasformata nella zolfara e nella saliera d’Europa. Prima serviva a sfamare le truppe che dominavano il continente e poi servì ad alimentare le industrie che la soggiogavano economicamente. Per tutto il periodo preunitario il numero delle società per azioni si mantenne limitatissimo ed erano praticamente assenti gli istituti finanziari, come le casse di risparmio o le banche di emissione, deposito e sconto. Il settore finanziario era completamente trascurato, a nessuno venne mai in mente di fondare una banca o di modificare le Tavole di Palermo e di Messina [11] che avevano ancora una struttura strettamente feudale, bastevole solo a garantire le operazioni ordinarie dell’erario pubblico. Il primo tentativo di fondare un Banco di Sicilia in senso moderno fu ad opera del lombardo Giuseppe De Weltz e del napoletano Francesco Fuoco [12]. Ma non ebbero successo anzi furono criticati pesantemente persino da studiosi come Nicolò Palmeri. Neanche dopo le rivolte del ’48 riuscì a passare una proposta in tal senso. Erano proprio teste di coccio! E mentre in Europa si sviluppava un fitto intreccio capillare di banche, la borghesia siciliana mostrava tutta la sua arretratezza culturale in campo dell’economia e rimaneva subordinata alla concezione cattolica dell’economia da sempre ostile allo sviluppo del moderno credito bancario. Non tutte le colpe del mancato sviluppo moderno dell’economia del Mezzogiorno ed in particolare i Sicilia sono, ovviamente, della Chiesa controriformista ma è certo che essa ha avuto una notevole influenza negativa ed i suoi veti furono da noi osservati più che altrove in Italia. Anche negli anni successivi, quando ormai non era più possibile contrastare lo sviluppo del sistema bancario, il credito rimase in buona parte sotto il controllo della Chiesa il che portò, oltre alla diffusa pratica dello strozzinaggio, alla pratica caritativa ed assistenziale del credito gestito dalla chiesa con i Monti di pietà e i Monti frumentari [13], e dalle forze ad essa collegate in maniera spesso spregiudicata e strumentale. Se durante l’alto Medioevo (con i Normanni e gli Hoenstaufen) e nel periodo dei vicereami la presenza di banchieri genovesi, Pisani, Veneziani, ecc era molto presente sul territorio, durante il regno borbonico prevalse il capitale commerciale d’oltralpe (svizzero, tedesco, francese, inglese,…) per cui il capitale si concentrò quasi unicamente nelle piazze di Palermo e Messina, trascurando le zone interne della Sicilia, quella produttiva e agricola che rimasero saldamente in mano alla Chiesa.
Ieri ed oggi
Non ci sembra azzardato paragonare la situazione del Regno delle Due Sicilie a quella dell’Italia di oggi: tante piccole imprese, troppe forse, poche grandi industrie. Esportazione di merce pregiata, destinata ad un mercato ristretto, e importazione di beni di largo consumo.
La popolazione si articolava in tre fasce a distribuzione piramidale, un vertice costituito dall’aristocrazia terriera che dilapidava i suoi patrimoni inseguendo lussi e capricci, una borghesia di paglietta, tranne qualche rara eccezione come i Florio, i Gallo o gli Orlando che investivano nell’industria metallurgica ma che nel tentativo di imitare il tenore di vita dei nobili e di entrare nella loro cerchia, diedero il via a quel fenomeno descritto come “pietrificazione dei profitti”, l’acquisizione cioè di sontuose dimore urbane e suburbane con relativi parchi, e il popolo infine che versava in uno stato di generale povertà e nella più nera miseria se ci si spostava nelle zone interne dell’isola.
Era proprio il basso tenore di vita della maggior parte della popolazione e la penuria di denaro circolante che a lungo termine non avrebbe assicurato sbocchi a qualsiasi attività produttiva, dai manufatti metallurgici, ai tessili, dalle ceramiche all’editoria.
La situazione periferica rispetto ai principali mercati inoltre, faceva sentire tutto il suo peso allora come ancora oggi. La ricchezza del sovrano e delle classi egemoni non si rifletteva nel resto del paese. Poche isole felici per lo più concentrate nei centri marittimi più importanti come Messina, Palermo e Marsala mentre il resto dell’isola versava in condizioni di miseria, di ignoranza e di arretratezza.
