L’Italia nella seconda guerra mondiale
I prodromi del conflitto – Il ruolo dell’Italia – “Non belligeranza” e intervento – Una serie di disastri – Mancato sfruttamento delle ultime possibilità di vittoria – Il conflitto si allarga – L’inevitabile fine – Tragici risultati di una politica di compromesso.
di Piero Sella
Non è cosa nuova che la storia venga in parte preponderante scritta dai vincitori e che i memoriali dei capi sconfitti siano autoescusatori. In essi si ricostruisce sulla base di quel che l’oggi richiede; i fatti più discutibili vengono addebitati a collaboratori defunti o ad ordini superiori, anche se di ciò non esiste alcuna valida documentazione. Interessate distorsioni influiscono quindi su un serio accertamento storico dei fatti e delle intenzioni che li mossero. A distanza di 40 anni, non è ancora possibile, di conseguenza, a chi pur le visse, ai giovani, agli appassionati della storia, farsi un’idea obiettiva degli eventi a cavallo degli anni 1940 che travolsero il nostro paese e lo condussero con l’Europa alla situazione attuale.
Sotto l’influenza delle potenze extraeuropee vincitrici, quelle che a Yalta si spartirono l’Europa, dei politici e degli uomini di cultura ad esse legati, si è giunti a considerare naturale, quasi vantaggiosa, la situazione di protettorato coloniale nella quale l’Europa si trovò a seguito della guerra, presentando come un evento fortunato il fatto che le cose non fossero andate diversamente, perché altrimenti la Germania…
La pressione culturale necessaria a far accettare come il migliore possibile l’esito che il conflitto ebbe, non ha potuto allentarsi neppure a grande distanza di tempo; anzi, proprio perché a causa del naturale, logico fluire delle vicende dei popoli e del modificarsi dei rapporti di forza internazionali l’aspetto politico europeo rischiava di apparire sempre più illogico, si è scelto di calcare ulteriormente la mano.
Per far accettare la jattura delle truppe sovietiche a Berlino, Praga, Budapest e la sudditanza dell’Europa Occidentale agli USA, è evidente la necessità di contrapporvi un’ipotesi ancora peggiore.
C’è però una differenza tra quel che viviamo e “l’ipotesi peggiore”, ed essa sta nel fatto che l’imperialismo comunista e quello economico-culturale degli USA, sono una triste realtà, così come i regimi da loro imposti, mentre quel che sarebbe accaduto all’Europa se comunismo e democrazie fossero risultate soccombenti è ipotesi tutta da dimostrare. E’ certo comunque che, in quest’ultimo caso, qualsiasi decisione sul nostro futuro sarebbe rimasta affidata a noi Europei.
Nessuno è del resto riuscito a dimostrare che la Germania avesse mire ad occidente o a sud, e che le sue ambizioni territoriali fossero smisurate. All’inizio del conflitto essa disponeva di 600.000 Kmq di territorio contro 40 milioni per quanto riguardava solamente l’Impero Britannico! Si tratta di riflessioni semplici dalle quali gli Europei sono tenuti lontani, a causa degli effetti anestetici della sconfitta non ancora smaltiti. Dovrebbero essi rinunciare a pensare ai modi ed ai tempi della rinascita ed accontentarsi, quelli al di là della cortina di ferro, di campare sotto il regime comunista, noi al di qua, accettare la perpetua inamovibilità del modello di vita che dalla sconfitta ci è stato imposto.
Ma se il regime che stiamo subendo è un male, è male anche la sconfitta che gli ha permesso di installarsi parassitariamente sulle nostre carni. Vogliamo uscire dal labirinto senza uscita della storiografia quale ci viene suggerita dai vincitori, verificare la fondatezza di quel che è dai più ritenuta opinione intangibile, capire quanto e da chi siamo stati ingannati.
E’ d’uso che dopo una guerra persa, ogni nazione indaghi sulle cause della sconfitta, cerchi di capire se è stato fatto tutto quanto poteva essere fatto per vincere. Si esaminano a fondo il momento storico, il perché del conflitto, il comportamento dei capi politici e militari; non di rado si giunge a processarli per gli errori dolosi o colposi del loro operare.
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Per l’Europa e per l’Italia, il conflitto 1940-1945, a questo proposito è stato un caso del tutto anomalo. Sparito per debellatio il regime fascista sconfitto, quello subentrato, la democrazia, senza fornire di ciò alcuna motivata analisi, molto difficile del resto perché tutta basata su quanto non è accaduto, dà per scontato che il perdere la guerra sia coinciso con il bene della Nazione.
Essa non pensa affatto di rinfacciare “a quelli di prima” responsabilità inerenti al fatto di aver portato il paese alla sconfitta, anzi, in cuor suo, li li benedice come strumento necessario al proprio riemergere.
Il convinto democratico si è finora rifiutato di approfondire in tal senso l’argomento. Il farlo lo avrebbe predisposto ad aprire il suo inconscio ad inconfessabili dubbi, a vaghe misteriose paure, a dover ammettere, una volta constatata l’erroneità, il debole riparo dogmatico della premessa, e di aver sbagliato tutto.
L’indagine sui fatti è del resto “sconsigliata”, resa necessariamente incompleta, dall’art. 16 del trattato di pace, inserito a tutela dei traditori in guerra, con il quale l’Italia dovette accettare di non perseguirli per quanto fatto al servizio del nemico, prima dell’armistizio dell’8 settembre 1943.
I processi del dopoguerra contro politici e militari furono quindi tutti improntati alla logica del vae victis e seguirono la traccia indicata dalla farsa giuridica di Norimberga.
La storiografia ufficiale dell’antifascismo italiano, nei suoi due filoni, quello comunista e quello democratico, rinunciò a mettere sotto accusa le manchevolezze più gravi della dirigenza fascista, quelle che costarono al paese la sconfitta, fermandosi invece sugli aspetti più superficiali e demagogici di esse: la qualità di certo armamento, le “scarpe di cartone”; gli antifascisti finsero, con cinica demagogia, dopo aver intrallazzato col nemico, di prendere le parti dei nostri soldati, che secondo loro avrebbero dovuto sì essere ben guidati, ben nutriti e ben armati, ma, per carità di patria, avrebbero comunque dovuto perdere.
