Pubblichiamo i primi due capitoli del libro di
Vincenzo Vinciguerra
Camerati, addio
Storia di un inganno, in cinquant’anni di egemonia statunitense in Italia
Con una nota introduttiva a cura della Comunità Politica di Avanguardia
Edizioni di Avanguardia (per ordinazioni rivolgersi ad Avanguardia casella posta 170-9110 -Trapani-fax 092-3538883)
INDICE
Nota introduttiva della Comunità Politica di Avanguardia pagina 03
Premesse dell’autore pagina 08
Capitolo I: La fine di un equivoco pagina 10
Capitolo II: Il M.S.I. avamposto statunitense in Italia pagina 16
Capitolo III: La “guerra non ortodossa” pagina 29
Capitolo IV: La sudditanza ulteriore pagina
Capitolo V: Camerati addio pagina
Ci scusiamo per qualche imperfezione presente nel testo. Oltre alla pessima qualità del dattiloscritto in nostro possesso, non ci è stato possibile avere alcun raffronto, anche epistolare, con Vincenzo Vinciguerra, data la sua particolare condizione di recluso che il regime democratico gli ha posto. L’autore ha più volte denunciato la violazione della corrispondenza, la sua sottrazione e il ritardo nella consegna e nell’inoltro.
Nota introduttiva
La figura di Vincenzo Vinciguerra, unitamente alle sue analisi, rappresenta un elemento di rottura all’interno della sedicente area “neofascista”, proiettando sul piano politico il coefficiente offensivo alla denuncia ed alla battaglia di liberazione dall’invasione coloniale statunitense in Italia.
Il messaggio lanciato da Vinciguerra ad un ambiente “nato morto” è stato accolto esclusivamente dalla Federazione Nazionale Combattenti della Repubblica Sociale Italiana e poi dal mensile “Avanguardia” che, nell’arco di sei anni, ha rielaborato le tesi e l’amplia documentazione che hanno “inchiodato” alle proprie responsabilità i vertici dell’”estrema destra italiota”, caratterizzati dal servilismo alla classe dirigente di fede “atlantista”.
“Avanguardia” ha saputo, soprattutto, apprezzare ed attualizzare la lucidità d’analisi palesata da Vinciguerra nell’individuazione del nemico politico e delle strategie occulte dell’antisovietismo atlantico, improntate dai servizi di sicurezza civili e militari e dallo Stato Maggiore della Difesa, ma espletate ed eseguite diligentemente, grazie alla consapevolezza e all’asservimento organico dei suoi vertici, dal mondo neofascista. Il soldato politico Vincenzo Vinciguerra ha voluto spezzare questa infamante subalternità allo Stato antifascista, nato dal tradimento in guerra l’8 settembre 1943, con la conseguente logica della strategia del depistaggio, attraverso l’attentato di Peteano di Sagrado, conclusosi con la morte di tre carabinieri e il ferimento di un quarto.
Vincenzo Vinciguerra incarna l’autentica identità ed il “continuum” politico-dottrinario di quelle forze che si sono battute fino alla morte nell’epocale campo di battaglia del Secondo Conflitto mondiale, sfidando le plutocrazie occidentali capitanate dagli Stati Uniti d’America.
L’attualizzazione del significato politico di questo scontro impone che “a distanza di mezzo secolo dall’invasione dell’Europa non è mutato in noi, rispetto alla battaglia condotta allora dalle armate europee contro le orde americane, l’esigenza di liberare il continente dalla oppressiva tutela degli Stati Uniti d’America”.
La costante validità della battaglia antiplutocratica ed anticapitalista, antigiudaica ed antimassonica, del Fascismo europeo lo vogliamo ricordare attraverso le parole del leggendario Leon Degrelle, comandante della Divisione delle Waffen SS “Wallonien”, estratte dal discorso al Palazzo di Chaillot il 5 marzo 1944: “Non è per salvare il capitalismo che noi ci battiamo in Russia. E’ per questo che i soldati al fronte hanno una tale fiducia (…). Se l’Europa deve essere ancora questa, se deve ritornare ad essere l’Europa dei banchieri, di questa grande borghesia corrotta, della facilità e dell’infiacchimento, ebbene, noi altri, lo diciamo senza giri di parole, preferiamo ancora che il comunismo avanzi e faccia saltare tutto per aria. Auspichiamo che tutto salti piuttosto di vedere ancora rifiorire questo marciume (…). Noi altri guarderemo i caricatori, e dopo aver sbaragliato la barbarie bolscevica, affronteremo i plutocrati, per i quali abbiamo riservato le nostre ultime munizioni” (1).
La consapevole e genuina militanza politica di Vinciguerra si scontra con le ipocrite linee di condotta e le “diversioni strategiche” del “neofascismo atlantico di servizio”, settorialmente proiettato sul piano parlamentare al sostegno della Democrazia Cristiana con il Msi poi diventato Alleanza Nazionale, e, sul piano extraparlamentare, a rapporti poco chiari con la “strategia della tensione”, nella funzione di stabilizzazione di quell’ordine atlantico, statunitense ed occidentale che a parole si voleva abbattere e distruggere, ma che nei fatti contribuiva a consolidare.
Ora, sulla base delle analisi di Vinciguerra e della nostra militanza politica, sviluppatasi qualche anno dopo quella di Vinciguerra, ma che non può fare altro che confermare e convalidare quanto scritto ed affermato da Vinciguerra stesso, si impone il dovere etico e politico di “annoverare fra i nemici quel neofascismo ed i suoi rappresentanti che continuano, ancora oggi, a ribadire quella scelta di campo, compiuta all’indomani della fine delle ostilità, di schierarsi dalla parte di chi aveva vinto”.
Con la pubblicazione di questo scritto, mai edito da nessuno forse per viltà o per malafede, intendiamo definitivamente smascherare personaggi che tutt’ora perseverano a “colonizzare” ed a strumentalizzare, a proprio piacimento, un ambiente che potrebbe altrimenti rappresentare una reale e seria alternativa antisistemica. Oggi come cinquant’anni fa.
Come afferma Vinciguerra: “Il Movimento Sociale Italiano nasce con il fine di imprigionare la massa dei reduci fascisti, spegnendone le velleità rivoluzionarie, in una gabbia dalla quale indirizzarli elettoralmente e, se e quando necessario, fisicamente e militarmente, contro i ‘bolscevichi senza Dio’ di Palmiro Togliatti e del Fronte Popolare”.
Il Msi viene creato ad arte con la collaborazione dello Stato Maggiore badogliano e dei servizi di sicurezza; nella sua creazione fu attivamente partecipe il S.I.M. (Servizio informazioni militare) con la supervisione dell’OSS, il servizio statunitense antesignano della CIA.
Durante questa fase embrionale rilevante fu il ruolo ricoperto da Pino Romualdi che, già negli ultimi giorni di guerra, si prodigò ad interagire con i servizi di sicurezza alleati i quali auspicavano un “recupero” dei “fascisti meno ideologizzati” nella battaglia anticomunista.
Già nella fondazione dei F.A.R. emerge l’ottica di una strategia politica funzionale alla stabilizzazione dell’ordine atlantico occidentale.
Con i F.A.R. “la lotta politica non si potrà più mantenere sul paino parlamentare, ma trascenderà in disordini di piazza, in violenze e in una tensione generale (…) Si tratta insomma di creare nel paese una psicosi anticomunista (…) E’ chiaro infatti che il potere politico avrebbe tollerato o agevolato l’iniziativa solo nel caso in cui i responsabili del nuovo movimento fossero stati in grado di assicurare una linea di destra, espressione di un anticomunismo di servizio. Ma nell’immediato Romualdi e Turati, che pure si erano perfettamente subordinati a questo aut-aut, non potevano essere utilizzati, dal momento che uno era condannato a morte e l’altro penalizzato per aver ricoperto la carica di segretario nazionale del PNF (…) In questa situazione riuscì ad affermarsi Giorgio Almirante, allora tanto sconosciuto ed insignificante da non essere neppure ricercato come ex funzionario della RSI. In tutti i casi Almirante si era dato ad una volontaria militanza, rimanendo in apnea a Milano fino al varo dell’amnistia, Al Nord era stato ospitato da un certo Levi (nome non proprio ariano) che, durante la RSI, Almirante aveva a sua volta nascosto (…) Sono peraltro noti i rapporti diretti fra il Viminale e gli organizzatori del MSI tramite il generale dei carabinieri Giuseppe Piéche, ex capo della 3° sezione del S.I.M. e, nel dopoguerra, incaricato da Scelba a riorganizzare i servizi segreti italiani (2)”.
Come spiegarsi altrimenti la piena assoluzione di Pino Romualdi in sede processuale presso il Tribunale di Macerata, con il contributo di testimonianze rese da tale Gianni Madotti, agente del SIM e del cappellano partigiano don Giulio Anelli, agente dell’OSS operante a parma? “Tenuto conto dei precedenti, per quanto ci riguarda, incliniamo a credere che Romualdi sia stato invece ripagato dai vari servizi segreti italiani e segreti, per il suo operato, sia durante l’ultima fase della RSI che successivamente. La nascita del Msi ottemperava infatti alle strategie politiche interne ed a quelle connesse alla spartizione dell’Europa (…) Nel contempo veniva eliminato il fascismo clandestino ed in tal modo i neofascisti potevano essere controllati ed eventualmente ingaggiati per bassi servizi. Nel quadro internazionale si dovevano poi convertire gli ex repubblichini alle posizioni filo atlantiche di supporto della NATO, facendo loro accantonare – e poi dimenticare – l’originale pregiudiziale antiplutocratica, e cioè in nome di una Patria (che non era più la loro) da proteggere dal comunismo, peraltro già escluso dal potere in Italia in virtù degli accordi di Yalta (…) Si mira così ad inalveare le forze ex fasciste entro il giuoco politico democratico ed a tenerle prigioniere in esso, fino alla loro liquidazione, si mirava a sviare il carattere vero del Fascismo, parimenti avverso alla demoplutocrazia ed al comunismo, alle potenze occidentali ed all’ U.R.S.S., formando un neofascismo ad intonazione solo anticomunista e quindi non più bandiera della lotta per l’indipendenza nazionale dalle ingerenze della Gran Bretagna e dagli USA (3)”.
La controprova è avvenuta con l’implosione dell’U.R.S.S., franata su se stessa: venuta meno l’esigenza di una battaglia anticomunista, il ‘neofascismo’ avrebbe dovuto rivoltarsi contro l’Occidente, contro quelle potenze che hanno rappresentato il nemico mortale delle potenze dell’Asse e che hanno colonizzato e spaccato in due l’Europa nel 1945. Questa ‘virata’ i Rauti ed i Delle Chiaie non l’hanno mai compiuta, perché sono degli impostori che hanno ‘bruciato’ e continueranno a strumentalizzare centinaia di giovani militanti in buona fede. Non l’hanno potuto e voluto fare perché la loro battaglia anticomunista non veniva intravista nell’ottica di ‘convergenze tattiche’, così come affermato ipocritamente dall’”agente doppio” Pino Rauti, ma in quella di un asservimento organico alle strategie ‘esistenziali’ di una Repubblica antifascista, assegnata a Yalta al blocco atlantico. Caduto il sovietismo e configuratosi l’asse della contrapposizione planetaria, non più in Est-Ovest, in Nord-Sud del mondo, ovvero tra Occidente plutocratico e giudaizzato ed Islam, questi impostori hanno ‘pensato bene’ di cavalcare la battaglia contro l’Islam in difesa di un Occidente colonia degli Stati Uniti e dell’usura della grande banca e delle multinazionali cosmopolite.
