Ritratto di un sovrano che amò sinceramente il suo popolo
di Mariolina Spadaro
Su Francesco II di Borbone si è detto e scritto troppo poco.
A causa della breve durata del suo regno, ma soprattutto a causa della cancellazione della memoria e della demonizzazione del passato applicate scientificamente dopo l’unificazione d’Italia, su Francesco II le informazioni sono scarse e di solito denigratorie: era giovane; incapace; probabilmente succube di un padre, Ferdinando II, dalla personalità ingombrante; impreparato al comando; indeciso; imbelle. Persino sul piano personale, la propaganda ha infierito, accusandolo di non essere all’altezza anche nei rapporti con la moglie, essendo cattolico e di delicata spiritualità e, dunque, certamente un credulone superstizioso.
La realtà fu ben diversa, ovviamente, e per giungere a questa conclusione basta pensare alla vita di Francesco II dopo la fine del Regno delle Due Sicilie.
Ridotto in povertà, avendo lasciato il Regno senza portare con sé neppure il patrimonio di famiglia; dignitoso ed umile sempre; consapevole del senso della storia e del ruolo svolto come Re e come uomo, di fronte alla Provvidenza.
Francesco II resta un esempio e un riferimento per chiunque voglia ritrovare le tracce di un’identità culturale sepolta sotto quasi 150 anni di menzogne e ideologie, ma ancora viva e in attesa di essere portata alla luce.
Il testo che presentiamo ai nostri lettori è stato scritto in occasione della Messa di suffragio per il 130° anniversario della morte di Francesco II, celebrata a Siderno per iniziativa dell’Associazione Culturale Due Sicilie.
Ne è autrice la prof. Mariolina Spadaro, ricercatrice presso dell’Università Federico II di Napoli, che ha pubblicato numerosi saggi sulla storia del Regno delle Due Sicilie, a partire dall’epoca spagnola.
Editoriale Il Giglio
Francesco II di Borbone, l’ultimo Re di Napoli.
Ritratto di un sovrano che amò sinceramente il suo popolo
27 dicembre 1894: l’ultimo sovrano delle Due Sicilie si congeda dalla scena del mondo in
punta di piedi, con lo stesso stile sobrio e dignitoso con cui aveva vissuto.
Nel suo testamento, Francesco II di Borbone aveva scritto: “Ringrazio tutti coloro che mi
hanno fatto del bene, perdono a coloro che mi hanno fatto del male e domando scusa a coloro
ai quali ho in qualche modo nuociuto”.
La Discussione di Napoli, nel riportarne la notizia, commentava: “Con l’anima serena
dell’uomo giusto, con gli occhi estaticamente rivolti alla visione di quel sereno cielo che lo vide
nascere, è morto il Re adorato, alle porte dell’Italia, in un modesto albergo, situato in una
regione non sua...”.
Matilde Serao, in un articolo apparso su Il Mattino del 29 dicembre, scrisse: “Giammai
principe sopportò le avversità della fortuna con la fermezza silenziosa e la dignità di Francesco
II. Detronizzato, impoverito, restato senza patria, egli ha piegato la sua testa sotto la bufera e
la sua rassegnazione ha assunto un carattere di muto eroismo. Galantuomo come uomo e
gentiluomo come principe ecco il ritratto di Don Francesco di Borbone”.
Ad Arco di Trento, l’ultimo discendente di una delle monarchie più potenti d’Europa aveva
vissuto gli ultimi anni della sua breve vita, in perfetta umiltà e dignitoso anonimato.
Fu l’ultimo Re, disse l’Italia intera; ed il cordoglio per la morte prematura di un sovrano
tanto nobile, leale e generoso, fu sincero, quanto tardivo il riconoscimento del suo alto profilo
morale.
Ma chi era davvero Francesco II?
La storia ci ha abituati a conoscerlo come “Franceschiello”, un epiteto dispregiativo per
sminuirne la figura e renderne insignificante l’operato: l’ultimo Re delle Due Sicilie era stato
capace, in meno di un anno, di perdere regno e ricchezze, combattendo dalla parte sbagliata.
Perché è sempre sbagliato stare dalla parte di chi perde, quando la storia la scrivono i vincitori.