Si cercò di gettare il ridicolo, con un’analisi parziale, subdolamente limitata, su tutta una serie di scelte politiche, culturali, storiche, sulle quali l’antifascismo uscì vincente, non per propria superiorità, ma per aver avuto, fuori dai confini (e questo già dovrebbe far riflettere) chi, per i propri interessi, lo sostenne.
L’unico merito della rediviva classe politica democratica, già estromessa dal potere negli anni 1920 dalla sua stessa incapacità, la stessa dalla quale, nuovamente, oggi siamo afflitti, fu cioè quello di aver puntato su vicende militari che ebbero per essa svolgimento fortunato.
Fu grandemente in ciò facilitata dalla scarsa omogeneità della dirigenza fascista, abbondando in essa, specie nelle forze armate e nella diplomazia, elementi infidi, legati agli ambienti massonici, internazionalisti, ammanicati con Londra e Parigi, che avevano il proprio punto di riferimento nella dinastia sabauda, proprio da tali ambienti messa sul trono d’Italia.
Il fascismo scontò, nel momento decisivo per sé e per la Nazione, i compromessi che da movimento l’avevano condotto a farsi regime, sottoposto a mille condizionamenti, spogliato progressivamente di carica rivoluzionaria. Talché, pur avendo scelto la via dell’alleanza con la Germania Nazionalsocialista, non ebbe un comportamento conseguente a tale decisione. Quand’era necessario valutare con estrema serietà il momento e le conseguenze politiche del conflitto, furono perciò con leggerezza messe in gioco le istituzioni che la Nazione con sforzo ventennale aveva costruito e gli stessi destini politici dell’Europa. Quella della dirigenza politico-militare italiana durante il conflitto fu azione scollata, incerta, miope, permeata di opportunismo piccolo borghese, che raccolse, per superficialità e slealtà di comportamento, la disistima di nemici ed alleati.
Ma questi fatti, sui quali per la loro gravità torneremo, pur avendo avuto indubbia influenza sul risultato del conflitto, non autorizzano la storiografia antifascista a sostenere che l’esito di esso fosse scontato, né ad influenzare in tal senso la pubblica opinione, indirizzandone l’attenzione piuttosto su quelli che sono oggi i rapporti di forza nel mondo, anziché su quelli che erano all’epoca della guerra; a non distinguere modi e tempi della formazione degli schieramenti, ad affermare che, comunque, i fatti non potevano avere conclusione diversa da quella che ebbero. Da tale suo atteggiamento, risulta unicamente quanto essenziale, per il regime di cui si pone a difesa, è il fatto che le cose siano state incanalate verso “questo” futuro.
Non c’è da meravigliarsi che partendo da premesse simili, si siano fino ad oggi presentati le parti in lotta manicheisticamente divise, di qui i buoni, di là i cattivi, e le atrocità dei sovietici e i bombardamenti terroristici anglo-americani, posti al servizio della “causa giusta”, siano stati approvati. L’ideologizzazione del conflitto non si è fermata col cessare delle ostilità. Si sono perpetuate, a dispetto dei fatti che dovevano portare a conclusioni diverse, versioni puramente propagandistiche; si è insistito, come per i cosiddetti campi di sterminio, su mistificazioni che superata l’utilità del momento, dopo le guerre precedenti, venivano lasciate cadere. Chi ha più coraggio di sostenere, oggi che i Tedeschi, nella prima guerra mondiale, avessero mozzato le mani ai bambini del Belgio?
Oggi invece, ci si intestardisce di proposito su un’accurata, diffamatoria “ricostruzione” dei fatti, tesa a criminalizzare una delle parti in conflitto, quella contro la quale, ideologicamente, ci si considera ancora in guerra. Si prosegue cioè la guerra al di là del raggiungimento dei suoi più macroscopici obiettivi militari; si sfrutta per vie culturali il successo ottenuto sui campi di battaglia.
In tale disegno è comprensibile il tornaconto di affibbiare la qualifica di fascista, coll’intento di isolarlo e rendergli difficoltosa la diffusione delle idee, a chiunque mostra di rifiutare la pseudologica della fazione, quella cioè, aberrante, di dover gioire per la sconfitta del proprio paese in guerra.
Si è preteso e si pretende tale masochistico atteggiamento, unicamente perché si vedeva nella sconfitta il seme della sostituzione violenta della classe politica al potere.
Noi riteniamo che la sostituzione di una classe politica con un’altra debba risultare da una dialettica interna alla Nazione e che vada comunque rifiutata l’idea di dirimere qualsiasi controversia politica con l’aiuto di truppe straniere.
Sembra assurdo dover spendere parole per convincere che l’indipendenza politica è la fonte di ogni libertà, che l’interesse di una Nazione in guerra è quello di vincerla, che agire diversamente è il peggior delitto di cui possa macchiarsi un cittadino, ma, purtroppo, l’anteporre il particolare al generale, l’interesse del singolo e della fazione a quello della collettività, è così in linea con il modello di vita proposto dalle ideologie dei partiti, che a molti, i nostri, appaiono ancora concetti opinabili.
Essere riusciti a far sembrare sino ad oggi accettabili tesi così immorali, contro natura, dimostra quali livelli di terrorismo ideologico, quanta faziosità antinazionale si siano dovute sopportare fino ad oggi.
Il nostro non è un gratuito maramaldeggiare contro una classe politica già abbastanza squalificata. L’antifascismo fu realmente su tali posizioni. Fin dall’agosto 1939, ricorda il ministro francese De Monzie “Sforza e i fuoriusciti antifascisti in Francia spingevano alla guerra contro l’Italia per potersi installare sulle rovine del fascismo e della Patria”. Persino un cervellone come Benedetto Croce, dimostra di perdersi in un bicchiere d’acqua quando ci racconta: “Noi ricercammo ansiosi la formazione dell’avvenire migliore d’Italia, non già nei successi del cosiddetto Asse, ma nei progressi lenti e faticosi dell’Inghilterra e poi della Russia e dell’America”.