Come si legge tra le righe della Commissione stragi pubblicata qualche mese fa, ma già riportate nel libro di Michele Brambilla Interrogatorio alle destre, edito da Rizzoli nel 1995, è lo stesso Pino Rauti “ad ammettere che l’estrema destra ha collaborato più o meno sottobanco e in certi momenti soprattutto sotto banco”con pezzi delle nostre istituzioni e che “l’ipotesi del golpe, ad esempio, ha circolato nell’estrema destra , a un certo punto. Come scorciatoia per il potere. Di fronte ad un pericolo comunista. Io stesso sono stato coinvolto in rapporti con i militari”. Questo perché, aggiunge l’ex segretario Msi, si era convinti che “una parte dello Stato avrebbe durissimamente resistito all’ascesa al potere dei comunisti e che con questa parte dello Stato ci saremmo trovati” (…) Peraltro si tratta di dichiarazioni intervenute solo dopo che si è accertata l’appartenenza di Pino Rauti, con Guido Giannettini, all’ufficio ‘Z’ del Sid, quello degli agenti sotto copertura. Il tenente dei Carabinieri Sergio Bonalumi ha dichiarato ai giudici bolognesi di avere accompagnato più volte Rauti negli uffici di Forte Braschi, sede del Servizio segreto militare”.
Vincenzo Vinciguerra nelle sue pagine racconta e ‘svela’ la melliflua condotta politica dei protagonisti di quell’ambiente: non prim’attori, ma al contrario comparse ligie ai dettami imposti dalle strategie atlantiche, inquadrate nelle fila del fronte anticomunista. Ciò non solo nel campo politico, ma anche in quello militare, inserendo attivamente elementi neofascisti “coordinati dai vertici del Movimento Sociale Italiano, nei piani predisposti dallo Stato maggiore Difesa per fronteggiare la duplice eventualità di un’insurrezione armata dei comunisti o di una loro vittoria elettorale: nel primo caso per reprimerla, nel secondo caso per vanificarla”.
L’inserimento di neofascisti in organizzazioni paramilitari dello Stato è resa possibile grazie al legame organico tra i vertici del neofascismo e gli apparati di Sicurezza italiani e stranieri. Col passare degli anni e con l’evolversi degli eventi “nessuno di costoro – afferma Vinciguerra – darà nel tempo segni di reminiscenza, dimostrerà di aver compreso l’errore politico compiuto e di essersi reso conto di essere stato strumentalizzato dallo Stato antifascista. Al contrario, tutti resteranno fedeli a questo loro passato di ‘ausiliari’ delle forze di polizia confortati dal fatto che nei gruppi politici nei quali confluiranno, quando la situazione si sarà definitivamente stabilizzata, nei primi anni cinquanta, troveranno gli stessi schemi organizzativi al servizio delle stesse scelte politiche. Sarà così che molti potranno rivestire il ‘doppio ruolo’ di neofascisti, in pubblico, e di ‘gladiatori’, in incognito, di oppositori dei governi e difensori dello Stato, di eredi di un mondo militarmente sconfitto sul libro paga dei suoi vincitori”. Questo vale per gli uomini del MSI e per le organizzazioni ‘extraparlamentari’ che mai hanno cessato di essere controllate e a contatto coi vertici di un partito caratterizzato da un esasperato sciovinismo borghese di stampo giacobini e da un anticomunismo viscerale. Contatti e collusioni emersi fin dal tempo dei primi passi di Ordine Nuovo e di Avanguardia Nazionale, i cui vertici mai allentarono i rapporti con l’entourage di Giorgio Almirante, soprattutto al fine del reclutamento di uomini da parte del Sifar o di altri servizi di sicurezza o strutture parallele, militari e civili.
Almirante non cessò mai di frequentare uomini come Delle Chiaie, Rauti o Maceratini anche durante l’uscita dal Msi di Ordine Nuovo e la scissione di Avanguardia Nazionale; mai rinnegò i contatti con elementi si spicco del ‘fronte anticomunista internazionale’ quali Licio Gelli, capo della Loggia massonica P2 e punto di contatto con i servizi di sicurezza atlantici in Italia.
E’ d’uopo menzionare a proposito, da parte proprio di Giorgio Almirante, l’abolizione di un articolo dello Statuto del Msi-dn che prevedeva il divieto di iscrizione al Msi ai membri della massoneria. Così come i finanziamenti, ricordati più volte anche dal piduista on. Caradonna, elargiti dal ‘venerabile’ Licio Gelli al partito di Almirante. Il Msi-dn ha annoverato tra le sue fila parlamentari e dirigengenziali i piduisti Mario Tedeschi, Sandro Saccucci, Vito Miceli, Giulio Caradonna, Gino Birindelli, Filippo Berselli, l’ex presidente del Fuan Luciano Laffranco e ‘spioni’ come Guido Giannettini. In rispetto alla continuità, tra le fila di Alleanza Nazionale sono presenti piduisti come Publio Fiori e Gustavo Selva ed ex ‘spioni’ alla Accame ed alla Buscaroli.
Altri esponenti del Msi-dn quali l’ “irriducibile” senatore Giorgio Pisanò, frequentavano le caserme dei carabinieri, i “camerati in divisa”, come ordinaria amministrazione.
Questo lo facevano i Servello ed i Nencioni a Milano, così come i Signorelli a Tivoli, al fine di consolidare i legami tra partito e strutture militari dalle quali provenivano diversi membri di spicco del Msi a partire da Rodolfo graziani, all’intimo di James Jesus Angleton, Junio Valerio Borghese; dall’ammiraglio Nato Gino Birindelli al capo del Sifar Giovanni De Lorenzo, fino ai vertici del Sismi con Vito Miceli, Luigi Ramponi e Ambrogio Viviani.
Sarebbe facile – sostiene Vinciguerra – ironizzare sul fatto che ben tre capi dei servizi segreti militari, i massimi garanti dell’ordinamento politico democratico e antifascista, i depositari dei segreti del regime ‘corrotto e corruttore’, i tutori dei protocolli segreti della Nato in base ai quali ci hanno privato della sovranità nazionale, siano confluiti nel partito che ha rappresentato ‘l’alternativa al sistema’ e, ancor oggi, si presenta come il più nazionalista fra tutti, se il ricordo di tante vittime sprecate non ci trattenesse dal farlo”.
A Distanza di decenni questa strategia non è cambiata, non sono cambiate le linee politiche, non è stato creato un progetto politico-culturale realmente rivoluzionario e alternativo al Sistema, ma soprattutto non sono cambiati i nomi, palesando la mancanza di un ricambio generazionale ai vertici dell’area neofascista. Longevità politica che giustamente lo stesso Vinciguerra spiega non tanto con le capacità carismatiche dei capi, bensì con la loro totale integrazione nel Sistema al quale appartengono e per cui concorrono al consolidamento. Questo anche perché il “neofascismo atlantico di servizio”, come ribadisce Vinciguerra e noi sottoscriviamo pienamente, alla luce dell’esperienza politico-militante vissuta con “Avanguardia”, “ha epurato, per suo conto, al suo interno, a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale, tutti coloro che non intendevano rassegnarsi alla sconfitta militare e che non accettavano di dover scendere a patti con il sistema democratico, subalterno agli Stati Uniti d’America”. Nell’ottica di questa strategia i contatti bilaterali tra i vertici del partito e le organizzazioni extraparlamentari servivano a mantenere nell’orbita del controllo del Msi quei giovani che mal tolleravano il moderatismo missino.
Qualcosa di simile avviene ancor oggi con il ruolo del Msi-ft di Pino Rauti e con il Fronte Nazionale di Adriano Tilgher, partiti alla destra di Alleanza Nazionale con la funzione di “filtro”, di “rete di raccolta” per le emorragiche fuoriuscite della base giovanile, delusa dalla politica liberale e antifascista di matrice autenticamente democristiana, di Alleanza Nazionale le quali, se rettamente indirizzate, potrebbero convergere ad ingrossare le fila di forze realmente antisistemiche ed antioccidentali.
“Quanti anni sono passati camerati – conclude Vinciguerra – da quando ai quindicenni e ai ventenni facevate intendere, con aria astuta, che non era ‘intelligente’ contrapporsi frontalmente al Sistema, perché troppo potente. Lo era, invece, conquistarlo dall’interno?”
E nulla è cambiato!
Comunità Politica di Avanguardia
(1) cfr. Avanguardia numero 165 dell’ottobre 1999 alle pp. 10-11.
(2) “Nome: Msi. Paternità: S.I.M”, scritto di Franco Morini, Parma.
(3) Ibidem
Premessa dell’autore
Volgersi indietro nel tempo sarebbe cosa vana se non riuscissimo ad individuare nel passato quella linea di continuità che lo lega, indissolubilmente, al presente che, a sua volta, è valido nella misura in cui riesce a costruire il futuro.
A distanza di mezzo secolo dall’invasione dell’Europa non è mutata in noi, rispetto alla battaglia condotta allora dalle armate europee contro le orde statunitensi, l’esigenza di liberare il Continente dall’oppressiva tutela degli Stati Uniti d’America.
Ai vincitori è concesso, talora, dire la verità che i vinti si ostinano a negare. Così, ad esempio, il senatore Bob Dole alla domanda su quale sia il valore simbolico di quei giorni del giugno 1944, può seraficamente rispondere: “A mio avviso segnano e simboleggiano l’inizio della leadership americana nel mondo” (1).
Lo sappiamo, lo abbiamo sempre saputo che la Seconda guerra mondiale fu il conflitto nel quale si decise chi doveva, fra Europa e Stati Uniti, scrivere la storia del XXI secolo.
Perse l’Europa. Noi abbiamo perso mezzo secolo per riconoscere il nemico e riscoprire che la continuità con il passato impone il distacco dagli Stati Uniti d’America, la denuncia del Trattato di pace, la fuoriuscita dall’Alleanza Atlantica e lo smantellamento delle sue strutture segrete sul nostro territorio.
La ricostruzione del passato ci consente di individuare e di riconoscere i nemici, e di trovare gli amici con i quali proseguire una battaglia che solo idealmente è proseguita, perché nella realtà si è fermata al maggio del 1945.
Fra i nemici possiamo – e dobbiamo – annoverare quel neofascismo ed i suoi rappresentanti che continuano, ancor oggi, a ribadire quella scelta di campo, compiuta all’indomani della fine delle ostilità, di schierarsi dalla parte di chi aveva vinto.
Un neofascismo che ha saputo trovare motivazioni politiche, storiche, etiche per indirizzare le energie di coloro che credevano nell’Europa contro un nemico che rappresentava una minaccia – per di più solo ipotetica – solo per gli Stati Uniti d’America.
Oggi il neofascismo, degno erede di quel fascismo che rivelò la sua natura il 25 luglio del 1943, assapora il gusto della vittoria, il piacere di essere ufficialmente riconosciuto ed incluso fra i servi prediletti del padrone.
Noi che ci riconosciamo nel Fascismo dei Ricci e dei Giani, dei Vezzalini, dei Koch, dei Pavolini, delle Brigate Nere e non della Decima Mas, delle SS e non delle Waffen SS possiamo compiacerci per la fine di un equivoco.
Il nemico che, per mezzo secolo, si è rivelato abilissimo nell’uso delle armi dell’inganno e del tradimento oggi lo abbiamo dinanzi a noi, apertamente schierato contro di noi senza che questo ci allarmi e ci preoccupi.
Lo conosciamo: è un nemico di mezza tacca.
Ricostruiamo la storia, denunciare il ruolo dei Rauti, degli Erra, degli Accame, dei Delle Chiaie non deriva dalla sopravvalutazione di costoro, ma dall’esigenza di provare – e far conoscere – la guerra che l’America e la Nato hanno fatto contro l’Europa in questi cinquant’anni.
Guerra necessaria, inevitabile, perché non bastava la vittoria militare, occorreva ottenere anche quella politica, ideale, morale. E hanno ottenuto una seconda vittoria con il concorso degli antifascisti e dei neofascisti.
Non è stata una “guerra virtuale”: ha avuto i suoi morti, i suoi feriti, i suoi invalidi, i suoi prigionieri; ha schiantato uomini e coscienze, mietuto vittime innocenti, travolto esistenze.
Il riverito (dai neofascisti per primi) Bill Clinton esclude dal ricordo della battaglia di Anzio tedeschi ed italiani. Per lui e per l’America rimangono nemici e, come tali, vengono considerati dopo mezzo secolo.