E Francesco, pur consapevole della fine imminente, non si era voluto piegare a nessun
compromesso. Perciò, aveva perso. Non aveva cercato facili alleanze: avrebbe potuto salvare
almeno se stesso, conservare le fortune personali, ereditate dagli avi o, persino, usare quelle
ricchezze (che nessun altro Stato italiano poteva vantare di possedere in tale quantità) per
corrompere quanti, nell’ora più difficile del Regno, preferirono abdicare alla propria dignità,
barattando la patria napoletana con l’oro piemontese e massonico.
Invece Francesco II non abdicò mai al ruolo che la Provvidenza gli aveva assegnato: morì
da Re, assolvendo fino alla fine il suo compito, con coraggio e dignità.
In Francesco II la Provvidenza e la fede, la regalità e Cristo, l’umiltà e la povertà di San
Francesco si intrecciano e convergono in unità, indicando che il vero significato dell’essere Re è nell’abbraccio di Cristo che muore crocifisso, in mezzo a due ladroni. Per paradossale che possa sembrare, è proprio allora che Cristo mostra la sua regalità, esaltata dal ladrone, che proprio a causa di quell’abbraccio lo riconosce, sentendosi da Lui “comprehensum”, sposato, da quel sovrano che lo ama fino a sacrificare se stesso.
E Francesco II quale modello di regalità ha abbracciato? Quello della competizione o
quello della comprensione? È stato un sovrano ambizioso, che ha pensato ad accrescere il
proprio potere, oppure è stato un sovrano che ha anteposto ai suoi interessi personali l’amore
per il suo popolo?
La breve ma intensa vita di soldato e di re, di Francesco II di Borbone appare, in verità,
come un continuo e cosciente conformarsi all’unico modello di regalità che la sua profonda
religiosità cristiana poteva proporgli di imitare. Il Re Francesco II si sentiva, ed era
effettivamente, “sposo” del suo popolo, che amò fino alla fine della sua vita, ben oltre la
perdita del trono e la fine del Regno.
È lecito dubitare dell’amore dei sovrani per i loro popoli quando vi siano interessi
materiali da salvaguardare, quando c’è ancora la speranza di recuperare un trono perduto; ma Francesco già da tempo non nutriva più di queste speranze e, specialmente dopo la definitiva
partenza da Roma, aveva pure rinunciato a vedersi restituiti i suoi beni. Eppure, non aveva
mai cessato di amare i napoletani. E i napoletani non cessarono mai di amarlo. Non,
certamente, i generali che lo avevano tradito; non quegli aristocratici la cui bramosia di
ricchezze e di potere si era lasciata stuzzicare dalle astute lusinghe degli avversari (eppure,
anche a costoro seppe perdonare); ma il popolo, il suo popolo, lo amava davvero perché si
sentiva profondamente amato da lui: “sposato”, abbracciato, “comprehensum”.
Suo padre, Ferdinando II, aveva regnato per oltre trent’anni, trasformando il Regno delle
Due Sicilie in uno degli Stati più ricchi e potenti d’Europa. Era un’eredità pesante, che
Francesco dovette assumersi inaspettatamente e che si trovò a gestire da solo, quando stava
per avere inizio la fase più difficile della storia del Sud. Gli avvenimenti, che si susseguirono in
maniera travolgente, precipitarono la dinastia e mutarono la storia del popolo.
Di Francesco II la storiografia in verità, non se n’è quasi mai occupata, se non in modo
apparentemente distratto, e, quando lo ha fatto, ha descritto la figura di un uomo scialbo;
l’iconografia lo presenta come un giovane dall’aspetto impacciato, le spalle strette, gli occhi
tristi, l’espressione tra il timido ed il corrucciato; insomma, il ritratto perfetto dell’anti-eroe. Ed
anche nella storiografia più recente, il re–soldato, che combatte sugli spalti di Gaeta, vi appare
quasi trascinato, più che dalla sua convinzione personale, dall’entusiasmo incosciente e,
talvolta, imprudente, della giovane moglie Maria Sofia di Baviera, riconosciuta “eroina di
Gaeta”.
Restano poco noti, invece, il suo ricchissimo epistolario, il suo diario privato, le memorie
di chi visse accanto a lui gli ultimi istanti della sua vita. Da essi emerge una figura di re il cui
profilo morale, umano, intellettuale e cristiano è altissimo e rigoroso: un ritratto assolutamente
stridente con quello ufficiale consegnatoci dalla storia che, persino nel nomignolo con cui lo
identifica, “Franceschiello”, ha voluto imprimere nella memoria collettiva l’immagine del
perdente, del non – Re, rappresentandone una regalità in negativo, in cui non trovano spazio
concetti come “potere” e “trionfo” e non c’è posto neanche per la “competizione” richiesta dai
modelli considerati vincenti.