Degno castigo per costoro il ritrovarsi in compagnia di figuri come Lucky Luciano, tirato fuori dalle prigioni di New York e rispedito in Italia a motivo degli “speciali motivi resi alle forze armate degli Stati Uniti”.
La cooperazione tra antifascismo, esercito USA, organizzazioni criminali americane e mafia è documentata fra l’altro dalla presenza in Sicilia e poi a Napoli a fianco del governatore Charles Poletti, del noto gangster Vito Genovese, amico di Calogero Vizzini e del notissimo mafioso democristiano Genco Russo, ambedue nominati sindaci dei loro paesi dai “liberatori” USA.
Ben lungi dal gioire per la sconfitta, è nostra intenzione ricercarne le cause, individuando, e non in superficie, le responsabilità, le decisioni, le scelte che portarono alla catastrofe, senza alcun riguardo per uomini e istituzioni del regime fascista che tali indagini indicassero colpevoli. Un atteggiamento di libertà questo che non vorremmo però minimamente confuso o strumentalizzato in senso antifascista, non essendo nostra intenzione etichettarci in tal senso, confonderci con chi si pose, al servizio della fazione, contro i propri fratelli in armi.
Ci pare evidente che i meriti di una indicazione politico-culturale nulla hanno a che vedere con le sorti militari di un conflitto ed in ogni caso gli errori degli uni non dimostrano affatto che gli altri avessero ragione. Gli sbagli rimangono saldo patrimonio di chi li ha commessi, e non sono affatto maneggiabili, come in una somma algebrica, a compensare quelli dell’avversario. Anzi, nel caso dell’Italia gli errori del fascismo e quelli dell’antifascismo si cumularono, a svantaggio della Nazione.
Ci pare oggi possibile, sulla chiarezza di tali premesse, andare alla radice degli eventi meno chiari, sviscerarli ed ottenere un più esatto quadro storico, per molti aspetti diverso da quello che si è usi accettare. Spiegare qualcosa di più, può forse aumentare il rimpianto per come le cose avrebbero potuto essere, e l’amarezza per le circostanze nelle quali combattenti e popoli furono chiamati a sacrificarsi, ma ci pare utile contributo alla ricerca di quella autonomia ed autentica indipendenza che l’Europa pare oggi nuovamente desiderare. Vogliamo chiarire questi punti:
- enormi furono gli errori della nostra dirigenza politica, per incapacità e gelosie personali; per confusione sulle prospettive storiche e per deficienze gravissime nel settore militare, specie per quanto attiene la sicurezza e l’organizzazione del comando supremo;
- gli antifascisti, e in essi comprendiamo gli indecisi, gli opportunisti, quegli stessi fascisti che erano ormai tali solo di nome (ricordiamo che molti degli stessi gerarchi non esitarono a dichiararsi apertamente filo inglesi), dettero il loro volontario contributo perché il conflitto scoppiasse e perché l’Italia venisse sconfitta.
- la guerra fu persa perché politicamente e militarmente, soprattutto a livello di grande strategia, non funzionarono affatto, né il patto d’acciaio tra Italia e Germania, né il tripartito esteso al Giappone ed i meccanismi di consultazione previsti rimasero sulla carta.
- non è vero in ogni caso che le sorte del conflitto fossero segnate in partenza. La guerra, specie se da parte italiana ci fosse stata la grinta necessaria, avrebbe potuto essere vinta; l’Europa uscirne diversamente da quella odierna, assai migliore nella qualità della vita. La sconfitta fu un disastro storico di incalcolabile portata. Lo dimostrano le condizioni attuali della nostra nazione e dell’intero continente oppresso da potenze extraeuropee.
I prodromi del conflitto – il ruolo dell’Italia
Tutto sembrò scaturire dalla richiesta tedesca di intavolare con la Polonia trattative su Danzica per ottenere un collegamento coi propri territori della Prussia Orientale, dalla testardaggine polacca nel rifiutarle, nonostante l’universalmente riconosciuta ragionevolezza delle richieste tedesche e dell’interferire di Inglesi e Francesi, a favore dei polacchi, con una garanzia senza limiti e tale che non aveva alcuna prospettiva di poter essere resa operante.
C’era già lo zampino USA, poiché il fallimento della politica del New Deal roosveltiano stava spingendo gli USA al bellicismo. Forrestal nel suo diario si vanta: “né i Francesi né gli Inglesiavrebbero fatto della Polonia una ragione di guerra se non fossero stati continuamente spronati da Washington”. L’ambasciatore statunitense a Parigi, Bullit, fanatica “spalla” di Roosevelt, si muoveva su tale direttrice; fu lui che spinse l’ambasciatore polacco a Parigi a rifiutare qualsiasi possibilità di accomodamento. Analoga politica seguirono gli ambasciatori USA a Londra e Varsavia. Documentazione di ciò fu rintracciata dai tedeschi a Varsavia e Parigi occupate e fu esibita a Norimberga dalla difesa di Ribbentrop.
Le pressioni USA furono esercitate per porre le condizioni di un accerchiamento contro la Germania. Furono del resto proprio le insistenze della diplomazia statunitense a spingere Inglesi e Francesi ad intavolare trattative per un’alleanza con Mosca. E’ sintomatico cosa si proponessero gli USA con tale politica: un’Europa tale quale abbiamo ora; la meno europea delle Europe politiche esistite fino ad oggi.
Quanto offerto da Inglesi e Francesi per farsi amici i sovietici risultò insufficiente. I concorrenti nazionalsocialisti avevano evidentemente qualcosa in più da offrire: la Polonia. Ma la lentezza delle trattative alleate coi sovietici e le memorie del ministro degli esteri francese Bonnet, fanno sorgere un sospetto aggiuntivo: che Inglesi e Francesi non vedessero poi così male una spartizione della Polonia tra Germania e URSS. Il risultato sarebbe stato una lunga frontiera in comune tra di esse, la possibilità cioè di completare concretamente l’accerchiamento del Reich!