Non è solo una prova di arroganza. Solo i popoli che hanno memoria e quelli che sanno riconoscere il proprio passato hanno un futuro. La superba America non ritiene di doversi inchinare ai vinti, riconoscere il loro valore, accumunarli ai suoi morti.
E ha ragione. Perché la guerra non è ancora finita.
Neanche noi c’inchiniamo al ricordo di quel “miscuglio di razze bastarde e mercenarie” che ci hanno sconfitti due volte, in mezzo secolo.
Neanche per noi la guerra è finita. E per farla non ci servono speranze di vittoria. Ci sono sufficienti la memoria e la certezza che quella che ricomincia è la nostra guerra, senza altri aggettivi.
Opera, 4 giugno 1994.
(1) V, Nigro – A. Zampiglione, “Abbiamo combattuto nel 1944. Siamo pronti a farlo di nuovo”, la Repubblica del 4 giugno 1994.
CAPITOLO I
LA FINE DI UN EQUIVOCO.
L’Europa dell’odio festeggia le sue vittorie. Feste e forche fanno da contrappunto al ricordo dello sbarco sulle spiagge della Normandia delle forze di occupazione anglo-americane. Balli e canti si accompagnano a processi e galera, per onorare e servire i vincitori di ieri e i padroni di sempre.
La livida Europa dei servi vieta il ritorno in Patria al morto Léon Degrelle (1),scopre che è reato esprimere un’opinione contrastante con la “verità” dei vincitori sull’”olocausto” (2), inizia la caccia a sopravvissuti vegliardi, rei – dice – di “crimini contro l’umanità” che per mezzo secolo, però, non ha avvertito la necessità di reprimere.
Una sola voce si leva ad esprimere un parziale dissenso. In Francia, agli inizi degli anni Novanta, il socialista Francois Mitterand fa sapere che, a suo avviso, “non si può vivere tutto il tempo sui ricordi e sui rancori” – ma – “occorre invece dimenticare le grandi lacerazioni nazionali” (3).
Lo zittiscono e fa rapida marcia indietro. La Francia vittoriosa non puà ancora riappropriarsi della sua storia e del suo passato.
La verità sulla Francia di Vichy e di Petain non può ancora essere rivelata.
Un divieto, questo, che in apparenza non vale per l’Italia sconfitta dove, da alcuni mesi, si assiste alla spettacolare legittimazione, come forza politica di governo, di un partito che si è sempre proclamato l’erede, sul piano storico ed ideale, della Repubblica Sociale Italiana.
Eppure, la storia dei regimi collaborazionisti di Vichy e di Salò corrono parallele e, mentre in Francia nessuna forza politica ha mai rivendicato l’eredità di Petain, in Italia il M.S.I. ha fatto la sua fortuna attribuendosi apertamente quella di Mussolini.
I fantasmi di un passato morto e sepolto non possono essere rievocati nella Francia che si avvia all’anno Duemila, perché troppo devastante sarebbe il loro impatto sul presente.
Un presunto “neofascismo”, vivo e pimpante, con il suo carico di quadri di Mussolini, saluti romani, labari e gagliardetti viene ritenuto in Italia così totalmente inoffensivo dal potere, da essere inserito in una coalizione di forze politiche di segno antifascista, e gratificato con il conferimento di incarichi ministeriali ai suoi rappresentanti.
Un mistero solo apparente: la Francia ha rimosso la storia di Vichy, l’ha dimenticata e fatta dimenticare seppellendola nei più profondi recessi della cattiva coscienza delle sue classi dirigenti che, oggi, dovrebbero ammettere, se iniziasse un processo di revisione, di avere sempre mentito, di avere falsificato scientemente la realtà dell’operato di Petain che fu antitedesco quanto lo fu De Gaulle.
La classe dirigente francese non vuole riconoscere ufficialmente, di fronte al suo popolo, che non ci sarebbe stato De Gaulle senza Petain, non ci sarebbe stata la spada senza lo scudo. A chi conviene riscrivere questa storia? A chi gioverebbe raccontarla? Non ai vincitori della Seconda guerra mondiale. Meglio, per loro, mantenere l’avventura di Vichy nell’oscurità della storia per evitare che la Francia di oggi scopra di aver vissuto per cinquant’anni nel più abietto degli inganni. E ad essi, ai vincitori di ieri e ai padroni di oggi, chieda conto.
Se la Francia ha cancellato la storia di Vichy, l’Italia ha falsificato quella di Salò con la collaborazione entusiasta dei dirigenti neofascisti che hanno, in questo modo, guadagnato il diritto di esistere politicamente nell’Italia democratica ed antifascista.
Abbiamo scritto in altre pagine (che più avanti parzialmente ricorderemo) la storia della Repubblica del Nord e delle sue Forze Armate. In queste tracceremo, brevemente, il percorso di viltà e menzogna seguito dai dirigenti del neofascismo italiano dal 1946 ad oggi.
Lo faremo seguendo, in parte, quello che è divenuto il testo ufficiale della storia del Movimento Sociale Italiano, scritto da un docente universitario, Piero Ignazi, antifascista, che già nella scelta del titolo (“Il polo escluso) (4) dimostra come sia facile per chiunque, anche per uno studioso, cadere nelle trappole di una propaganda sapientemente alimentata per decenni, con il concorso di tutti coloro che pure sapevano ed hanno taciuto.
Qualcuno, fra questi ultimi, interviene per constatare una verità evidente che, però, si perde nel fragore di un battage pubblicitario che, dopo il crollo della Democrazia Cristiana, deve imporre all’attenzione degli italiani il M.S.I. come partito “pulito”. E ormai distante da un passato che non ha “tradito né rinnegato”.
In risposta a Gianfranco Fini che, nell’immediatezza dell’anniversario dell’8 settembre, si è arrogato il diritto di affermare che, in Italia “non ci può più essere spazio per chi specula sulla guerra civile. Per continuare a mettere ai margini della politica milioni di uomini i cui padri fecero altre scelte” (5), Lucio Colletti rilascia un commento sarcastico: “…il Msi – afferma l’intellettuale antifascista – è nel parlamento italiano da tanto, malgrado una legge (Scelba) vietò la ricostituzione del partito fascista. Si deve quindi pensare che non esiste continuità tra Msi e fascismo. Quindi – conclude Colletti – il Msi non si identifica con i combattenti della Repubblica Sociale i quali, peraltro, ricevono la pensione dallo Stato” (6).
Una verità evidente, lapalissiana, che se proclamata in tempo, tanti anni fa, avrebbe evitato lutti e tragedie al Paese intero, perché avrebbe sottratto alla strumentalizzazione del Msi migliaia di giovani incapaci, non per loro colpa, di intuire la profondità dell’abisso nel quale con l’inganno i dirigenti neofascisti li stavano precipitando.
Il Movimento Sociale Italiano nasce con il fine di imprigionare la massa dei reduci fascisti, spegnendone le velleità rivoluzionarie, in una gabbia dalla quale indirizzarli elettoralmente e, se e quando necessario fisicamente e militarmente, contro i “bolscevichi senza Dio” di Palmiro Togliatti e del Fronte Popolare.
Il magma incandescente che fuoriusciva in mille rivoli dal vulcano fascista, non ancora spento, venne riunito in un’unica colata incanalata verso obiettivi funzionali al rafforzamento ed al consolidamento del nuovo regime.
Autori di questa operazione spregiudicata furono, secondo Piero Ignazi, “alcuni esperti imprenditori politici che catalizzarono la galassia dei gruppi e dei movimenti sorti spontaneamente in tante parti d’Italia e, per lo più, composti da pochissime persone” (7).
Fra gli “esperti” politici vi era, ad esempio, Arturo Michelini, già vice federale di Roma dalla quale, dopo l’8 settembre ’43, non si mosse rifiutando di aderire alla Repubblica di Salò.
Il M.S.I nasce, in teoria, nelle speranze dei reduci fascisti come un “ordine di credenti e di combattenti”, ancorato alla fedeltà ad un passato che, all’epoca, era ancora presente, con i suoi ideali, la sua storia ed i suoi caduti. Ma, nell’arco di soli due anni, registra Ignazi, il partito di Almirante e Michelini circoscrive, sul piano interno, la sua “area di riferimento – ad una destra conservatrice e qualunquista di preferenza meridionale” (8).
Sempre Piero Ignazi segnala, poi, come sia pure tra forti contrasti, al termine del III Congresso Nazionale svoltosi a L’Aquila, fra il 26 ed il 28 luglio 1952, in politica estera, la dirigenza del Msi nella sua “mozione conclusiva, dilungandosi sul pericolo della ‘forza dissolvente del materialismo marxista, che si attua attraverso l’azione della Russia bolscevica’, lascia intendere nemmeno troppo velatamente che, per contrastare questa minaccia, l’Italia deve rientrare nel concerto delle altre nazioni dell’Occidente libero dagli orpelli impostigli dal diktat.
Per quanto indiretta ed implicita – riconosce lo storico – la scelta di campo è ormai compiuta” (9).
Purtroppo, Piero Ignazi dedica la sua analisi alla descrizione dei dibattiti sempre vivaci e virulenti, che accompagnano le contrapposizioni fra le varie componenti del MSI, ma non riesce a cogliere le connessioni, che pur appaiono con una certa evidenza, fra la classe dirigente missina e i rappresentanti del potere politico, economico, religioso e militare italiano nato dopo l’8 settembre 1943.
Fermarsi a ciò che appare nei documenti ufficiali, registrare solo quanto è stato detto nei comizi e nei dibattiti, scritto sui giornali di partito, ad uso e consumo degli iscritti e dei simpatizzanti, come fa Ignazi, significa scrivere non una storia monca ma, peggio ancora, una cronaca di avvenimenti e di comportamenti che si collocano spesso, se non sempre, nell’opposto di quello che è stato detto e deciso in quella penombra dove è stata scritta e diretta la vera politica di una forza che, come il Msi, doveva apparire di “opposizione” al governo ma essere, in realtà, di supporto al potere.
Non, quindi, il neofascismo come il “polo escluso” della vita politica italiana, ma come il suo “polo occulto” in un ruolo che, dai primi degli anni Settanta, verrà assunto, a sinistra, dal partito comunista italiano. E la prova primaria viene dall’esame dei rapporti intercorsi fra il Msi e quei centri di potere nei quali, uniche e sole, risiedono la forza e la capacità di decidere le sorti dello Stato e della Nazione.
Del tutto errata è, difatti, l’analisi che dei rapporti intercorsi fra il Msi, unica componente veramente rappresentativa del neofascismo italiano, e le Forze Armate fa Piero Ignazi.
“Il rapporto fra il Movimento Sociale Italiano e militari fino agli anni sessanta – scrive lo storico – è improntato ad una sorta di estraneità e indifferenza. Le ragioni di questo atteggiamento rimandano alla storia stessa del partito. Il Msi, infatti, nasce come partito dei reduci della Rsi, dei ‘combattenti che non avevano tradito’, dei ‘non collaboratori’ dei Fascists’ criminal camps.
Esso rappresenta – continua Ignazi -, cioè quella (sconfitta) di un esercito che non aveva seguito la monarchia. Non a caso, il Movimento sociale ha sostenuto per tutti gli anni Cinquanta le associazioni combattentistiche della Repubblica Sociale, dalla Unione nazionale dei Combattenti della Rsi (presieduta da Graziani e successivamente, dopo la morte di quest’ultimo, da Borghese) a tutte quelle d’Arma. E ha sollecitato l’approvazione di provvedimenti previdenziali e assicurativi per questi gruppi (pensioni di guerra e riconoscimenti di servizio).
La cesura – ribadisce Ignazi – tra i generali “badogliani” e i sostenitori del “Maresciallo d’Italia” Graziani non poteva essere ricucita in tempi brevi. Si può ben comprendere, quindi, quel misto di diffidenza ed estraneità che connota l’atteggiamento missino verso le Forze Armate negli anni Cinquanta: il Msi si limita a tributare un omaggio di circostanza al ‘valore delle Forze Armate e al loro fondamentale compito’.
