sabato 11 maggio 2013
La demonizzazione delle razze
di Rutilio Sermonti
Parliamone, di razza, ma parliamone con la testa sulle spalle, guardando il mondo e non la sua grottesca caricatura disegnata dagli usurai per i loro fini e spacciata per realtà.
Se c’è un fenomeno talmente distintivo del pensiero unico obbligatorio conseguito alla yaltesca proclamazione del Libero Pensiero, da poter assurgere a criterio di datazione di documenti non datati, è quello della corale esecrazione di qualsiasi rilevanza che fosse assegnata alle razze umane.
La stessa parola “razza” ha assunto una tale connotazione oscena che una “persona ber bene” si astiene dal pronunziarla in pubblico, talché i colti la sostituiscono pudicamente con “etnia”, e i buzzurri con “colore della pelle”. Persino gli zoologhi preferiscono denominare l’omonimo genere di pesci cartilaginei con un improbabile latino “raja”, e “rajiformi” il suo gruppo tassonomico, Dio li salvi!
Consentito, anzi, incoraggiato, è solo l’uso del derivato “razzismo”, purché pronunziato con labbra atteggiate a disgusto, come per “merda” o “scaracchio”. Persino la gente pia, come i cosiddetti cristiani, davanti alla considerazione che la diversità razziale appare palesemente disposta da Dio Padre Onnipotente Creatore eccetera, vi tappa la bocca con l’infallibilità pontificia, che attesta che, poi, l’Altissimo si è pentito, e ha delegato gli uomini a metterci una pezza col “melting pot” (l’Altissimo parla correttamente l’Americhese).
Ora, chiunque, spassionatamente, consideri l’universalità e simultaneità del cosiddetto “anti-razzismo”, non può non domandarsi come esso sia venuto alla luce, già vivo ed armato come Pallade Atena, e da quale cervello se non quello di Zeus.
Se non usiamo occhiali di bandone, non si scappa: tutte le strade portano all’orrore per l’Olocausto. E, prescindendo dalla sua realtà storica, non si può negare che, per essere orrendo, l’Olocausto lo fosse un bel pò! Anche troppo! Solo che non può comunque considerarsi una manifestazione di razzismo, per il semplice fatto che i sei milioni pretesamente usciti dai camini nazisti, oltre agli altrettanti “miracolosamente “ scampati per farsi risarcire, tutto erano fuorché una razza, e tanto meno semitica. Definire pertanto il razzismo come odio razziale ed elevarne a paradigma Auschwitz, Treblinka o Maidanek è solo un espediente di bassa lega, usato da chi vi ha convenienza a favore della “società multirazziale”, che non c’entra un tubo. Tanto più che - siamo seri !- il Paese-guida, il paradigma indiscusso, quello che ha addirittura il “destino manifesto” di guarire il mondo dal razzismo sono gli Stati Uniti d’America! Roba da farsi venire il singhiozzo.
Gli vogliamo dare un’occhiatina all’atto di nascita dei medesimi, tanto per rinfrescarci la memoria ? Essi sono figli, né più né meno, che del più gigantesco ed atroce genocidio razziale esistito nella storia. Furono preceduti, per vero, dalle loro ex-madrepatrie Olanda, Gran Bretagna e Francia. Spinte quelle dai rispettivi imperialismi a sbarcare lungo la costa atlantica, vi trovarono cordiale ospitalità da parte delle popolazioni Algonchine e Creek ivi stanziate. La ricambiarono facendo largo uso di quei valorosi guerrieri con le penne tra i capelli, come carne da cannone nelle continue guerre che, da bravi Cristiani, si mossero a getto continuo tra loro, vendicandosi poi severamente delle tribù che avevano militato sotto le bandiere di una concorrente. La “cavalleria” che, a ogni conclusione di pace tra i lontani sovrani, veniva ostentata verso gli ex-nemici “civili”, per gli “Indiani” non valeva. Si dubitava persino che ce l’avessero, l’anima, quelli !