L’accordo Ribbentrop-Molotov del 23 agosto 1939 tolse ogni dubbio ai dirigenti tedeschi sul fatto di trovarsi, nella vertenza con i Polacchi, in posizione di forza.
La neutralità dell’Unione Sovietica, che pochi giorni dopo, con la spartizione della Polonia, si sarebbe trasformata in aperta complicità con la Germania nazionalsocialista, aveva isolato in modo definitivo gli Anglo-Francesi, che rischiavano di trovarsi in guerra contro la Germania e l’Italia, legata ad essa dal patto d’acciaio (l’alinea 3 del quale prevedeva l’intervento automatico) in un contesto internazionale sfavorevolissimo e per questioni che tutto sommato le riguardavano molto marginalmente.
Ci pare quindi che il calcolo di Hitler e del suo ministro degli esteri di poter regolare le questioni in sospeso con la Polonia senza che la minaccia anglo-francese avesse concrete possibilità di realizzarsi, fosse tutto sommato logico.
Il problema dei rapporti tra Germania e Polonia, stava cioè per risolversi nel quadro della graduale, pacifica revisione del trattato di Versailles, che negli anni precedenti aveva visto accomodate la questione renana, il caso austriaco e quello dei Sudeti. I Tedeschi erano quasi giunti a coronare l’unificazione sotto un’unica bandiera di tutte le genti di lingua germanica, ponendole, in linea con la tradizione storica, a blocco verso l’Oriente, contro la penetrazione slava in Europa. Avevano essi altresì dato reiterate garanzie di non avere a occidente alcuna rivendicazione da porre sul tappeto. “Lo stato dell’armamento tedesco nel 1939 era tale” , - sostiene lo storico britannico A. J. P. Taylor – “da non far pensare che Hitler avesse in animo una guerra generale e probabilmente non pensava affatto alla guerra”. E infatti mentre in Germania le spese per l’armamento erano al 30% del bilancio statale, nel 1939, quelle dell’Inghilterra furono il 50%, e la Francia spese addirittura il 60%!
Le democrazie capitaliste avevano ormai acquisita la convinzione di non potere, alla lunga, reggere il confronto sul piano delle realizzazioni pratiche e della solidarietà sociale, coi paesi totalitari emergenti, poveri di materie prime e territori, ma ricchi di braccia e spiritualità. Il livore ideologico-commerciale era tale che nulla esse fecero per bloccare la Polonia, arbitra di trascinarle o meno in guerra, quella guerra che sì vide la Germania sconfitta, ma dovette anche registrare al suo termine il trionfo del comunismo e la fine della potenza europea.
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Tutti hanno considerato marginale la partecipazione italiana ai prodromi del conflitto, lasciandosi forse ingannare dalla posizione geografica dell’Italia, troppo meridionale rispetto all’intreccio di note, colloqui, garanzie, patti, dell’estate 1939.
Ci pare che in tali vicende sia stata assegnata all’Italia un’importanza minore di quella che ebbe e siamo profondamente convinti che il suo ruolo nel provocare la conflagrazione sia stata determinante.
Informato l’alleato della propria decisione di risolvere la questione di Danzica con le armi, la Germania si aspettava un completo, pieno allineamento italiano sulle proprie posizioni. Ciò per quanto previsto dal patto d’acciaio, intesa riconfermata nei colloqui di Salisburgo del 11-12-13 agosto fra Hitler, Ciano, Ribbentrop, ma soprattutto da ragioni di sopravvivenza politica dei due regimi. Era impensabile che la sconfitta di uno potesse lasciar sopravvivere l’altro, tanto era radicale l’opposizione di idee e di prospettive sul futuro del mondo fra essi e gli avversari.
Prima ancora che si giungesse, invece, alla prova dei fatti, si dovette constatare la defezione dell’Italia. Formalmente la cosa assunse aspetti sfumati. L’Italia si disse provata dalla campagna d’Etiopia, dai problemi della pacificazione e dell’amministrazione dell’Impero, dalle pesanti conseguenze economico-militari derivate dalla partecipazione alla guerra di Spagna e dalla recente occupazione dell’Albania. Aveva profuso in tali vicende mezzi enormi e non era pronta ad affrontare un nuovo conflitto. Non fu confessata però apertamente la conclusione di escludere la partecipazione italiana alla guerra e si preferì indirizzare all’alleato (25 agosto) esorbitanti richieste di materie prime, dichiarandoci disposti a scendere in campo al suo fianco, solamente dopo che esse fossero state integralmente soddisfatte.
Il 26 agosto, a richiesta di Hitler, precisiamo queste nostre richieste; Ciano nel suo diario definisce l’elenco ”tale da uccidere un toro”; un totale di 170milioni di tonnellate, che avrebbero richiesto per il trasporto 17.000 treni! L’elenco fu costruito ad arte e gonfiato oltre misura, proprio per mettere i Tedeschi nell’impossibilità di una risposta positiva ed immediata.
La Germania accusò il colpo. Esteriormente mostrò di non impensierirsi del nostro atteggiamento; con la Polonia se la sarebbe cavata da sola e la situazione internazionale era ancora tale da far ritenere poco concreta la possibilità di un intervento franco-britannico. Hitler ringraziò Mussolini per le parole di incoraggiamento e cameratismo, lo esentò espressamente dall’intervenire, chiese solamente, ma la cosa è importantissima, che da parte italiana si proseguisse nei movimenti, nei preparativi, nella guerra psicologica insomma, in modo tale che Inglesi e Francesi non avessero dubbi sul fatto di trovarsi di fronte, in caso di guerra, Germania ed Italia, fianco a fianco.
Il 27, Mussolini dava assicurazione ad Hitler in tal senso. Il 28, il fronte anglo-francese tentennava. Da più segni pareva propenso a consigliare ai Polacchi moderazione. A fine mese la situazione torna ad aggravarsi; l’intransigenza sembra nuovamente prevalere.