Troppo spesso la storia esalta come eroi personaggi mediocri, il cui merito è quello di
essere saliti in tempo sul carro del vincitore o di avere agito con cinico egoismo e per puro
calcolo materiale o rinnegando valori morali e princìpi religiosi in nome di presunti ideali.
La vicenda garibaldina e l’intera operazione con la quale fu realizzata l’unificazione
italiana necessitano ancora oggi di una rilettura che ne chiarisca, una volta per tutte, natura e
contenuti. Non è più possibile, di fronte all’evidenza documentale, continuare ad accettare la
“vulgata” ufficialmente imposta nei manuali scolastici, attraverso i quali specialmente si
dovevano “fare gli Italiani”. Troppe contraddizioni balzano in evidenza, troppe smentite dei
fatti così come ci sono stati raccontati, troppi elementi di un’altra storia ci rivelano una verità
diversa da quella conosciuta finora, che è doveroso portare alla luce e diffondere. È quella
storia, che oggi non è più possibile accettare supinamente, che ci ha consegnato la figura di un “Franceschiello” codardo, pavido, inetto: il ritratto caricaturale di un Re.
Chi era, in realtà, l’ultimo sovrano delle Due Sicilie?
Il 5 settembre 1860, in procinto di partire per Gaeta, volendo risparmiare alla capitale atroci combattimenti (l’entrata di Garibaldi in città era imminente), pronunciava parole gravi,
denunciando al cospetto dell’Europa, che rimase sorda alle evidenti violazioni del diritto
internazionale ai danni dei popoli delle due Sicilie: “una guerra ingiusta e contro la ragione
delle genti ha invaso i miei Stati, non ostante che io fossi in pace con tutte le Potenze
Europee”.
Il Re denunciava, con una chiarezza e lucidità che pochi, in quel momento, mostrarono di
avere, i disegni della setta rivoluzionaria che stava impadronendosi dei suoi Stati, ma che
presto avrebbe minacciato l’intera Europa; scriveva ai rappresentanti delle potenze europee di
come il Piemonte, che “sconfessava” pubblicamente l’azione garibaldina, segretamente, invece, la incoraggiava e la sosteneva. E paventava il pericolo che la violazione delle norme più elementari del diritto internazionale, che ora stava danneggiando il suo Regno, avrebbe finito per imporre il principio di autolegittimazione dei governi, spianando la strada a regimi basati sulla forza e sulla violenza, anziché sul consenso dei popoli.
Fu fin troppo facile profeta: totalitarismi e massacri avrebbero trasformato l’Europa del
secolo successivo in un immenso teatro di violenza e di guerre. Nessuno sembrava, in quel
momento, rendersene conto quanto lui: “questa guerra spezza ogni fede ed ogni giustizia ed
arriva fino a violare le leggi militari che nobilitano la vita ed il mestiere di soldato ... L’Europa
non può riconoscere il blocco decretato da un potere illegittimo ... L’azione di Garibaldi è quella di un pirata. Accettandola, l’Europa civile tollererebbe la pirateria nel Mediterraneo... Ma
l’Europa stava a guardare.
Francesco II, invece, combatteva contro questo nuovo modo di fare la guerra: sul Volturno, a Gaeta, sul fronte della diplomazia. Combatteva e protestava instancabilmente, pur nella crescente consapevolezza di non poter salvare se non l’onore; combatteva a fianco dei suoi soldati, per il popolo che aveva “sposato” e che non lo abbandonava, perché “fra i doveri
prescritti ai re, quelli dei giorni di sventura sono i più grandi e solenni; ed io intendo di compierli con rassegnazione scevra di debolezza, con animo sereno e fiducioso quale si addice al discendente di tanti Monarchi”.
Lucidamente consapevole della sconfitta, non fece nulla per sottrarsi al suo dovere di Re,
raccomandando ai suoi popoli “la concordia, la pace, la santità dei doveri cittadini” anche
quando l’esito gli fu fatale.