Ma un’autentica caduta dalla padella nella brace rappresentò per quelle sventurate genti il giorno in cui, a fine Settecento, l’accolta di mascalzoni ramazzati in tutti gli angiporti del Vecchio Mondo, aggravata dai più paranoici tra gli estremisti cristiani, fattasi ricca in poche generazioni con le abbondanti risorse di quell’Eden-bis, decise di recidere il cordone ombelicale (e fiscale) che la legava ai propri antenati, per farsi i delittacci propri intascando gli interi malloppi. Gli Indiani, meno stupidi di quanto i “Wasichu” credessero, avevano ben appreso già dal periodo coloniale che i ribelli del losco Washington erano peggio assai degli Oppressori d’oltremare, e quindi,quando cominciò il solito reclutamento di nativi, in ossequio al principio anglosassone di fare le guerre col sangue altrui, la massima parte delle tribù si schierò coi “legittimisti”. Così, quando i mercanti ripuliti ad est dell’Atlantico si convinsero che la guerra contro i mercanti non ripuliti ad Ovest costava troppo cara, e fecero i bagagli, lasciarono le genti che avevano versato generosamente il loro sangue per l’Union Jack in preda all’odio e alle feroci vendette dei virtuosi Americani (famosa l’amara invettiva del guerriero Tecumseh). Da quella fine Settecento cominciò, ininterrotta e sistematica, la campagna, nutrita di violenza e di frode, prima per cacciare gli indiani dell’est a ponente del Grande Fiume Missouri-Mississippi (Indian Removal Act, 1830), poi per sterminarli del tutto, confinando i miseri residui nelle cosiddette “riserve”, in zone al di là di ogni tentazione. Alleati formidabili e determinanti del successo di tale orrendo disegno di cancellazione razziale furono i micidiali apporti dei “visi pallidi”. Fu la fulminante diffusione delle malattie (soprattutto colera e vajolo), contro le quali i miseri non avevano selezionato alcuna resistenza, e che portarono alla cessazione totale di popolose nazioni intere; fu il vizio orribile dell’alcool, distruttore di anime e di corpi oltreché della dignità, che degli Indiani era stata la maggior difesa; furono i continui forzati spostamenti di popoli, tra disumani disagi e intemperie, che disseminarono le innumeri “piste delle lacrime” di milioni di cadaveri insepolti; fu il voluto sterminio, da parte dei fucili dei “Wasichu”, delle immense mandrie di bisonti da cui metà dei Pellerossa ricavavano, con gran rispetto e parsimonia, il loro sostentamento, senza sprecarne un solo pelo o corno; furono la crudeltà e il cinismo dei “cristiani”, che giunsero a vendere al mercato gli scalpi, non dei guerrieri (troppo cari!), ma delle donne e dei bambini. Ma è inutile insistere nella disonorevole enumerazione, che è ormai abbastanza notoria. “L’unico Indiano buono è un Indiano morto”, condensò Sheridan la morale yankee di quegli anni. I “civilizzatori” hanno peraltro “digerita” una siffatta atrocità con la massima disinvoltura. Dopo aver brillantemente coronato la propria epopea coi vilissimi e proditori assassinii di gloriosi saggi ed eroi indiani, della statura morale e intellettuale di un Toshinko Widco (Cavallo pazzo), di un Hinmuth-tooyah- lakecht (Capo Giuseppe) e di un Tatanka yotaka (Toro seduto), che tutta la scienza e gli sterminati mezzi e schieramenti militari dei loro petulanti generalucoli risonanti di chincaglieria non erano mai riusciti a battere sul campo, eccoli tutti presi da un repente accesso di moralismo e ascendere le cattedre dell’umanitarismo antirazzista!
E noi, con, alle spalle, tutta la saggezza dei nostri Padri, saremmo così imbecilli da credere alla loro sincerità e da lasciarsi coinvolgere dal loro anti-razzismo, a base di bambini negri col viso triste, che non si vede proprio come dovrebbero indurre alla integrazione, dato che è proprio in zona di integrazione, e non nell’Africa di origine, che sono stati fotografati?
Parliamone, di razza, ma parliamone con la testa sulle spalle, guardando il mondo e non la sua grottesca caricatura disegnata dagli usurai per i loro fini e spacciata per realtà.
Ebbene, noi attribuiamo grande importanza alle razze umane, e quindi, se volete, siamo razzisti. Ma non nel senso idiota ed equivoco che Lor Signori immancabilmente attribuiscono a tutti i termini che usano. Non siamo razzisti CONTRO le altre razze che la nostra, lo siamo A FAVORE di TUTTE le razze, e mi pare che c’è una bella differenza, a proposito di odio razziale ! Noi siamo anche molto religiosi, ma la nostra religione non si fonda su libroni, inventati o messi insieme da nostri presuntuosi predecessori, fondatori dei monoteismi dogmatici, ma sui silenziosi e chiari messaggi di tutta la natura che ci vive intorno, quella umana compresa! Ne abbiamo a iosa, di “rivelazione divina”, senza bisogno di acquistarla a caro prezzo da preti di sorta! Ed essa ci mostra che il segreto della c.d. “armonia celeste” consiste nel perfetto equilibrio dinamico tra tutte le componenti del Cosmo, pur nella loro sterminata diversità.