Il diplomatico italiano Alberto Mellini Ponce de Lèon ricorda che Ciano, negli ultimi giorni di agosto, ebbe continui, cordiali colloqui, persino a casa sua, con l’ambasciatore inglese a Roma, Percy Loraine. Ma Ciano era solo la vetta di un iceberg; la fronda antitedesca e filo-inglese era a quel tempo attivissima. In Italia, tra i “fascisti che contavano”, gli uomini della destra, legati al capitalismo internazionale e alla massoneria, erano attivissimi.
Dopo l’iniziale spinta rivoluzionaria il fascismo scelse, o fu costretto a subire, la via del compromesso e accettò di servirsi dei vecchi strumenti dello stato liberale. Ciò ridette forza e prestigio alla monarchia, alla quale si avvicinarono in cerca di appoggio e sicurezza uomini che erano stati artefici del fascismo ed ora erano “uomini del re”: Grandi, ambasciatore a Londra, Balbo, governatore della Libia, Bottai, De Vecchi, Federzoni, Acerbo, ed altri, che ritroveremo puntualmente negli intrighi del 25 luglio e dell’8 settembre.
Gli istituti nuovi erano pura facciata, il potere, personalizzato nelle mani del Duce, dietro al quale non c’era nessuno. Anzi, dietro al Duce, dietro l’apparente monoliticità del regime, c’era un agitarsi di forze prive di unità d’intenti, un compromesso cementato dal successo di vent’anni di regime, ma sempre un compromesso. Esso era insito già nel modo in cui il fascismo era giunto al potere, “un coacervo di forze, di interessi, di stati d’animo diversissimi” come lo giudica De Felice.
Né il tempo aveva portato un chiarimento definitivo, appare chiaro, anzi, come per Mussolini tale mancanza di compattezza si traducesse in un punto di forza anziché di debolezza. ”Spesso non lasciava cadere le speranze degli estremisti, anzi le incoraggiava” ricorda Pietro Melograni “per riuscire ad apparire agli occhi dei moderati come l’arbitro, il solo uomo di governo capace, al momento buono, di imbrigliare le forze eversive presenti nel suo partito”.
Tutto ciò, se come tattica politica per il controllo del potere poteva essere accettabile, non faceva certo del Duce il vertice di forze convergenti, quali un capo deve essere. Giorgio Bocca a conferma: “Mussolini avverte che il suo regime monolitico è tutto lavorato da correnti sotterranee, e si estenua a mediarle; ci sono gli industriali, c’è la monarchia con la sua corte, c’è la Chiesa con la sua sede apostolica; il Tevere è stretto. La rotta ideologica del fascismo va per continue accostate, tra il rifiuto di ogni definizione teorica, e l’illusione di trovarne una buona per tutti gli usi, fra la pratica del potere e la ricerca dell’anima fascista, tanto invocata e mai raggiunta”.
Il campo militare era abbandonato agli intrighi dei generali; la Milizia rimase sempre un corpo raccogliticcio, non certo paragonabile alle SS nazionalsocialiste. La diplomazia un covo di vipere al servizio di un chiaro disegno volto ad imporre al paese un cambio di campo, nel senso filo-inglese. Al centro dell’intrigo c’era addirittura il ministro degli esteri, genero del Duce, conte Galeazzo Ciano. L’Ambasciata di Berlino, la capitale dell’alleato, era il punto di forza dei nemici dell’alleanza. Il diplomatico Leonardo Simoni ad essa assegnato ci riferisce: “risuona tutta di voci apertamente ostili alla Germania”. L’ambasciatore Attolico “si augura che celeri trattative di pace impediscano un eccessivo rafforzamento della Germania”. Altro personaggio di rilievo dell’ambasciata è il conte Massimo Magistrati, che ha sposato una sorella di Ciano. Attolico, se ne serve “per esercitare su Ciano una benevola influenza moderatrice”. Addetto militare, dopo essere stato a capo del SIM (il servizio di informazioni militari) è il Gen. Roatta, che manifesta nei confronti della Germania “un atteggiamento nettamente fermo ed ostile. Fatto questo che sembra farlo molto ammirare dai numerosi ufficiali che gli stanno attorno”. Addetto stampa è il marchese Antinori, dominato da un “astio incredibile per i Tedeschi e il Reich”.
Non c’è da meravigliarsi, in un contesto del genere, che Ciano, contrariamente all’impegno preso coi Tedeschi, dia assicurazione agli ambasciatori inglese e francese che l’Italia non sarebbe entrata in guerra! Sotto la data del 31 agosto, nel suo diario, Ciano annota: “viene da me Percy Loraine, lo metto al corrente di quanto è accaduto, poi, fingendo di non riuscire a trattenere uno scatto del cuore, dico: “Ma perché volete creare l’impossibile? Non avete ancora capito che noi la guerra contro voi e la Francia non la inizieremo mai?” Percy Lorainesi commuove. Gli occhi luccicano, mi prende le mani; “Da quindici giorni io mi ero reso conto di ciò. E lo avevo telegrafato al mio governo. Le misure di questi giorni avevano scosso la mia fiducia. Ma sono felice di essere venuto questa sera a Palazzo Chigi”.
Per togliere ogni dubbio sull’atteggiamento italiano si revocano le disposizioni relative all’oscuramento. Il 1° settembre Ciano ripete a Francois Ponset quanto aveva detto a Loraine.
E’ difficile, oggi che l’Italia non ha alcun peso, valutare l’importanza di un tale fatto. Ma allora il prestigio italiano era all’apice e la nostra flotta temibilissima. Annunciare, prima dello scoppio delle ostilità, che ne saremmo restati fuori, fu quantomeno gravissimo, imperdonabile errore.
Quanto chiacchierone fosse Ciano in quei giorni, è testimoniato dal gen. Pesenti il quale riferisce: “S.A.R il duca Amedeo d’Aosta, rientrato in Africa Orientale il 26 agosto, dichiarò di essere certo che l’Italia non sarebbe entrata in guerra, avendo egli avuto di ciò personale, formale assicurazione dal ministro degli affari esteri conte Ciano”.