Lasciando Napoli, Francesco II non portò nulla con sé. Il 12 settembre, appena una
settimana dopo la sua partenza verso Gaeta (il Regno delle Due Sicilie era, dunque, ancora
formalmente uno Stato legittimo riconosciuto dalle potenze europee), i suoi beni venivano
dichiarati da Garibaldi “beni nazionali”; e quando, succeduto Vittorio Emanuele, si discusse se
rendere a Francesco i suoi beni privati, una tale eventualità fu condizionata alla sua partenza
da Roma, dov’era ospite del Papa. Lo si voleva allontanare il più possibile da Napoli, perché la sua sola prossimità al Regno era sufficiente a tenere alto il morale di chi combatteva per
l’indipendenza della patria. Francesco non accettò: non poteva consentire alcuna
strumentalizzazione della sua persona facendone ricadere su di lui la responsabilità dei
massacri, che l’esercito piemontese stava attuando nel tentativo di piegare la resistenza dei
napoletani. Perché di “Napolitani” si trattava - come sottolineava con forza il Re - e non di
“briganti” ed “assassini”, come invece li dipingeva la propaganda; napoletani come lui, e, come lui, “disgraziati che difendono in una lotta ineguale l’indipendenza della loro patria ed i diritti della loro legittima dinastia”. Di quei “briganti”, ad ogni modo, se tale era la loro identità, lui, il Re, si reputava onorato di esserne il primo. Ed avendo, d’altra parte, perduto un trono, che gli importava di perdere le ricchezze? “Sarò povero come tanti altri che sono migliori di me: ed ai miei occhi il decoro ha pregio assai maggiore della ricchezza”: queste le parole con le quali respinse il “consiglio” di Napoleone III di allontanarsi da Roma. Non riebbe più i suoi beni, che furono distribuiti, in barba a Statuti e “proteste”, ai “martiri” dell’unità d’Italia,
Francesco, Re - Sposo dei suoi popoli, invece non cessò mai di preoccuparsi delle loro
necessità, nella buona come nella cattiva sorte: l’11 gennaio 1862 riusciva ad inviare la
somma di 800 scudi all’Arcivescovo di Napoli Riario Sforza, per venire in soccorso della
popolazione di Torre del Greco, colpita dal terremoto. “Tutte le lagrime dei miei sudditi –
scriveva in quell’occasione – ricadono sopra il mio cuore, e non mi sovviene della mia povertà
che allora soltanto che, in simili circostanze, m’impedisce di fare tutto quel bene, al quale mi
sento per natura trasportato... Sovrano esiliato, non posso slanciarmi in mezzo a’miei figli per
alleviarne i mali. La potenza del Re delle Due Sicilie è paralizzata, e le sue risorse son quelle di un sovrano decaduto che non ha trasportato seco, lungi dal suolo ove riposano i suoi antenati, che l’imperituro amore per la patria assente. Ma comunque grande sia la mia catastrofe emeschine le mie risorse, io sono Re, e come tale io debbo l’ultima goccia del sangue mio e l’ultimo scudo che mi resta ai popoli miei”.
Anche sugli spalti di Gaeta, quando tutto era ormai perduto, questo Re non aveva avuto
altro pensiero che quello di consolare i suoi popoli nelle sventure comuni. Sempre fiducioso
nella Provvidenza, le sue parole non furono mai di cupa rassegnazione, ma sempre vibranti di
passione interamente napoletana: “Ho combattuto non già per me, ma per onore del nostro nome... io sono napolitano; nato in mezzo a voi non ho respirato altra aria, non ho veduto altri
paesi, non ho conosciuto che solo la mia terra natale. Ogni affezione mia è riposta nel regno, i
costumi vostri sono pure i miei, la vostra lingua è pure la mia, le ambizioni vostre sono pure le
mie”.
Orgoglioso della sua “napoletanità” e dell’appartenenza ad una dinastia che, da oltre
cento anni, regnava pacificamente su quei territori, ai quali aveva restituito indipendenza ed
autonomia, Francesco rivendicava la legittimità del trono: “non mi ci sono installato dopo avere
spogliato gli orfanelli del loro patrimonio, né la Chiesa dei suoi beni; né forza straniera mi ha
messo in possesso della più bella parte d’Italia. Mi glorio di essere un principe che, essendo
vostro, ha tutto sacrificato al desiderio di conservare ai sudditi suoi la pace, la concordia e la
prosperità...”