Nella mozione congressuale del 1956, ad esempio, si afferma che occorre ‘restituire alle FF.AA. la consapevolezza della propria missione di difesa della Patria’: ma – conclude Ignazi – niente di più” (10).
Troppo lungo sarebbe riepilogare in queste pagine, quanto abbiamo posto in evidenza nel libro “storia segreta di un popolo tradito, 1943-1945”(11), ancora inedito per viltà di “amici” e volontà di nemici.
Possiamo, qui, solo fare cenno al disegno unitario che, di comune accordo, perseguirono gli alti comandi militari italiani, al Sud come al Nord, teso ad evitare una frattura totale e non più rimarginabile all’interno delle Forze Armate italiane dopo l’8 settembre 1943.
Non ci furono, di conseguenza, scontri fra militari italiani dell’esercito regolare “apolitico” di Rodolfo Graziani e quello del Sud. Non ci fu, quindi, versamento di “sangue fraterno”, e il compito svolto da molti ufficiali nell’esercito di Salò si può ben sintetizzare in quell’”aderire per sabotare” che valse, poi, a guerra finita, alla totalità degli alti gradi delle Forze Armate repubblicane assoluzioni con formula ampia o condanne irrisorie da parte delle Corti d’Assise straordinarie che li giudicarono per “alto tradimento” e “collaborazionismo con il tedesco invasore”.
Se mai ci fu scontro all’interno delle Forze Armate dopo il 25 aprile 1945, non fu quello tra “sconfitti” e “vincitori”, tra due diverse e contrapposte concezioni dell’onore militare, fra “nordisti” e “sudisti”, bensì fra i sostenitori della “resistenza tricolore” (12) e quelli dell’adesione dichiarata alla causa delle potenze anglosassoni, fra due distinti modi di concepire e attuare il tradimento .
Fra coloro che ascrivevano, cioè, a proprio merito la “salvezza dell’Italia” dall’ira e dalle distruzioni germaniche, ottenuta con l’essersi falsamente schierati dalla parte del Terzo Reich, e quelli che, viceversa, rivendicavano a se stessi la “gloria” di aver ottenuto per l’Italia, con il loro schierarsi contro Salò e Berlino, il riconoscimento di nazione cobelligerante da parte dei vincitori del conflitto.
E sebbene nessuno abbia voluto, fino ad oggi, penetrare nei segreti di questo capitolo della nostra storia, per smentire quanto scrive Piero Ignazi (ed asserisce la verità ufficiale) è sufficiente rilevare come gli ambienti nei quali fulminea o, comunque, rapidissima fu la ricomposizione di ogni frattura interna furono, tra i primi, quelli militari e di polizia.
Risale, addirittura, al febbraio 1946 la prima chiamata alle armi da parte del nuovo esercito italiano, con il solo limite di 12 mesi di leva al posto di 18, per gli “ex appartenenti alle forze armate della RSI che non avessero procedenti penali” (13).
E, sei anni più tardi, il governo italiano con la “Legge 23 febbraio 1952 n. 93 riconobbe ai fini della carriera degli ufficiali il servizio prestato nelle Forze Armate della RSI” (14).
Con questo gesto, il regime democristiano ed antifascista, confortato dall’assenso delle potenze alleate vincitrici, sanciva come autentico il ruolo ‘resistenziale’ ricoperto dall’Esercito della Repubblica del Nord, agli ordini del Maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani. E dava pubblico ed ufficiale riconoscimento a quella “Salò tricolore” nel cui nome asserivano di aver combattuto i soldati in “grigioverde” dell’Armata Liguria, della Guardia nazionale Repubblicana e delle altre formazioni regolari della Repubblica Sociale Italiana.
Non è certo dovuto al caso che, nel momento in cui veniva sancita la pacificazione all’interno delle Forze Armate, con il reintegro nella carriera degli ufficiali fino ad allora estromessi a riconoscimento del loro ‘patriottismo’ e della loro fedeltà alla Nazione (contrapposta alla fazione), alla presidenza del M.S.I. vi fosse Rodolfo Graziani, il cui posto verrà significativamente ricoperto, dopo la sua morte, dal principe Junio Valerio Borghese.
Tale riconoscimento da parte di un regime che s’identificava nei principi e nei valori dell’antifascismo liberale e cattolico non poteva che riverberarsi, quindi, sulla forza politica – il Msi – di cui i militari, per mezzo dei due prestigiosi esponenti della loro casta (Graziani e Borghese) si rendevano garanti del suo definitivo distacco dall’ideologia e dalla storia dell’ultimo Fascismo.
Il regime, quindi, ammetteva in forma ufficiale, attraverso la riabilitazione dell’Esercito regolare repubblicano e delle sue figure più rappresentative, di cui venivano riconosciute sia in sede politica che giudiziaria la liceità delle scelte compiute l’8 settembre 1943, il Movimento Sociale Italiano nel novero delle forze politiche nazionali legittimate ad esistere anche sotto il profilo costituzionale.
I dirigenti del Msi, da parte loro, avevano compiuto fin dall’inizio il loro atto di abiura nei confronti della ‘Salò nera’ incarnata da Alessandro Pavolini e dalle sue Brigate Nere, rendendo così esplicita la loro scelta a favore della “nazione” contro la “fazione”: la prima rappresentata dalle Forze Armate, garanti dell’unità nazionale; la seconda dal Fascismo Repubblicano di cui rinnegarono le idee, la scelta e la storia.
Ancora nel 1973, Giorgio Almirante, nella sua autobiografia, ribadiva la validità della scelta facendo discendere la sua decisione di aderire alla Repubblica di Salò, nell’ottobre 1943, non dal discorso di Benito Mussolini, dopo la liberazione dal Gran Sasso, e, tantomeno, dall’appello di Alessandro Pavolini, ma dal discorso tenuto da Rodolfo Graziani, a Roma, al Teatro Adriano, nei primi di quel mese di ottobre di cinquantuno anni or sono (15).
Non deve, quindi, destare stupore il fatto che, nel 1954, Virgilio Spigai, un ufficiale della Marina Militare, destinato ad ascendere ai più alti gradi delle Forze Armate negli anni ’60 e ’70, potesse scrivere un libro sulle imprese della X Flottiglia Mas e del suo comandante, fino all’8 settembre 1943 (16), mentre un ex marò della divisione di fanteria di marina “Decima “, Adriano Bolzoni, in un suo libro autobiografico, abbia voluto ricordare che, con i suoi commilitoni del “Barbarigo”, cantava una canzonetta il cui ritornello recitava: “Fuoco per Dio sui barbari, fuoco sulle Brigate Nere” (17).
Appare, quindi, ovvio che dalla memoria storica dell’ambiente neofascista sia stata letteralmente cancellata la figura umana e politica di Alessandro Pavolini, in modo così radicale che il solo a scrivere una biografia, non scevra da espressioni di sincero rispetto, sia stato uno storico antifascista (18).
Hanno così sradicato, i capi del neofascismo italiano parlamentare ed extraparlamentare, dalla coscienza delle giovani generazioni il ricordo della ‘fazione’, insieme ai suoi principi ed al suo patrimonio ideale. In compenso, gli hanno donato la ‘nazione’, la stessa che, dopo mezzo secolo, anche al loro determinante concorso possiamo definire la prostituta d’Italia.
Con queste premesse, la pretesa avanzata da Gianfranco Fini per il Msi, Giulio Cesco Baghino, per l’Unione Combattenti della RSI, e Luigi Poli, per l’Associazione Nazionale della Guerra di Liberazione, nel settembre del 1993 (ed ossessivamente ribadita fino ad oggi), di ‘sancire’ la ‘pacificazione’ tra l’Esercito del Sud, rimasto fedele al Re dopo l’armistizio e quello del ‘Nord’, passato con Mussolini a Salò (19) si configura come una vera e propria truffa storica e politica.
La “pacificazione nazionale” proposta, difatti, da questi tre “magliari”, e dai loro complici, dovrebbe avvenire fra mutuati e pensionati dello stesso Stato, che da mezzo secolo niente e nessuno divide.
Del resto, tutta la storia del neofascismo italiano, dagli inizi ad oggi, altro non è che il cinquantennale sviluppo di un inganno che non è stato ancora smascherato solo perché, il farlo, comporterebbe la necessaria violazione di troppi segreti di Stato da parte di un potere che ha tutta la convenienza a mantenerli integri, per garantirsi la sopravvivenza.
Note del capitolo primo
(1) Il Belgio rifiuta i resti di Degrelle, la Repubblica, 26-04-1994;
(2) Vietato negare l’olocausto, la Repubblica, 27-04/1994;
(3) F. FABIANI, “Dimenticare Vichy? Mitterand sott’accusa”, La Repubblica, 16-04-1994;
(4) P. IGNAZI, “Il polo escluso”, Il Mulino, Bologna1989;
(5) Fini: cessino le divisioni e l’odio nati l’8 settembre, Il Giorno 06-09-1993;
(6) G. BATTISTINI, “Stringersi la mano? No fino a che…”, La Repubblica, 07-09-1993;
(7) P.IGNAZI, op. cit. 29;
(8) Ibidem, p. 48;
(9) Ibidem, p. 70;
(10) Ibidem, pp. 110-111;
(11) V. VINCIGUERRA, “Storia segreta di un popolo tradito”, inedito 1985;
(12) Si legga a questo proposito quanto scrive U. Piccini in: “Una pagina strappata”, Corso, Roma 1983;
(13) V. ILARI, “Le Forze Armate tra politica e potere 1943-76”, Vallecchi, Firenze 1979, pp. 20-21;
(14) Ibidem, p. 26;
(15) Si legga quanto scrive in proposito Giorgio Almirante in “autobiografia di un fucilatore”, Il Borghese, Milano 1973;
(16) V. SPIGAI, “Cento uomini contro due flotte”, Tirrena, Livorno 1954;
(17) A BOLZONI, “La guerra dei neri”, Ciarrapico, Roma 1981;
(18) A. PETACCO, “Pavolini”, Mondadori, Milano 1982;
(19) “Scalfaro non benedirà pacificazioni”, Il Corriere della Sera 08-09-1993;
(20)
CAPITOLO II
IL M.S.I. AVAMPOSTO STATUNITENSE IN ITALIA
Uno fra i principali inganni è quello relativo all’inserimento attivo dei neofascisti, coordinati dai vertici nazionali del Movimento Sociale Italiano, nei piani predisposti dallo Stato Maggiore Difesa per fronteggiare la duplice eventualità di un’insurrezione armata dei comunisti o di una loro vittoria elettorale: nel primo caso per reprimerlo, nel secondo per vanificarla. In entrambi, con la forza delle armi.
Sprazzi di luce su queste pagine ancora intense della storia del Msi e dei gruppi ad esso collegati, sono apparsi, di tanto in tanto, in qualche pubblicazione senza però che sia mai stata condotta una ricerca sistematica ed approfondita per ricostruire i legami che sono intercorsi, da sempre, fra i neofascisti e gli apparati di sicurezza dello Stato democratico ed antifascista.
Sono stato il primo a rivelare che il 18 aprile 1948 “nella sede centrale del Msi…campeggiava una mitragliatrice Breda 37, dotata di adeguato munizionamento e servita da tre reduci della Repubblica Sociale in grado di farla funzionare in modo efficace in caso di necessità.
L’arma non usciva dai depositi clandestini dei “Fasci di Azione Rivoluzionaria” o di altre forze paramilitari “neofasciste”, ma era stata, molto più semplicemente, fornita dall’Esercito Italiano sulla base dei piani di difesa (e di offesa) previsti per quel giorno.
Non soltanto il Msi – rivelavo – perché un’altra dello stesso tipo figurava nella sede della Dc, a Piazza del Gesù.