Inghilterra e Francia, liberate dalla preoccupazione di un conflitto più generalizzato, si accinsero a liquidare la Germania. Questa si trovò travolta da eventi più pesanti di quanto non avesse ragionevolmente potuto prevedere e dovette subire l’aggressione anglo-francese priva dell’alleato italiano.
“Non belligeranza” e intervento
Mentre i Tedeschi si battevano con decisione, l’Italia rimaneva alla finestra; fu proclamata la non belligeranza. I commercio fiorivano; vendiamo (i Tedeschi protestano) persino motori Isotta Fraschini per aeroplano ai nemici del nostro alleato. Proseguono i maneggi antigermanici di Ciano e la sua cricca, né ci si preoccupa di colmare le lacune, specie di tipo organizzativo e quelle, assolute, di pianificazione militare.
I mesi dal settembre 1939 al giugno 1940 avrebbero potuto essere preziosi, ma nulla fu fatto. Si chiedono, è solo un esempio, all’industria meno carri armati di quanti essa potrebbe fornire.
Quando il successo tedesco appare evidente, e si può prevedere una prossima fine della guerra, Mussolini si decise ad intervenire per partecipare alla spartizione del bottino, ma non si seppe militarmente che pesci prendere; anzi non se ne prese nessuno!
Mussolini ebbe a dichiarare espressamente che si sarebbe combattuto non per la Germania, né con la Germania, ma a fianco della Germania. Che alla dichiarazione di guerra non si siano opposti né il Re, né Ciano, né il capo di Stato Maggiore Badoglio, tutto l’ambiente massonico, cioè notoriamente legato alle democrazie, la dice lunga.
Quel che seguì alla dichiarazione di guerra del 10 giugno 1940 fu quanto di meno serio si può trovare nei libri di storia di ogni tempo. Dopo essere stati noi a scegliere il momento ritenuto più adatto per l’intervento, evitiamo di gettarvi tutto il nostro peso per accelerare la conclusione del conflitto e ce ne stiamo sulla difensiva, come se gli aggrediti fossimo stati noi. Il 7 giugno lo Stato Maggiore Generale dirama l’ordine 28 op. relativo alle operazioni contro la Francia:
- Se si incontrano forze francesi non essere i primi ad attaccare.
- Non sorvolare il territorio francese.
- Restare a 10 Km dal confine.
- Nessun reparto dovrà varcare il confine
Ci furono lettere al Duce dell’ambasciatore francese, contatti tra Badoglio e l’addetto militare Gen. Parisot, con richieste di non essere attaccati e promesse di non attaccare.
Non esiste documentazione storica a tale proposito, ma s’è parlato addirittura, a proposito del carteggio Churchill-Mussolini (che lo statista inglese in persona corse a recuperare nel 1945 sul lago di Como), di un intervento italiano costruito d’intesa con gli Inglesi, perché essi e i francesi non avessero a trovarsi da soli con i “cattivi” Tedeschi al tavolo della pace.
Gli eventi non smentiscono come assurda tale ipotesi. La dichiarazione di guerra infatti non ci portò alcun vantaggio strategico o tattico immediato. Ci volevano i Giapponesi, con la lezione di Pearl Harbour per capire come si inizia una guerra!
Si fecero invece subito manifeste le conseguenze negative della situazione da noi stessi posta in essere. In un sol colpo perdemmo 212 navi, di cui 46 petroliere, per un totale di 1.616.000 tonnellate di naviglio, bloccate in porti nemici. Era proprio impossibile di evitare di perderle?
Non approfittammo di circostanze e di rapporti di forza a noi estremamente favorevoli. Rinunciammo ad occupare Malta, che il Servizio Informazioni Aeronautica ci disse difesa da 29 aerei, mentre non ce n’era alcuno (solo tre Gloster Gladiator, in casse, ancora da montare). L’ammiraglio Cunningham il 17 giugno 1940 scriveva: “decidendolo ora, è possibile sgombrare una parte dei depositi della flotta e le persone non necessarie per la difesa”. Malta era considerata perduta!
Non fu bloccato il canale di Suez; bastava farvi saltare una nave con le stive cariche di cemento, o minarlo dall’aria.
Incoraggiarono Mussolini, nel dare l’ordine di restare sulla difensiva, i nostri servizi segreti, poco attivi, ma estremamente allarmistici. Essi ci dettero ovunque in condizioni di pesante inferiorità, mentre era vero l’opposto.
Chi erano i responsabili di questi servizi? Per l’Esercito il Gen. Carboni, individuo fatuo, amico di Ciano, che ritroveremo sulla breccia nel periodo dell’armistizio. Per la Marina, il traditore ammiraglio Maugeri decorato in seguito dagli americani per i suoi servigi.
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Mentre avevamo in quel momento in Libia 221.530 uomini per un totale di 14 divisioni, 1.801 cannoni, 4.600 mitragliatrici, 3.800 fucili mitragliatori, 339 carri, 2.500 moto e 9.600 automezzi e in giugno giungeranno altri 1.250 automezzi, viveri, carburante, munizioni e i primi 70 carri pesanti della Centauro, si manifestano timori per una possibile iniziativa francese dalla Tunisia, dove si davano presenti divisioni da tempo rimpatriate e si temeva accorresse, dalla Siria in Egitto, un fantastico, perché non esisteva, “esercito Weygand”.
Nemmeno dopo la resa dei Francesi furono mosse a tenaglia contro l’Egitto e il Sudan, le truppe della Libia e dell’Impero. Egitto e Sudan erano pressoché sguarniti e difesi dall’aria da pochissime squadriglie di aerei. Non avrebbero ricevuto né un uomo, né un fucile, né un carro, né un aereo, fino a settembre! L’ideale per la prevista guerra lampo!
Ricorda il Gen. William Platt, comandante in capo delle truppe britanniche operanti nel Sudan, che le uniche sue forze erano 5.000 uomini della SDF (Sudan Defence Force) una specie di polizia coloniale e 3 battaglioni britannici, senza cannoni e carri e appena qualche aereo, su 2.000 km di frontiera. Dice il colonnello inglese Baker che ”esistevano mille ragioni per considerare il Sudan praticamente perduto”.