Ed è un equilibrio che nessuna di esse persegue: lo realizza soltanto essendo com’è, ed è questo che ha indotto i sempliciotti di tutto il mondo a concepire Dio creatore come una sorta di artigiano bravissimo, infallibile, perdonandogli anche di essere esoso, iracondo e isterico come quello immaginato dai Cristiani. Noi, che siamo forse meno sempliciotti, preferiamo non “concepirlo” affatto (operazione che si è dimostrata assai arbitraria e pericolosa) ma limitarci a prenderne atto, e ad imparare la sua legge, che può scriversi in un rigo: “Sii come sei, che al resto ci penso io”. Il leone non sa di essere utile all’antilope quanto quella è utile a lui: si limita a fare il leone, e lei l’antilope,e l’utilità reciproca salta fuori da sé.
Mi si scusi la divagazione zoologica, ma intendevo dire: “E noi uomini che siamo: un’eccezione ?” Non sono eccezioni le galassie, tanto immense da superare la stessa idea di immensità, e lo saremmo noi ranocchietti buffi in questo invisibile granello di sabbia che è la Terra? Ma vi sembra serio? A me sembra roba da sculaccioni al massimo!
Nossignori ! Anche per noi l’imperativo è lo stesso: essere ciò che siamo! Ma – dice - noi abbiamo il libero arbitrio! Bene; siamo ciò che siamo, col libero arbitrio al guinzaglio, purché impari a non mordere il padrone, sennò museruola e pedate. Per noi, insomma, per essere ciò che siamo occorre sapere ciò che siamo. Non è roba da poco, ma sono millenni che facciamo del nostro meglio, purtroppo con esiti sconfortanti. È il viziaccio di innamorarsi delle proprie elucubrazioni, fino a farne motivi per accoppare il prossimo.
E se invece dibattessimo di meno e osservassimo di più ? Osserveremmo che la conquista dell’ uguaglianza tra gli uomini è la più grande delle fessaggini, e che, non solo non li spinge all’amore, ma stimola l’odio. E questo va detto non solo per la maggiore disuguaglianza, che è quella sessuale, ma anche per la seconda, che è quella razziale. L’imbecille moderno ha dichiarato guerra a tutte e due e ne sta pagando il fio.
I Maestri americani di cui abbiamo riassunto la genealogia continuano a cantarci la loro litania: “Che conta il colore della pelle ?” Ma si, bamboccioni, lo sappiamo benissimo! Il colore non conta un picchio, tanto che gli odi più tenaci e feroci hanno imperversato fra genti assolutamente ... omocromatiche. Per fermarci al recente, non avete mica presenti Watussi e Bahutu, o le decine di etnie scatenate l’una contro l’altra in Nigeria o nel Biafra, o l’odio e il disprezzo reciproco tra Angolani e Bakongo, o la secolare oppressione dei Cafri da parte degli Zulù, tutti neri come liquirizia ? Sono le altre differenze quelle che contano, soprattutto mentali e caratteriali, ma anche fisiche. Quel che è del tutto arbitrario è l’identificazione di differenza con odio, quando la storia ci conclama che l’odio razziale non è nato con la separazione, ma con la pretesa integrazione, e la fogna sociale che sono gli U.S.A. ne è la più clamorosa prova. Non esiste motivo al mondo per cui due gruppi umani, anche se territorialmente contigui, debbano odiarsi perché diversi. Potranno averne altri di motivi, ma non quello. Anzi, la diversità - e il conseguente diverso modo di vivere - rendono, per l’uno, l’altro più “interessante” e non di rado ammirevole. Mischiateli, e l’uno cercherà di sopraffare l’altro, imponendogli le proprie regole di vita e di “sviluppo”, e l’altro non glie lo perdonerà.
Perciò - e in questo senso - noi siamo razzisti. Perché vogliamo che ogni razza senta il dovere e l’orgoglio di essere se stessa, di radicarsi alla propria terra e di costruirsi un avvenire in cui trovi realizzazione tutto ciò che la contraddistingue, senza il rancore sordo che sottostà a ogni compromesso.
E quando gridiamo “fuori dall’Italia gli immigrati!”, lo facciamo certo per il nostro bene, ma, ci credano, anche per il loro.
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