Una situazione simile troviamo nella parte continentale del Regno dove, con l’abbattimento dei dazi doganali protezionistici e l’introduzione, il 24 settembre del 1860, della tariffa libero-scambista, la concorrenza dei prodotti del Nord ed esteri mise in ginocchio l’industria e l'agricoltura. Con l’Unità d’Italia, ci fu l’aumento istantaneo del prelievo fiscale, accompagnato dal drenaggio del risparmio capitali, e la progressiva diminuzione delle commesse statali alle imprese del Sud. La frattura economica Nord-Sud si cominciò così a delineare già dopo 20 anni d’unità, e “… segnatamente tra la fine degli anni Ottanta e lo scoppio della Prima Guerra Mondiale” [14].
Emblematica al riguardo è la lenta ma inesorabile agonia dello stabilimento di Pietrarsa, consegnato dai Piemontesi ad uno speculatore di dubbia fama, Jacopo Bozza. La situazione si deteriorò rapidamente, con licenziamenti e riduzioni salariali continue e, nell’agosto del 1863, lo sciopero delle maestranze fu sedato dall’esercito piemontese, che sparò sulla folla uccidendo sette operai e ferendone altri venti. L’officina fu in seguito affidata alle Ferrovie dello Stato, che la ridussero a inizio ‘900 a deposito (oggi è un museo).
Locomotiva (ricostruzione) esposta nel museo di Pietrarsa
Tale stato di cose non poteva non provocare malumori, ribellioni, tensioni e banditismo. Il Regno era troppo fragile e l’invasione dei piemontesi non aveva fatto altro che dilaniare quel poco di tessuto economico che si era formato, consentendo l’ascesa di pochissimi speculatori economici, come i Florio che approfittando del marasma creatosi si impadronirono di quanto gli imprenditori stranieri andavano abbandonando e di moltissimi “speculatori” politici che si impadronirono di quante più cariche pubbliche locali e nazionali potevano. Ma anche per costoro la vita non sarà facile: non mutando le condizioni della maggior parte del popolo, anzi per certi versi peggiorando, anche le loro ricchezze erano destinate a sfumare.
Lo sviluppo del sud si può definire una norma programmatica cioè un obiettivo che deve essere quotidianamente realizzato, oggi come allora e sarà difficile uscire da questo “empasse” se il Mediterraneo, USA ed EU permettendo, non torna ad essere un centro commerciale di primario interesse.
Fara Misuraca
Alfonso Grasso
dicembre 2007

Bibliografia
  • Salvatore Mazzarella Vincenzo Di Bartolo da Ustica Sellerio Editore, Palermo (1987 prima edizione; 1999, seconda edizione ampliata)
  • Salvo di Matteo e Francesco Pillitteri, Storia dei monti di Pietà in Sicilia, Palermo, Cassa di Risparmio V:E: per le province siciliane, 1973
  • Orazio Cancila, L’economia della Sicilia. Aspetti storici, Il Saggiatore 1992
  • Orazio Cancila, Storia dell’industria in Sicilia, Laterza, 1995
  • Francesco Renda, Storia di Sicilia, Sellerio.
  • Renda , Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, Sellerio

Note
[1] La feudalità fu abolita con la legge del 2 agosto 1806 e fu abrogata ogni legislazione penale feudale esercitata per secoli dai baroni e dal clero. Fu confermata però la trasformazione dei baroni da “possessori” a “proprietari” delle ex terre feudali. Furono conservati gli Usi Civici a favore delle popolazioni rurali.
[2] Le “regie commissioni partitarie borboniche” inizialmente recuperarono all’erario migliaia di ettari, fino ad allora posseduti arbitrariamente dai baroni. Le competenze su queste terre furono affidate ai sindaci, ai prefetti ed ai giudici dei tribunali ordinari, i quali però spesso vanificarono l’opera delle commissioni, riaffidando i terreni ai vecchi feudatari.
[3] Ressa G., Il Sud e l’Unità d’Italia, p. 160.
[4] Da qui il ritardo nell’adeguarsi alla trasformazione da stato feudale in stato moderno, anche se in Sicilia i germi del cambiamento iniziarono a germogliare dopo il trattato di Utrech con la venuta di Vittorio Amedeo di Savoia e ancor più rapidamente dopo il 1735 quando si venne a creare il regno di Carlo di Borbone. Il tessuto feudale che nel sud d’Italia era più forte che altrove, ritardò comunque in maniera evidente la modernizzazione dello stato. Basta pensare che su 350 comuni siciliani ben 300 erano soggetti al mero e misto imperio. I baroni cioè imponevano e riscuotevano tributi, nominavano i giudici e gli amministratori locali, avevano le loro carceri e la loro polizia privata. Dopo il 1812 tutto questo cessò ed è indubbio che le ripercussioni furono evidenti e si fecero passi avanti nel rinnovamento della società ma certamente partendo da una situazione svantaggiata tali cambiamenti sembrarono più lenti rispetto a quelli dei paesi del nord Europa.