A sud, sempre a detta del Col. Baker, “la difesa del Kenia poteva contare su 10.000 uomini; Somalia britannica e Aden su altri 5.000”. In A.O.I. il duca d’Aosta disponeva infatti di 300.000 uomini, 400 cannoni, 60 carri, 323 aerei. Era altresì provvisto di benzina e viveri sufficienti anche per scatenare una offensiva su vasta scala. Qualche rifornimento poteva giungere e fu effettuato, per via aerea dalla Libia, e con navi dal Giappone.
Il rapporto di superiorità per gli Italiani in Africa, era perciò di 10 a 1 per le forze di terra e di 5 a 2 per quelle dell’aria, sempre ammettendo che gli aerei britannici (vecchi Vincent del 1928) potessero eguagliare in potenza e velocità gli avversari italiani.
Quali che fossero i mezzi a disposizione del duca d’Aosta, egli doveva evitare di disperdere le forze sui vastissimi territori dell’Impero, assumere l’iniziativa, o, quantomeno, difendersi su posizioni favorevoli che certo non mancavano.
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L’unico movimento di truppe effettuato nel giugno 1940 rimase quello contro la frontiera alpina francese. Un fallimento clamoroso per l’impreparazione e per le difficoltà obiettive del terreno che non permisero di conquistare alcuna posizione chiave. Ma volevamo davvero conquistarle? Lo storico francese Henry Azeau si domanda: “la guerra franco-italiana ha inizio con una specie di accordo segreto?”.
Dell’esistenza di tale accordo non dette purtroppo prova l’Italia durante le trattative armistiziali. Il 18 giugno Mussolini e Hitler si incontrarono a Monaco; fu deciso che l’Italia avrebbe imposto ai francesi la cessione di Corsica, Tunisia e Costa dei Somali, oltre l’occupazione della Provenza fino al Rodano. Il 24 giugno a Roma, a Villa Incisa, fu firmato l’armistizio, rinunciando da parte nostra a quanto si era annunciato di voler esigere. Il mancato possesso della Tunisia, in particolare, fu gravissimo, si rinunciò a rendere meno lunga e meno pericolosa la rotta dei nostri convogli con la Libia e si posero le premesse per enormi perdite di uomini e materiali. L’ambasciatore Guariglia e Vittorio Mussolini imputano ai consigli di Ciano questo tragico errore. Resta il fatto che Mussolini, nove ore dopo aver approvato il testo della convenzione di armistizio, ordinava di annullarlo, quando era già stato stampato e pronto alla consegna. Hitler interpellato, lasciò libera l’Italia di porre le condizioni credute opportune, assicurando ancora una volta comunque, che non avrebbe firmato alcun armistizio con la Francia separatamente, quali che fossero le nostre richieste. Come omaggio finale, rinunciammo anche alla consegna dei fuoriusciti antifascisti.
I mesi tra il giugno e l’ottobre, che potevano essere decisivi, furono gettati in una inazione totale, continuando a pensare, Mussolini e lo Stato Maggiore, in modo profondamente errato. In questa equivoca neghittosità si afflosciò l’entusiasmo di un popolo disposto a credere. Quella che poteva essere un’autentica lotta di liberazione nacque, sotto il segno del giallo politico e diplomatico e del calcolo, degenerando poi, tra la rabbia degli onesti, prima in incomprensibili balbettii strategici, poi in medioevali intrighi di palazzo.
Aspettammo, credendoci furbi, che la vittoria ci piovesse dal cielo per merito degli alleati.
Ma Hitler nell’estate 1940, nonostante i precedenti, era ancora speranzoso di trovare un’intesa con gli Inglesi. Si aspettava gratitudine per averli “perdonati” a Dunquerque, per non aver insistito a fondo, proprio per evitare che l’onore offeso troppo pesantemente imponesse loro di reagire ad oltranza. Non voleva, coerentemente a quanto aveva scritto in Mein Kampf, creare fra Germania e Inghilterra un solco incolmabile, ed è perfino storicamente molto incerto se abbia mai davvero pensato ad invadere l’Inghilterra.
Dovevamo pensare pertanto a far qualcosa per conto nostro. Chiusa la campagna con la Francia, erano concentrati nella valle Padana 600.000 militari “disoccupati”. Come se la guerra fosse già vinta, si pensò di utilizzarli in una campagna contro la Jugoslavia; vennero inviate al confine orientale 37 divisioni e 85 gruppi di artiglieria, oltre a unità speciali, magazzini, servizi. Si decise inoltre di congedare 600.000 riservisti da poco richiamati. A ottobre 300.000 sono già a casa. Appena in tempo per essere richiamati per la guerra di Grecia! Sembra che Mussolini e lo Stato Maggiore si scordassero completamente dell’unico fronte aperto, quello libico e del teatro d’operazione mediterraneo in genere. Questo proprio quando l’eliminazione dalla guerra della flotta francese apriva per noi interessanti prospettive.
Ma l’8 luglio, un ordine di Supermarina impedisce all’ammiraglio Bergamini con parte della flotta di partecipare allo scontro di Punta Stilo in Calabria, contro vecchie navi inglesi rimodernate, inferiori alle nostre per velocità e gittata delle artiglierie. “Non uscire-ripeto-non uscire” è l’ordine di Supermarina, ricorda l’U.S.M. (Ufficio Storico della Marina).
A fine agosto, per contrastare navi uscite da Alessandria si muove da Taranto tutta la flotta, 5 corazzate, 13 incrociatori, 39 caccia. La flotta, vincolata da precisi ordini di Supermarina, non dà battaglia a forze 3 volte inferiori e consuma incredibili quantità di prezioso carburante.
Conseguenza immediata di questo stranissimo, inspiegabile inizio del conflitto fu quella di influenzare negativamente le nazioni più interessate ad intervenire al nostro fianco: Spagna e Turchia. Constatata l’inazione italiana e il cristallizzarsi del conflitto, quindi il suo prolungarsi con prevedibili rischi, esse ne trassero incitamento a restare in prudente attesa. Gli inglesi che molto avevano temuto per Gibilterra, (Churchill ebbe a dichiarare “l’intervento della Spagna avrebbe potuto dare alla guerra sviluppi imprevedibili”) ne trassero conforto e cominciarono a pensare che forse il peggio era passato.