Pace, concordia, prosperità: erano questi i beni che voleva per i suoi popoli.
Perfettamente a conoscenza di tradimenti e cospirazioni, aveva voluto evitare spargimenti di
sangue: questa sua scelta, che ostinatamente difendeva, gli aveva procurato – egli mostrava
di esserne profondamente consapevole – accuse di inettitudine e debolezza. Ma preferiva
queste accuse ai trionfi degli avversari, ottenuti con il sangue e la violenza. Cinismo,
tradimenti e spergiuri sembravano sempre più fare parte dei moderni codici militari, ma a
Francesco continuavano ad essere cari gli antichi codici della cavalleria, che riposavano sulla
sacralità del giuramento, sulla fedeltà alla parola data, specie se parola di Re. Per questo non
aveva potuto credere che il re del Piemonte “che protestava di disapprovare l’invasione di
Garibaldi, che negoziava col mio governo un’alleanza intima per il vero interesse dell’Italia”,
avrebbe violato tutti i trattati e calpestate le leggi, invadendo il regno delle Due Sicilie senza
neanche una dichiarazione di guerra.
Ma alla tracotanza del nemico si poteva rispondere solo rimanendo uniti nella concordia,
intorno al trono dei propri antenati, superando antiche divisioni (il discorso riguardava
specialmente i siciliani): “il passato non sia mai un pretesto di vendetta, ma un avvertimento
salutare per l’avvenire”
Occorreva avere fiducia, ancora una volta, nella Provvidenza divina ed accettarne,
comunque, i disegni, profondi ed imperscrutabili; ma nessuno – e specialmente il Re - poteva
sottrarsi al proprio dovere: “Difensore dell’indipendenza della patria, resto a combattere qui
per non abbandonare un deposito così caro e così santo. Se ne ritornerà l’autorità ed il potere
nelle mie mani, me ne servirò per proteggere tutti i miei diritti, rispettare tutte le proprietà,
salvaguardare le persone ed i beni dei sudditi miei contro ogni oppressione e depredamento.
Se poi la Provvidenza nei suoi profondi disegni decreta che l’ultimo baluardo della monarchia
cada sotto i colpi di un nemico straniero, io mi ritirerò con la coscienza senza rimproveri e con
una risoluzione immutabile, ed attendendo l’ora della giustizia, farò i voti più ferventi per la
prosperità della mia patria e per la felicità di questi popoli che formano la più grande e la più
cara parte della mia famiglia”.
L’esilio vissuto negli ultimi anni ad Arco, senza più speranza di recuperare trono ed averi
personali, non cancellò la validità di questo “patto”: bastava essere napoletano per essere
ricevuto da lui e furono tanti coloro che ebbero modo di incontrarlo. A tutti chiedeva notizie
della sua Napoli, senza che mai alcuna parola di biasimo per i nuovi regnanti e governanti
uscisse dalla sua bocca. Così come non voleva che si parlasse delle sue passate vicende, della
sua vita di Re: le considerava un sogno del passato, che ormai si era dissolto. Aveva
conservato il titolo di Duca di Castro, ma tutti ad Arco lo conoscevano come “il signor Fabiani”.
Fu solo dopo la sua morte che gli abitanti della cittadina trentina scoprirono la vera
identità di quel gentiluomo che, tutte le mattine, sedeva al bar a fare colazione ed a leggere i
giornali, dopo avere ascoltato la Messa, ed ogni sera, puntuale, si recava per la recita del
Santo Rosario presso la Chiesa della Collegiata.
Francesco II lascia nella storia un nome, che le iniquità e le calunnie non possono
oscurare.
I doveri di sovrano, che egli seppe compiere cristianamente, i doveri di soldato valoroso
nell’eroica difesa di Gaeta, i suoi proclami e le note diplomatiche indirizzate ai monarchi di Europa durante i tristi momenti della sua caduta, dimostrano ai posteri tutto il suo valore ed
indicano un modello di regalità che non evoca immagini di potenza e di gloria ed invita,
piuttosto, a riflettere sulla nobiltà della politica: concetto, oggi, purtroppo, estraneo alla nostra
esperienza, perché caduto progressivamente in desuetudine, ma che dovremmo sforzarci di
recuperare.
http://www.editorialeilgiglio.it/file/Francesco_II_Ritratto.pdf
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