Qui, però, di esperti in grado di sparare con la mitragliatrice non ce n’erano proprio, nemmeno uno, come del resto non doveva essere difficile immaginare fra tanti “combattenti della Fede”, usi più ad utilizzare la penna per delle delazioni anonime che non il fucile: così Alcide De Gasperi fece chiedere direttamente a Giorgio Almirante, allora segretario del Msi, tre uomini in grado di sparare con la Breda 37, per difendere la sede Dc dall’attacco delle orde bolsceviche.
E Almirante, onorato come suo costume dalla richiesta di De Gasperi, i tre glieli mandò: esperti, capaci di sparare e determinati a farlo (1).
Le conferme, a quanto da me scritto non sono mancate.
In un rapporto della CIA, reso pubblico in tempi recenti, si può leggere, con riferimento alle elezioni dell’aprile 1948, che in caso “…di conquista del potere in Italia da parte comunista per vie legali” - cioè attraverso le elezioni – “si considera la possibilità di operare per vie illegali, come la falsificazione dei risultati elettorali o l’appoggio a una rivolta armata” (2).
Lo stesso Francesco Cossiga, ancora presidente della Repubblica, parlerà delle armi distribuite dai democristiani in quelle giornate del 1948 provocando, insieme a smentite ufficiali, una valanga di conferme da parte di protagonisti di medio e basso profilo dui quegli avvenimenti.
Mentre Roberto Chiarini e Paolo Corsini, in un loro saggio, possono riportare quanto scritto in una inedita tesi di laurea, basata su “numerose testimonianze orali di esponenti neofascisti locali… - che – “a Brescia dove i corpi di tutela apparivano particolarmente insufficienti…i carabinieri si videro costretti a chiedere aiuto agli adepti del Msi, ad armarli e a considerarli come fedeli allo Stato che essi erano chiamati a difendere…”(3).
Non ci fu costrizione da parte dei carabinieri nel rivolgersi ai missini di Brescia e ad armarli, ma semplice atto di obbedienza alle direttive impartite in tal senso – valide per l’intero territorio nazionale – dal loro Comando Generale.
Dopo Roma e Brescia, difatti, anche in Friuli c’è chi racconta, oggi, che il 18 aprile 1948 neofascisti e carabinieri si divisero armi e compiti (4) per fronteggiare il pericolo comunista a riprova – se mai ce ne fosse stato bisogno – di un coinvolgimento totale degli uomini, e del partito, che si proclamavano eredi e continuatori della RSI nelle strategie politico-militari dei vincitori della Seconda guerra mondiale.
Sarebbe errato pensare che gli avvenimenti del 18 aprile 1948 siano stati provocati dall’eccezionalità dell’evento e dall’importanza della posta in gioco. Che ci sia stata, cioè, una convergenza temporanea tattica fra i dirigenti del neofascismo e gli esponenti del potere antifascista per fronteggiare il comune nemico comunista, con il fine di scongiurarne l’avvento al potere. In realtà, l’esigenza di prepararsi ad uno scontro militare con i comunisti, in Italia, fu avvertita ai più alti livelli politici e militari alleati quando ancora non erano cessate le ostilità contro i tedeschi.
Dalla fine della guerra in poi, prioritaria diviene l’esigenza di creare uno schieramento, il più ampio possibile, anticomunista capace di battersi, anche militarmente, se il caso lo avesse richiesto, contro la “quinta colonna” sovietica in Italia. Proliferarono, dunque, formazioni paramilitari che rappresentarono il braccio clandestino ed occulto dello Stato, in funzione anticomunista, nelle quali militarono numerosissimi elementi di estrazione neofascista (5).
Non è dato sapere, ancora oggi, quanti furono i neofascisti che in queste organizzazioni si intrupparono a titolo personale o ‘comandati’ dalle gerarchie nazionali del Movimento Sociale Italiano. Di certo, c’è che molti di costoro li ritroveremo nei ranghi del partito di Michelini, dei Romualdi, degli Almirante che, a giusto titolo, al di là dell’immagine propagandistica di forza alternativa al sistema, si considerava una riserva a disposizione dello Stato Maggiore Difesa e dei suoi apparati di sicurezza nell’ipotesi di una definizione militare del problema rappresentato dal Partito Comunista Italiano.
Le prove ormai abbondano. Trattando del neofascismo a Brescia, Corsini e Chiarini non possono esimersi dal soffermarsi sulla principale, anche se finora pressoché sconosciuta, organizzazione politico-militare in attività in quegli anni: l’Armata italiana della Libertà.
Dopo aver scritto che “l’organizzazione, sorta a livello nazionale nell’aprile del ’46, per iniziativa di ex combattenti ed ufficiali dell’esercito e subito incoraggiata e sostenuta dal governo americano, si propose ufficialmente di ‘dare al Paese la speranza di una sicura difesa…per parare le minacce che alla libertà verrebbe dalla cosiddetta democrazia progressiva’. – I due notarono come - …il carattere espressamente anticomunista dell’AIL nonché l’adesione di qualificati esponenti dell’ambiente militare favoriscono una vocazione all’ordine che diventa motivo di raccolta, oltre che di larghe schiere di monarchici, anche di numerosi ex fascisti alla ricerca di rassicuranti protezioni e di possibili rivincite…” (6).
I due studiosi, di seguito, sottolineano il travaso di uomini dall’A.I.L. al Movimento Sociale Italiano il quale non presentava, evidentemente, caratteristiche e finalità politiche diverse da quelle dell’organizzazione militar-massonica alla quale avevano appartenuto.
“Aderiscono – scrivono, difatti – giovani che saranno poi in prima fila, e con responsabilità dirigenti, nel MSI bresciano, come Mario Tellini, ex legionario del battaglione Forlì, in seguito redattore dell’organo di partito “Fiamma”, Oberdan Camonchia, futuro membro dell’esecutivo provinciale della federazione missina, Aldo Bussei e, con funzioni di rincalzo, alcuni giovani neofascisti che per la loro età sono sfuggiti al giudizio dei Tribunali” (7). Sul piano organizzativo, l’Armata Italiana della Libertà ricalca lo schema classico della doppia struttura – politica e militare, ufficiale e clandestina – che sarà adottata dal Msi e, via via, da tutte le organizzazioni della destra extraparlamentare.
“Si distribuiscono armi, si costituiscono depositi periferici di esplosivi in vista di scadenze impegnative e per prepararsi ad ogni evenienza. Vengono approntati i cosiddetti ‘nuclei di fuoco’, gerarchicamente inquadrati, sottoposti a rigida disciplina militare e composti da uomini di assoluta fiducia “ (8).
Nulla di diverso da quanto noi abbiamo conosciuto.
Il ritorno di tanti giovani neofascisti alla vita politica attiva passa, quindi, attraverso l’esperienza compiuta in organizzazioni paramilitari dello Stato, dirette da ufficiali delle Forze Armate provenienti, in gran parte, dai servizi di sicurezza.
Nessuno di costoro darà, nel tempo, segni di reminescenza, dimostrerà di aver compreso l’errore politico compiuto, di essersi reso conto di essere stato strumentalizzato dallo Stato antifascista. Al contrario, tutti resteranno fedeli a questo loro passato di “ausiliari” delle forze di polizia confortati dal fatto che nei gruppi politici nei quali confluiranno, quando la situazione si sarà definitivamente stabilizzata, ai primi degli anni Cinquanta, troveranno gli stessi schemi organizzativi al servizio delle stesse scelte politiche.
Sarà così che molti potranno rivestire il “doppio ruolo” di neofascisti, in pubblico, e di “gladiatori”, in incognito, di oppositori del governo e difensori dello Stato, di eredi di un mondo militarmente sconfitto sul libro paga dei suoi vincitori.
I rapporti fra il Msi e il mondo politico di centro-destra, prima la Democrazia Cristiana, talora conflittuali in situazioni contingenti, godono dell’avallo dello Stato e della Nato, sono garantiti al più alto livello militare e di sicurezza perché il partito di Graziani e Borghese, di Michelini ed Almirante, costituisce una riserva umana preziosa per le gerarchie militari occidentali per le quali l’emergenza anticomunista è cessata solo nel 1989.
Costituisce, il Msi, una riserva politica perché, insieme ad altre forze della destra cattolica e liberale, può costituire un polo in grado di colmare un eventuale vuoto determinato da un crollo elettorale della Democrazia Cristiana.
I missini ci sperano nel 1951-52, quando i rapporti fra la DC e le gerarchie vaticane conoscono una grave crisi; nel 1962-63, quando giocano la carta del cedimento della DC al comunismo, ai tempi del varo del centro-sinistra; ancora nel 1971-72, quando una soluzione autoritaria sembra essere, ancora, l’unico sbocco al clima di violenza e all’avanzata elettorale del PCI favorito dalla ‘debolezza’ democristiana. Ci riescono nel 1994, quando il partito egemone crolla sotto il peso del fango che l’azione giudiziaria gli rovescia addosso, provando la corruttibilità dei suoi esponenti e la loro propensione al ladrocinio.
Dopo 48 anni di “onorato servizio”, il cane fedele dello Stato e della Nato vede, così, premiata la sua costanza e, raccolta la scodella da terra, può sedersi, ilare e soddisfatto, al tavolo del padrone.
Senza precedere gli eventi, torniamo ai rapporti fra il neofascismo e le Forze Armate, lasciando le parole, ancora, a Piero Ignazi.
“All’inizio degli anni Sessanta – scrive costui – il tono cambia. Dalla stima generica alla sottolineatura del loro ruolo fondamentale nella società italiana ed alla necessità di un potenziamento delle risorse ad esse destinate. Nonostante l’enfasi siamo sempre nell’ambito di una interpretazione classica delle funzioni delle Forze Armate, senza appelli ad un loro intervento nella vita politica.
I rapporti tra il M.S.I. e alte gerarchie militari rimangono, infatti, assai tenui a causa del pedigree resistenziale – continua Ignazi – di queste ultime. L’unica eccezione di peso, per quanto a livelli più bassi e in ambiti circoscritti, rimanda all’intreccio tra carabinieri e servizi segreti da un lato, e giovani del partito dall’altro, stabilitosi nei momenti caldi del terrorismo altoatesino. In questo contesto i giovani missini vengono utilizzati per azioni ‘coperte’ (sabotaggi, attentati, ecc.) o per ‘missioni speciali’ anche in territorio austriaco.
Rispetto a questa sostanziale indifferenza del Msi, la destra radicale sviluppa invece una strategia dell’attenzione verso le Forze Armate e prefigura, sulla scorta di una precisa analisi della situazione politica, scenari inediti” (9).
Appare qui delineata, in maniera inequivocabile, la pretesa missina di affidare alla storia politica di quest’ultimo mezzo secolo una verità che lo dichiari estraneo ai rapporti di dipendenza intercorsi, negli anni Sessanta e Settanta, fra le organizzazioni della cosiddetta destra extraparlamentare e gli apparati di sicurezza dello Stato e della Nato.
Piero Ignazi se ne fa convinto portavoce, ed avalla un teorema che ricalca supinamente quello costruito dalla magistratura, ben attenta, in dispregio della verità, a salvaguardare, sempre e comunque, le forze politiche rappresentate in Parlamento scaricando ogni responsabilità su quelle che, per essere definite, extraparlamentari possono essere rappresentate credibilmente, ad una disinformata opinione pubblica, come fautrici di azioni antidemocratiche e “sovversive”.
In realtà, il Msi non ha mai perso il controllo delle organizzazioni extraparlamentari, nemmeno quando, in apparenza, la loro attività ha assunto coloritura anti-partito ed è parsa danneggiare gli interessi elettorali.
Piero Ignazi, forse inconsapevolmente, ha voluto ignorare la realtà dei rapporti intercorsi, a partire dal 1946 e per tutti gli anni Cinquanta, fra il Movimento Sociale Italiano e le Forze Armate che, viceversa, come abbiamo visto, si pongono addirittura come garanzia nei confronti del mondo politico della lealtà e della fedeltà del neofascismo verso l’ordine, interno ed internazionale, sorto alla fine della Seconda guerra mondiale.