[5] Ricordiamo che proprio in questo anno il Regno di Sicilia smette di essere regno autonomo per essere assorbito nel Regno delle Due Sicilie in seguito alle decisioni prese durante il Congresso di Vienna.
[6] A Marsala operavano anche i Corlett e Lee Brown mentre Joseph Payne e James Hopps aprirono bagli a Mazara. La presenza inglese favoriva anche la commercializzazione della pasta di liquirizia per la quale un altro commerciante inglese impiantava una fabbrica a Mazara del Vallo, ecc. (Cancila, 1992)
[7] Nato a Ustica nel 1802, Vincenzo Di Bartolo fu il primo navigatore del regno delle due Sicilie a spingersi (nel 1838) con un fragile brigantino, fino alle più remote isole indocinesi, portando per la prima volta in Italia il prezioso carico, interrompendo così il monopolio delle grandi marinerie. Peccato però che lo portò per conto degli inglesi.
[8] Nel 1837 Luigi Corsi impiantò la prima fabbrica di locomotive e mezzi ferroviari e nel 1860 contava 1050 addetti. All'avvio dello stabilimento di Pietrarsa, erano presenti numerosi ufficiali inglesi in qualità di consulenti e supervisori, ma in seguito ci si affrancò completamente da tale subordinazione, anche per il deterioramento dei rapporti con l'Inghilterra dopo gli avvenimenti del 1848-9, e si può sostenere che quella di Pietrarsa fu la migliore realizzazione di Ferdinando II e del suo tentativo autocratico. Accanto a Pietrarsa sorgevano le industrie metalmeccaniche Zino ed Henry (poi Macry ed Henry) e la Guppy entrambe con 600 addetti. Citiamo anche lo stabilimento Oomens (macchine agricole e tessili). Molti cognomi stranieri, a testimoniare la scarsa propensione all’investimento da parte della borghesia indigena.
[9] I rapporti tra re Ferdinando da un lato e francesi e inglesi dall’altro faranno assai più tesi durante la guerra di Crimea, soprattutto quando il regno di Piemonte si unisce agli alleati che combatterono a fianco dell’impero ottomano contro la Russia. Incidenti di poco conto furono artatamente gonfiati come fossero di livello internazionale come accadde quando il capo della polizia di Napoli, Mazza, durante una rappresentazione a teatro ordinò platealmente a George Fagan di abbandonare il palco accusandolo di fissarlo col binocolo. Dopo il trattato di Parigi a Ferdinando fu virtualmente ordinato da lord Clarendon e dal conte Walewski, ministro degli esteri francese, di promulgare una amnistia. Ferdinando non se ne diede per inteso e Gran Bretagna e Francia ruppero i rapporti diplomatici. Fu in questo periodo che Agesilao Milano compì il suo attentato al re (8 dicembre 1857)
[10] Secondo dati ufficiali del 1855, in provincia di Palermo esistevano in tutto 133 aziende con 2.133 dipendenti, dei quali 1.212 impiegati in 12 miniere di Lercara e 951 in tutte le altre fabbriche. In media ogni impresa aveva 8 operai, un terzo dei quali aveva meno di 16 anni. Simile era la situazione nelle province di Messina e Catania. Naturalmente non mancavano le aziende di maggiore consistenza come la Fonderia Oretea che impiegava 200 operai o il cotonificio Ruggieri di Messina con 610 operai (in massima parte manodopera femminile) o la filanda di seta di proprietà di Jager e C. con 200 operai, anche qui in massima parte donne e ragazzi. Considerevoli erano pure le industrie vinicole del marsalese dei Woodhouse, degli Ingham e dei Florio. (in Renda, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, pp 110-111)
[11] Non solo per gli interessi della finanza internazionale ma soprattutto per la mancanza di una cultura in tal senso degli operatori siciliani. A Napoli invece fin dal 1808, sotto l’impulso del regime bonapartista era nato il Banco delle due Sicilie, al quale si aggregarono in qualità di filiali, le Tavole di Palermo e Messina.
[12] Era Il Fuoco uno dei maggiori economisti del Mezzogiorno preunitario, autore di una poderosa opera di teoria e politica bancaria, la Magia del credito svelata.
[13] Salvo di Matteo e Francesco Pillitteri, Storia dei monti di Pietà in Sicilia, Palermo, Cassa di Risparmio V:E: per le province siciliane, 1973.
[14] G. Pescosolido, Unità nazionale e sviluppo economico, Laterza, 1998, pag.XI.

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