Il neofascismo, da parte sua, in quegli anni elegge i suoi idoli in quei capi militari (Graziani e Borghese) che si fanno vanto e merito di aver difeso, sempre e solo, la Nazione contro gli interessi delle fazioni, prima quella fascista. Ribadiscono, in tal modo, quel concetto di ‘apoliticità’ del militare, caro ad un ambiente che pone se stesso al di sopra delle parti, attento solo agli interessi perenni della Nazione senza lasciarsi coinvolgere nelle meschine diatribe dei partiti e delle converticole politiche.
Ricostruire l’unità delle Forze Armate, affermando che tutti i suoi componenti, nel biennio 1943-45, avevano inteso difendere il supremo bene della Nazione e salvaguardare l’onore militare, sia schierandosi agli ordini del governo di diritto (il Regno del Sud) che di quello di fatto (La Repubblica del Nord), occorreva vigilare affinché la Patria ritrovata non venisse minacciata dal pericolo di una forza – quella comunista – al servizio di una potenza straniera ed ostile – la Russia – internazionalmente riconosciuta come tale dall’intero mondo occidentale. E’ evidente che il modello militare, che aveva dimostrato di saper rimarginare la ferita determinatasi all’interno del suo organismo l’8 settembre 1943, rappresentava per il M.S.I. un esempio da riproporre in campo politico. Una destra patriottarda che “non rinnegava né restaurava”, ma più semplicemente proponeva il Fascismo come esperienza storica comune a tutti gli italiani, non più riproponibile e, proprio per questa ragione, non più fonte di divisione fra gli italiani amanti della Patria (comunisti inclusi), aspirava ad ottenere il riconoscimento di forza politica in grado di rappresentare gli interessi di tutti gli italiani che alla “fazione” anteponevano la “Nazione”.
In attesa che la sua politica trovasse ufficiale riconoscimento e venisse elettoralmente premiata, il Msi si accontentava di partecipare attivamente, in maniera concreta sebbene riservata, alla difesa dell’Occidente minacciato dai comunisti.
Ancora una volta, sarebbero state le Forze Armate a fornire il modello e l’esempio di una difesa attiva contro l’Unione Sovietica, con un’azione che avrebbe provocato per lunghi anni conseguenze nefaste e tragiche per il nostro Paese.
Un evento ignorato dagli storici contemporanei avrebbe indicato ai neofascisti italiani la via da seguire per giungere, come comprimari, a quel governo della Nazione dal quale l’ostilità democristiana li teneva costantemente – quando -, così pensavano, ottusamente lontani.
Il 13 maggio 1958, in Algeria, avveniva un “colpo di Stato”: le Forze armate francesi, in piena unità d’azione e di intenti, nella colonia come nel territorio metropolitano acclamavano capo dello Stato il generale Charles De Gaulle, al quale demandavano il compito di conservare l’Algeria alla Francia.
Non un colpo di fucile, non una goccia di sangue turbò quel giorno di maggio che vide le Forze Armate di una grande nazione europea infrangere le leggi dell’obbedienza militare e rovesciare un governo, giudicato inetto ed imbelle, per affidare al più prestigioso degli ufficiali francesi il compito di difendere la Francia dall’attacco sovversivo che, dopo l’Indocina, cercava di strappargli anche l’Algeria.
Il modello francese divenne, da quel giorno, l’esempio da seguire in Italia per un neofascismo che, consapevole della propria impotenza numerica e politica, rafforzò i propri legami con le Forze Armate che uniche, come si era visto il 13 maggio 1958, potevano mutare i destini della Nazione, chiamando al potere quei politici che più garanzie davano sul piano dell’anticomunismo e della fedeltà all’Alleanza Atlantica.
Piero Ignazi registra che il Msi “dalla stima generica” nei confronti delle Forze Armate passa all’inizio degli anni Sessanta “alla sottolineatura del loro ruolo fondamentale nella società italiana”, ma non ne cerca le origini, non ne comprende le finalità e, come tutti, non coglie che quelle lodi sperticate dei missini all’esercito dell’Italia democratica ed antifascista segnano l’inizio della tragedia che il Paese conoscerà per oltre un ventennio. Viceversa, dobbiamo rilevare che per Piero Ignazi la dimostrazione dell’estraneità dei vertici del Msi da ogni compromissione con il mondo militare, rappresenta una autentica ossessione. Difatti, nel prosieguo del suo libro, si sente obbligato a scrivere: “In conclusione, si può affermare che in questa fase, a metà degli anni Sessanta, il partito di Michelini è assente, come promotore ufficiale o ufficioso, da iniziative che non siano di “reducismo”: il partito non si discosta dalle consuete espressioni di stima e di deferenza verso le Forze Armate.
I debolissimi legami con le alte gerarchie militari, retaggio della guerra civile – i vincitori ed i vinti – e l’inconciliabilità tra la strategia di integrazione-legittimazione e le ipotesi interventiste-golpiste patrocinate dalla destra radicale spiegano la sostanziale estraneità del Movimento sociale al fermento e agli intrecci tra militari ed estrema destra. Questa assenza – conclude Ignazi – se evita al Msi di trovarsi invischiato nelle faide interne dei servizi segreti e delle trame golpiste (caso Sifar) tuttavia lascia libero il campo ai movimenti della destra radicale, e consente a costoro di guadagnare credito come alfieri della lotta anticomunista. Tutto ciò comporta, inevitabilmente, una perdita di influenza del Msi nell’ambito della destra” (10).
Abbiamo visto come la realtà si collochi esattamente all’opposto di quanto asserisce Ignazi sui rapporti fra il Msi e Forze Armate, sul piano storico e politico. Vediamo, ora, di evidenziare l’aspetto parallelo, quello clandestino ed occulto, dei collegamenti della dirigenza missina con il mondo militare ed i suoi organismi di sicurezza. Lo faremo concentrando la nostra attenzione sulla figura chiave del neofascismo italiano, quel Giorgio Almirante che meglio – e più di altri – ha saputo incarnare la politica del doppio binario che ha condotto un mondo politico alla distruzione, ponendolo al servizio del suo nemico.
La prima, inconfutabile, traccia dell’impegni di Giorgio Almirante nelle attività clandestine e paramilitari la troviamo nella primavera del lontano 1947. Il 21 marzo di quell’anno, difatti, viene ucciso a Milano dagli uomini della “Volante Rossa” Franco De Agazio, direttore de “Il Meridione d’Italia”. In quell’occasione “venne trovata nelle sue tasche – scrive Murgia – una lettera scritta da Giorgio Almirante. In essa c’era scritto: “Caro De Agazio, a nome del Movimento ti pregio di una missione urgente ed importantissima. Abbiamo avuto notizia sicura che il cardinale Fossati di Torino ha convocato parecchie persone e personalità allo scopo di addivenire alla fondazione in Piemonte di squadre di resistenza anticomunista.
Tu capirai cosa significa e cosa può significare ciò: affidiamo, quindi, a te la missione di andare a Torino, possibilmente con altra persona di tua fiducia, di farti ad ogni costo ricevere dal Fossati e di prospettargli la possibilità che il Msi collabori con lui.
Gli puoi anche dire – perché è vero – che i gesuiti di qua ci conoscono, ci approvano e ci appoggiano. E’ ovvio – proseguiva Almirante – che della faccenda non si deve parlare con nessuno, né prima né dopo; e che le notizie in merito devono esserci trasmesse a mano.
Non ci siamo rivolti al nostro incaricato di Torino perché la cosa è troppo delicata e interessante. Vedi tu – concludeva il segretario nazionale del Msi – con il tuo diplomatico tatto il modo migliore per condurla in porto…” (11).
Si potrebbe dire che, in quegli anni, era normale per le forze politiche del centro-destra organizzare gruppi clandestini para-militari in funzione anticomunista e che, pertanto, il comportamento di Giorgio Almirante deve essere fatto rientrare nelle norme e nelle regole del tempo.
Un anno più tardi – lo abbiamo già raccontato – è sempre lui, nella veste di segretario nazionale del partito, a partecipare ai piani militari della Stato predisposti per il 18 aprile 1948. Si potrà ancora riscaldare la solita minestra sulla eccezionalità del momento, della priorità della lotta anticomunista etc. etc., e pensare di aver risolto il problema. Ma, ai primi anni Sessanta, le Forze Armate italiane, con il supporto dei corpi di polizia e dell’intero apparato della Nato, poteva fronteggiare qualsiasi emergenza senza ricorrere all’apporto operativo del neofascismo italiano.
E invece non fu così.
Abbiamo visto Piero Ignazi riconoscere il coinvolgimento di giovani iscritti al Msi, nei primi anni Sessanta, in “operazioni coperte” in Alto Adige ed in Austria. Ma, contrariamente a quello che egli sostiene, i servizi di sicurezza italiani reclutarono manodopera neofascista non all’insaputa dei vertici di partito, bensì per il loro tramite. In Alto Adige non esisteva un pericolo comunista al quale contrapporsi con la collaborazione delle Forze Armate e dell’Arma dei carabinieri. Non c’erano i “rossi”, anzi si dava per scontato che i cosiddetti “terroristi” altoatesini gravitassero in un’area ideologicamente “nostra”, che fossero cioè “camerati”, tanto che molti – fra i quali chi scrive – si fecero punto d’onore di non partecipare ad una sola delle manifestazioni organizzate dal partito di Michelini per rivendicare la ”italianità” del Sud Tirolo.
Se, però, in Alto Adige non c’erano implicazioni di carattere ideologico, non bisognava difendere la civiltà cristiana, esisteva da parte degli organismi di sicurezza italiani la necessità di operare senza “bruciarsi”, in caso di inconvenienti, sempre possibili, nel corso di azioni di sabotaggio in Austria che, se non era una nazione alleata, non poteva configurarsi come nemica.
Fu un’esigenza tecnica, quindi, quella che indusse i responsabili del Sifar a rivolgersi ai dirigenti nazionali del Msi perché ponessero a loro disposizione persone in grado di compiere azioni dinamitarde che avrebbero potuto giustificare, in caso di arresto, con “l’amore per l’Italia”.
Tazio Poltronieri, secondo Stefano Delle Chiaie (12), partecipò alle operazioni organizzate dal Sifar in Austria ed in Alto Adige, su esplicito ordine di Arturo Michelini. E, quando venne incriminato dalla magistratura, trovò il sostegno di un alibi fornitogli, o comunque, promessogli da Giorgio Almirante e dal senatore Cremisini.
Anche Alois Amplatz e George Klotz vennero attirati, sempre secondo Stefano Delle Chiaie nel nostro territorio da “camerati” italiani con i quali avrebbero dovuto incontrarsi per trovare un accordo teso ad evitare uno “scontro fra camerati”. Trovarono, invece i due altoatesini il piombo italiano che ne uccise uno e ferì l’altro.
Enzo Maria Dantini, un altro “rivoluzionario” di Stato, confesserà a Randolfo Pacciardi di essere stato, anch’egli “chiamato dal Sifar che lo incaricò di gettare bombe a Innsbruck per rappresaglia alle bombe di Bolzano, ma non lo disse mai – ricordava l’ex ministro della Difesa – ai magistrati” (13).
E’ presumibile che a Randolfo Pacciardi, l’omertoso (con il Sismi) Enzo Maria Dantini non disse nemmeno quello che, viceversa, raccontava in privato ai suoi camerati: e cioè che l’ordine di mettere le bombe per conto dei servizi segreti militari gli venne personalmente impartito da Giorgio Almirante.
“Detto en passant – scrive Piero Ignazi -, il Msi è del tutto estraneo al “tentato colpo di Stato” (il Piano Solo) del generale De Lorenzo dell’estate 1964” (14).
Premesso che Giovanni De Lorenzo non ebbe mai intenzione di attuare un “colpo di Stato”, esistono le prove che i vertici nazionali del Msi non solo sapevano dei movimenti in corso all’interno della Democrazia Cristiana e delle Forze Armate, ma ne erano pienamente partecipi (15).
Cosa del resto logica, dato che l’ipotesi alla base di tutti i piani di quegli anni, fossero essi più o meno velleitari, non c’era il “colpo di Stato”, inteso come azione contro il regime democristiano, ma un “pronunciamento militare” sostenuto da tutte le forze politiche “nazionali” ed anticomuniste che ripetesse, in Italia, quanto l’esercito francese aveva fatto il 13 maggio 1958.
Il problema insormontabile era rappresentato dal fatto che per dirigere la repubblica presidenziale, in Italia, non c’era una sola figura carismatica, capace di concentrare sulla sua persona il consenso ed il rispetto di tutte le forze anticomuniste e di quelle militari.
In Francia, la convergenza era stata resa possibile dalla presenza del generale Charles De Gaulle, in Italia c’era il vuoto. Meglio, il pieno: di nani politici e pigmei morali.
Anche Piero Ignazi cerca di accreditare la leggenda della linea divisoria che sarebbe stata tracciata, in modo netto ed in equivoco, già dalla metà degli anni Cinquanta fra il partito di Almirante e Michelini e le organizzazioni della destra extraparlamentare.
Sappiamo che così non è, che si tratta di una “voce” priva di fondamento perché la realtà è diversa e, comunque, molto più articolata di quanto vogliono farla apparire i fautori della separazione fra i neofascisti “buoni”, del Msi, e quelli “cattivi” di “Ordine Nuovo” e di “Avanguardia Nazionale”.
Ad esempio, nell’organizzazione dell’”operazione manifesti cinesi”, risalente al 1964, di cui abbiamo ampiamente parlato in altri nostri documenti, il Msi compare accanto a “Avanguardia Nazionale”, a “Il Borghese” e al ministero degli Interni con un suo rappresentante, tale La Morte.
E’ innegabile che, specie da parte di Pino Rauti, Giulio Maceratini e compari (o meglio, colleghi), gli attacchi ai “traditori” missini ci siano stati, pubblici e ripetuti, ma un anno dopo aver condotto, nella campagna elettorale del ’68, la battaglia per la astensione dal voto quale forma di protesta contro il sistema dei partiti politici, gli stessi feroci “nazisti” chiedevano l’”onore” di rientrare nel Msi. Due le motivazioni di questo gesto squalificante: era venuto il momento, secondo Pino Rauti, di “aprire l’ombrello”, mettendosi al riparo di un partito rappresentato in Parlamento, ed era rientrato nella segreteria nazionale del Msi, a seguito della morte di Arturo Michelini, Giorgio Almirante.
E fu proprio quest’ultimo, a riprova dell’esistenza di un rapporto di complicità, che quando vi fu la necessità di un autorevole intervento per vanificare le anomale (per quei tempi) iniziative della Questura di Roma contro elementi di “Avanguardia Nazionale”, a prodigarsi a loro favore.
A raccontarlo, in questo caso in pubblico, in un’aula giudiziaria, è personalmente Stefano Delle Chiaie nel corso del suo interrogatorio dinanzi alla Corte d’Assise di Bologna nel 1987.
“Alla fine degli anni Sessanta – ha raccontato l’ex capo di Avanguardia Nazionale – si verificarono episodi di pressione dell’Ufficio Politico della Questura di Roma nei confronti dei ragazzi a me vicini. Con promesse di posti di lavoro, tentarono di fare rendere loro dichiarazioni che potevano essere per me pregiudizievoli. Anche Sandro Pisano fu oggetto di queste pressioni.
Le dichiarazioni di questi ragazzi – ricorda Delle Chiaie – furono esibite al giudice Occorsio dall’onorevole Almirante” (16).
Perché mai Giorgio Almirante, che non svolgeva certo la professione di avvocato, dovesse rappresentare, dinanzi al sostituto procuratore Vittorio Occorsio, i suoi interessi a quelli dei ragazzi di Avanguardia Nazionale, Stefano Delle Chiaie non lo spiega. E nessuno glielo chiede.
E nessuno, tantomeno, si sofferma sugli incontri, l’ultimo dei quali avvenuto nel 1973, fra Stefano Delle Chiaie e Giorgio Almirante negli anni in cui il capo di Avanguardia Nazionale era ormai indissolubilmente legato ai tragici fatti del 12 dicembre 1969, tanto da essere in latitanza per un’accusa di “falsa testimonianza”, riferita proprio ai suoi legami con l’avanguardista Mario Merlino, implicato anch’egli negli stessi episodi.
Quello che è stato definito, impropriamente, il “golpe Borghese”, dal nome dell’ex presidente del Msi, Junio Valerio Borghese, che lo capeggiò, non ha visto ufficialmente i vertici nazionali di quel partito compromessi. Ma è vero che Sandro Saccucci, esponente missino, era parte integrante del piano “golpista”, anche se questa sua collocazione è stata fatta svanire nel tempo per evitare di dover porre imbarazzanti quesiti ai dirigenti del partito.
Giorgio Almirante – sempre lui – era ovviamente al corrente di quello che sarebbe accaduto la notte fra il 7 e l’8 dicembre 1970, in Italia, tanto da aver telefonato nel cuore della notte all’allora ministro degli Interni, Franco Restivo, per informarlo di quanto stava accadendo.
A rivelare l’inedito ruolo del segretario nazionale del Msi in quella occasione è stato, in tempi recenti, Giulio Andreotti (17) che, come al solito, ha sempre saputo e sempre taciuto.
Chiedersi se fu proprio l’iniziativa di Giorgio Almirante di avvertire un Franco Restivo che, da parte sua, complice o no dell’operazione in corso quella notte, non poteva più esimersi dal lanciare l’allarme non potendo ignorare la delazione del capo di un partito di opposizione, a provocare il famoso “contrordine” che riportò carabinieri e poliziotti in caserma e neofascisti a casa, non ci compete in queste pagine.
Qui ci interessa rilevare che, ancora una volta, in uno degli episodi cruciali per la storia del Paese, il Msi è presente, una volta di più, nella duplice veste di movimento “sovversivo” (Saccucci) e “legalitario” (Almirante), che congiurava, da un lato, e denuncia (confidenzialmente), dall’altro.
E’ giusto ricordare come Giorgio Almirante si attivò personalmente nella difesa delle persone arrestate e, successivamente, processate per la loro partecipazione al “golpe Borghese”, così come, fra gli altri, ha testimoniato Gaetano Lunetta in un suo libro dedicato all’argomento (18).
Ma il versatile Giorgio Almirante non lo troviamo solo affaccendato a coordinare le azioni lecite ed illecite del “neofascismo” nella sua duplice versione, parlamentare ed extraparlamentare, con la benedizione ed il supporto degli apparati di sicurezza dello Stato, perché fra bombe che talvolta ammazzano e “colpi di Stato” organizzati prima e fatti fallire dopo, il segretario nazionale del Msi trova il tempo di frequentare personaggi di prima grandezza dell’Italia atlantica e malavitosa che, però, una volta caduti in disgraziati affretta, secondo il suo stile, a presentare come irriducibili nemici della “destra nazionale”e suoi personali.
E’ il caso, ad esempio, di Michele Sindona che nella sua autobiografia, dettata ad un giornalista nord-americano nel carcere di Voghera, ricorderà che il direttore del Sid, Vito Miceli, “sapeva degli accordi di amicizia tra Sindona e Grahm Martin, ambasciatore degli Stati Uniti a Roma: sapeva anche di una relazione sul P.C.I. che Sindona aveva preparato con Giorgio Almirante, segretario del Msi. Documento che l’ambasciatore Martin aveva consegnato direttamente alla Casa Bianca” (19).
Uno spaccato interessante, come si vede, dei rapporti intercorsi fra i vertici del neofascismo italiano e gli uomini dell’alta mafia, democratica ed anticomunista, forza di polizia politica non ancora trasformata in anti-Stato dagli apparati di propaganda del Pds giudiziari, politici e giornalistici.
Non poteva mancare, ovviamente, un rapporto di conoscenza e di collaborazione tra Licio Gelli, il factotum della Loggia Propaganda 2, e Giorgio Almirante. Scriverà il primo: “nel memoriale n. 2: nell’anno 1980 l’onorevole Almirante venne a trovarmi all’Hotel Excelsior per ottenere fondi per il suo partito, ed io feci tutto ciò che era nelle mie possibilità pur trattandosi, per forza di cose, di somma piuttosto modesta” (20). Il segretario del Msi smentirà, da parte sua, sia l’incontro con Gelli che la questua: “Io – dirà – ho avuto uno scontro – non un incontro – diretto con il signor Gelli nella sola occasione in cui ho avuto non il piacere, ma la possibilità di conoscerlo. Era il 1973…Questo – conclude, perentorio Almirante – è stato l’unico contatto avuto con il signor Gelli” (21).
E come suo costume, ora che la tempesta dello scandalo della Loggia P2 scuote il mondo politico, Almirante riscopre, opportunamente, lo spirito antimassonico del neofascismo: “L’influenza della massoneria in genere – dichiara infatti – e della P2 in particolare (e mi consentirà di non fare differenza tra massoneria e P2) è stata pesantemente negativa. Direi – afferma – che è il peggior nemico che il mio partito abbia avuto…” (22). Ma perfino il “blindato” Casson riuscirà a trovare traccia di finanziamenti elargiti da esponenti massonici al Movimento Sociale Italiano, diretto da Giorgio Almirante (23).
E, mentre faceva le roboanti dichiarazioni che abbiamo appena riportato, l’uomo simbolo del neofascismo italiano, “dimenticava” che Mario Tedeschi, già senatore del suo partito; Vito Miceli, parlamentare in carica; Giulio Caradonna, parlamentare in carica e Gino Birindelli, ex presidente del partito erano ormai pubblicamente riconosciuti come massoni e, per di più, iscritti alla Loggia di Licio Gelli.
Sarebbe, però, un errore logico e storico quello di individuare nel solo Giorgio Almirante il responsabile unico dell’asservimento al potere atlantico di un mondo politico e umano che avrebbe potuto - e dovuto – restare coerente con le scelte fatte l’8 settembre 1943, quando decise di continuare la sua guerra non solo contro il materialismo ateo, ma soprattutto contro il capitalismo selvaggio che negli Stati Uniti trovava la sua massima espressione.
Non certo migliore del “capo”, ed altrettanto compromessi nelle strategie e nelle tattiche impiegate dallo Stato e dal regime per sopravvivere sono, difatti, anche i dirigenti di secondo piano che hanno concorso a scrivere la storia del Movimento Sociale Italiano, e del mondo neofascista in tutte le sue articolazioni.
Senza la loro complicità, gli Almirante e i Michelini non avrebbero potuto mai affogare nel fango, così come hanno fatto, un retaggio storico che avrebbe, comunque, meritato una diversa e più dignitosa conclusione di quella che è da un tempo dominio pubblico.
Risale al 1971, il gesto di ribellione di alcuni attivisti del Msi di Milano contro un partito che li usava, quando gli serviva l’impiego della violenza, e li “scaricava”, quando era necessario rendere credibile la sua immagine legalitaria e perbenista.
“Erano in tre – raccontava il giornalista de “L’Espresso” che raccolse lo sfogo-. Ma aveva parlato il più piccolo del gruppo, quello con l’aria più fredda e decisa. Portava una svastica attaccata al collo con una stringa di cuoio. Si chiamava, mi aveva detto, Gianni Ferrorelli. Mi aveva telefonato qualche giorno prima (era il marzo 1971) all’indomani del colloquio televisivo di Giorgio Almirante con Vittorio Gorresio e Alberto Sensini. Un colloquio che segnò l’inaugurazione del nuovo corso preelettorale del Movimento Sociale: legalitario, moderato, perfino parlamentarista.
“Non siamo più disposti a sopportare il gioco di un partito che ci strumentalizzava nelle piazze e ci rinnega alla prima occasione”. Mi aveva detto Ferrorelli al telefono.
“Noi facciamo parte del gruppo neofascista di piazza San Babila e di un altro gruppo di estrema destra che, per ora, deve restare segreto. Siamo noi – aveva sottolineato Ferrorelli – che ci battiamo con la polizia, con i katanga cinesi, con gli scioperanti…ve lo dimostriamo”.
I due nastri che contengono le registrazioni degli incontri con i tre neosquadristi milanesi – scriveva il cronista – sono molto indicativi. Qualche esempio:
Gennaio 1970: “Gianluigi Radice ci chiama nella sede di Corso Monforte 13. La sera si deve svolgere un corteo di Avanguardia Operaia. Radice ci fornisce petardi e bombe carta, poi ci fa salire all’ultimo piano di un palazzo d’angolo tra Largo Augusto e Porta Vittoria. Quando il corteo passa lanciamo bombe e petardi. Tra la polizia e i maoisti – ricorda Ferrorelli – scoppiano gravi incidenti. L’obiettivo è raggiunto”.
Giugno 1970: “Luciano Bonocore, che ora dirige il gruppo giovanile del partito, uno dei più grossi bastardi della storia del Msi, ci chiama in Corso Monforte. C’è da vendicare un camerata che ha avuto un braccio spezzato dai maoisti. Arriviamo alla sede di “Italia-Cina”, incendiamo e devastiamo tutto”.
E, poi, sintetizza il cronista, gli assalti alla Statale….l’irruzione a Cinisello Balsamo nella tipografia di “Lotta Continia”, l’assalto alla sede della Uil, il 18 gennaio 1971. Si era parlato ad un certo punto anche di esplosivi (“abbiamo sei depositi di armi tra Milano e Lecco: chi crede che ci abbia fornito i finanziamenti per metterli in piedi?”), e perfino delle bombe di Catanzaro” (24).
La reazione dei dirigenti del Msi e delle “autorità” di polizia e giudiziarie fu da copione.
“I fatti erano gravi e comportavano responsabilità precise. Ma non c’era stata nessuna reazione apprezzabile da parte delle autorità. E qualche tempo dopo era arrivata la querela dell’on. Servello, commissario federale di Milano e di Gianluigi radice, allora dirigente della “Giovane Italia”, l’organizzazione studentesca missina, tutti e due chiamati in causa direttamente dalle dichiarazioni di Ferrorelli.
Non più di quindici giorni fa, in una prima udienza al Tribunale – scriveva il giornalista – Servello aveva respinto segnatamente le accuse di collusione con i gruppi di estrema destra e Radice aveva negato di aver mai trattato con loro. E il Ferrorelli? “Si, lo conosciamo. Un giovane che tenevamo a bada perché sospettavamo che fosse un informatore della polizia…” (25).
Giovanni Ferrorelli, dopo una vita di delinquenza, si è oggi “pentito” (26) ma, certamente, ventitré anni fa non era lui a lavorare per gli organi di polizia, bensì Franco Servello, Gastone Nencioni e i “camerati” d’alto bordo.
Un fatto ormai acquisito, questo della “collaborazione” dei vertici della federazione missina di Milano con le forze di polizia, anche sul piano giudiziario.
“Nel periodo 1972-1974 – si legge nella sentenza della Corte di Assise di venezia -, al comando della I Divisione non era insolito incontrare personaggi noti alle cronache del tempo, quali il senatore Gastone Nencioni, il senatore Giorgio Pisanò, l’avvocato Adamo Degli Occhi e l’onorevole Franco Maria Servello (27).
E un’altra testimonianza sulla personalità e l’attività di Franco Maria Servello, che conferma testualmente quanto aveva dichiarato Giovanni Ferrorelli, compare, nel 1974, sempre su “L’Espresso” che riporta alcuni discorsi fatti da altri parlamentari del Movimento Sociale Italiano.
“…Prendiamo il caso di Servello”, ha confidato Ciccio Franco. “Dopo averlo incoraggiato per anni, Almirante l’ha allontanato senza battere ciglio dall’incarico di federale di Milano perché Servello si era compromesso con i gruppi della destra extraparlamentare, conservando però nel cassetto le cose più compromettenti sul suo conto.
…dice Nicosia: “Noi sappiamo che Fumagalli è qualcuno che ha avuto l’ordine di infiltrarsi negli ambienti di destra, ma se Servello avesse fatto a meno di trascinarselo appresso per mesi sarebbe più facile dimostrarlo…” (28).
Ed è sempre Franco Maria Servello, destinato a diventare vicesegretario nazionale del Msi in versione moderata e legalitaria, ad aver scritto, nel 1972, un libercolo significativo dal titolo “La 23ma ora” (29), per dimostrare che non c’era più tempo, che eravamo giunti all’ultima spiaggia, che era suonata l’ultima, fatale ora, quella in cui si sarebbero decisi i destini del Paese.
Lo stragista di Stato, Giancarlo Rognoni, sostiene in private conversazioni che Servello, Nencioni ed i dirigenti della federazione missina di Milano, hanno sempre saputo, in anticipo, quello che lui ed il suo gruppo avrebbero fatto.
Non è una millanteria (tanto più che il Rognoni il coraggio di dichiarare questa verità in pubblico non l’ha mai avuto), perché il patto di unità d’azione fra i vertici del Msi e quelli della destra extraparlamentare ha sempre funzionato.
Nella politica dell’inganno non hanno brillato solo i dirigenti missini di Milano. A Roma, ad esempio, imperversava Giulio Caradonna. Se esemplare di “fascista di ferro” poteva essere esibito nelle piazze, se personaggio di cui in tutti gli ambienti si parlava con rispetto c’era, questo era il “duro” Caradonna, con il suo curriculum di “undici processi e sette condanne alle spalle” (30), anche se non risulta che abbia mai scontato un solo giorno di carcere.
Oggi che la festa è finita, che la purezza ideologica, la fedeltà al passato storico, la “faccia feroce” e il manganello non servono più, il massone piduista Giulio Caradonna può scrivere alla “Stampa” di Torino per lamentare di essere stato “escluso dalla lista di Alleanza Nazionale, per le (sue) posizioni politiche giudicate dalla dirigenza del partito troppo filo statunitensi e troppo filo-israeliane” (31).
Pochi esempi abbiamo citato, fra i tanti che si potrebbero portare, per dimostrare la totale integrazione del Movimento Sociale Italiano e dei suoi dirigenti nel sistema politico vigente all’interno del quale hanno, riservatamente, ricoperto un ruolo che non sono in grado di rivelare per non essere cancellati, nonostante i tempi, ad essi favorevoli, dalla scena politica nazionale.
Come i loro complici in altre formazioni politiche, i dirigenti missini sono obbligati ad un perpetuo silenzio e ad una infinita menzogna che viene, purtroppo, avvalorata anche da chi missino non è mai stato, come Piero Ignazi.
Ed in linea con quella che è una tradizione consolidata da quasi mezzo secolo di vita, il Msi riversa sui “camerati” della destra “radicale” responsabilità che gli appartengono su quello che fu il “patto scellerato” che, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, divenne operativo fra il potere atlantico ed il neofascismo italiano.
Non è storia quella che Piero Ignazi scrive, ma la semplice riproduzione di una velina dell’ufficio stampa e propaganda del partito di Gianfranco Fini.
La pretesa, più volte affermata dallo studioso in questione, che il vertice missino nulla ha avuto a che vedere con il diffondersi negli ambienti neofascisti delle teorie della “guerra non ortodossa”, è una falsità storica, funzionale al disegno di occultamento della verità sui rapporti intercorsi fra il Msi e le Forze Armate, perseguito da Piero Ignazi.
Ed è proprio lui a contraddirsi, citando uno dei momenti di pubblica convergenza tra le gerarchie del partito di Arturo Michelini e Giorgio Almirante e quelle democristiane e cattoliche, che ha segnato l’avvio di quella strategia controrivoluzionaria che ha gettato il Paese nel caos.
Ricorda, difatti, Piero Ignazi come “tra i segni dell’intensificazione dell’intesa fra ambienti cattolici conservatori “antiaperturisti” e area neofascista intorno al 1960, vanno segnalati la collaborazione di esponenti della destra radicale e missina alle riviste cattolico-tradizionaliste, L’Ordine Civile e Lo Stato (entrambe dirette da Baget Bozzo), e soprattutto l’intervento ufficiale di due leader di spicco del Msi, come Romualdi e caradonna, al convegno organizzato dal Centro Sturzo (26 maggio 1960) sul tema “La liberazione dal social comunismo”, con la presidenza di Luigi Ghedda e relazioni di Oscar Luigi Scalfaro, Giuseppe Palladino, Randolfo Pacciardi, Luigi Giacchero (32).
Il fatto che, successivamente, i dirigenti del Msi abbiano sfumato la loro presenza arretrando in seconda linea, in quella che era ormai la “strategia della tensione” risponde ad una scelta tattica e non ad una presa di distanza dalla “destra radicale” che, da parte sua, porta avanti con toni estremistici quel disegno moderato che era proprio del Msi.
Note del capitolo secondo
(1) V. VINCIGUERRA, “Ergastolo per la libertà”, Arnaud, Firenze 1989, p. 90;
(2) G. MELEGA, “Se vincono i rossi…”, L’Espresso, 17/10/1993;
(3) R. CHIARINI – P. CORSINI, “Da Salò a Piazza della Loggia”, F. Angeli, Milano 1983, p. 149n;
(4) V. VINCIGUERRA, “La strategia del depistaggio”, Il Fenicottero, Bologna 1993, p. 37;
(5) Si legga il capitolo dedicato alle “formazioni paramilitari”, in V. VINCIGUERRA, “La voce del silenzio” 1990; pubblicato sul mensile AVANGUARDIA numeri 101-113, maggio ’94-maggio ’95.
(6) Da Salò a Piazza della Loggia, op. cit., pp. 67-68;
(7) Ibidem, pp. 69-70.
(8) Ibidem, pp. 70-71;
(9) Il polo escluso, op. cit. 111-112;
(10) Ibidem, pp. 115-116;
(11) P.G. MURGIA, “Ritorneremo”, Sugarco, Milano 1976, p. 76n;
(12) Dichiarazione di Stefano Delle Chiaie all’autore;
(13) P. PACCIARDI, “Cuore di battaglia”, Nuove edizioni del Gallo, Roma 1990, pp. 103-104;
(14) Il Polo escluso, op. cit. p. 115n;
(15) Si legga quanto riportato in: “La strategia del depistaggio”, op. cit. pp. 34-35;
(16) Delle Chiaie attacca e sfida i pentiti: “chi mi accusa era servo della Questura”, il Corriere della Sera, 30 ottobre 1987;
(17) G. ANDREOTTI, “Governare con la crisi”, Rizzoli, Milano 1991;
(18) G LUNETTA, “L’ultimo mio comizio”, T.E.A., Palermo 1988;
(19) N. TOSCHES, “Il mistero Sindona”, Sugarco, Milano 1986, p. 199;
(20) M. TEODORI, “P2: la contro storia”, Sugarco, Milano 1985, pp. 37-38;
(21) Ibidem, pp. 37-38;
(22) Ibidem, p. 40;
(23) Ordinanza istruttoria del giudice F. Casson del 04-08-1986;
(24) C. CATALANO, “Chi c’è dietro i picchiatori”, L’Espresso del 12-12-1971;
(25) Ibidem;
(26) Così il terrorismo nero aiutò i militanti dell’Olp, Il Giorno 30-10-1993;
(27) G.SALVI (a cura di), “La strategia delle stragi”, Editori Riuniti, Roma 1989, p. 110;
(28) Se Almirante perde il posto, T. Malaspina, L’Espresso, s.d.;
(29) F.M. SERVELLO, “La 23ma ora”, Trevi, Roma 1972;
(30) A CAPORALE, “Una “grana Nato” anche per la destra”, La Repubblica 1 marzo 1994;
(31) Caradonna: perché AN mi ha escluso, La Stampa 3-3-1994;
(32) Il polo escluso, op. cit., p. 98n;
12/12/2010
http://www.italiasociale.net/libri/libri121210-1.htmlhttp://www.italiasociale.net/libri/libri121210-1.html
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