Per noi italiani, invece, il peggio stava arrivando ed era la materializzazione della guerra parallela: nessun piano strategico comune, nessuna consultazione tra i due stati maggiori, un costume che purtroppo proseguì per tutta la guerra. Una guerra davvero “parallela”, condotta all’insegna della dispersione delle forze, della gelosia e della disistima tra alleati, senza che nessuno dei due si rendesse conto che in tal modo ci si avviava alla sconfitta.
C’è da dire che la responsabilità principale di ciò ricade certamente su noi Italiani. Essendo militarmente più deboli, dovevamo essere doppiamente volonterosi e ricercare la vittoria ponendo al servizio dell’alleanza, senza riserve, tutto quanto poteva essere dato. Invece, oltre a pesare poco militarmente, avemmo impensabili alzate di testa che misero in difficoltà l’alleato. Ad esso non era sfuggito l’atteggiamento del gruppo di Ciano. La fama di essere poco fidati, cioè di chiacchierare troppo, era ormai consolidata. Non si vede perciò a quale titolo i Tedeschi avrebbero dovuto informarci di ogni cosa stessero per architettare. Lo stesso Hitler ci dà testimonianza di ciò: “nonostante l’assoluta fiducia che riponevo in Mussolini personalmente, mi ritenni in dovere di tenerlo all’oscuro delle mie intenzioni in tutti quei casi in cui una indiscrezione avrebbe potuto pregiudicare la nostra sicurezza. Egli, purtroppo, riponeva piena fiducia in Ciano”.
Una serie di disastri
Il 28 ottobre 1940, senza motivi e senza una preparazione adeguata, ci impantanammo nella campagna di Grecia.
Al processo di Verona, che nel gennaio 1944 lo vide condannato a morte e fucilato, Ciano fu condotto dalla congiura del 25 luglio, ma essa fu solo il coronamento del suo agire; aveva in precedenza già fatto alla Nazione danni incommensurabili. La campagna di Grecia fu il suo capolavoro. Raccontò, e fu creduto, di aver corrotto elementi greci di primo piano. Per parte sua Badoglio, con criminale faciloneria, accettò di avallare un’operazione oltremare senza nemmeno interpellare i responsabili della Marina e dell’Aeronautica.
La campagna, strategicamente, fu un’operazione demenziale. Si decise di attaccare dai monti, con la prospettiva, se le cose fossero andate bene, di dover scavalcare una catena di montagne dietro l’altra e per di più si attaccò in condizioni di grave inferiorità numerica.
La guerra con la Grecia, ammessa la necessità di farla, avrebbe potuto essere risolta in poche ore; la flotta, da Taranto avrebbe raggiunto il Pireo e nella stessa serata la Grecia si sarebbe trovata con un nuovo governo allineato sulle posizioni dell’Asse. Non si attua nemmeno l’”emergenza G”, che prevedeva lo sbarco a Corfù, a pochi chilometri dal continente.
Altra soluzione, altrettanto logica e poco dispendiosa, sarebbe stata quella, risolutiva, di concordare l’operazione con l’alleato. In primavera infatti le truppe germaniche, transitando dalla Bulgaria, misero fine al conflitto in pochi giorni. Il generale Papagos, comandante supremo dell’esercito greco, ammette che gli era impossibile difendere contemporaneamente il confine albanese e quello bulgaro.
Trattenuta invece la flotta a Taranto, di lì a pochi giorni tre corazzate furono silurate in rada da una squadriglia di Swordfish, vecchi, lentissimi aerosiluranti inglesi. Gli aerei erano decollati a 170 km. Da Taranto, dalla portaerei Illustrius. La squadra inglese era stata avvistata, ma nessuno dette alle nostre navi l’ordine di prendere il mare per intercettarla. Uno storico inglese commenta: “Per ventiquattr’ore l’ammiraglio Cunningham agitò il panno rosso lungo il tallone d’Italia, ma la sfida non fu accolta”.
In dicembre la lista delle disgrazie italiane si allunga.
Toccò stavolta all’armata libica di Graziani, che in tre mesi dall’inizio delle ostilità si era mossa in avanti di soli 50 Km., e sostava a Sidi el barrani, dopo aver fatto, nel balzo in avanti, sei prigionieri!
A Graziani, Mussolini aveva scritto: “L’invasione della Gran Bretagna è decisa, è in corso di ultimazione come preparativi e avverrà. Circa l’epoca, può essere tra un paio di settimane o un mese. Ebbene il giorno in cui il primo plotone di soldati germanici toccherà il suolo inglese, voi simultaneamente attaccherete”. Altro che attaccare! Un esercito che ignora come dottrina e come prassi la guerra di movimento, non sa neppure disporsi a difesa contro un nemico capace di farla. Il generale Berti, ricorda l’U.S.E. (ufficio storico dell’esercito) comandante della X armata, quella che è attaccata di sorpresa e sbaragliata da poche migliaia di inglesi, è in licenza in Italia. Invece di rientrare immediatamente, alla notizia dell’attacco, prende tempo con la scusa che la mamma è ammalata e poi ricompare a Cirene, al comando di Graziani in abiti borghesi.
Questo era lo spirito da cui erano purtroppo animati gli uomini che “contano”. Ma non va dimenticato che la fronte c’era anche gente di altro stampo. Pochi giorni prima di morire in combattimento, Guido Pallotta scrive ai genitori: “sono in ottima salute e ne ringrazio il cielo, perché essere rimpatriato per malattia sarebbe il mio più grande dolore”. Ma Pallotta era solo un sottotenente.
In pochi giorni perdiamo 130.000 uomini, 1.000 cannoni, 400 carri. Va detto che se i nostri carri erano piccoli, neppure quelli inglesi erano poi giganteschi, 3 tonnellate i nostri, 5 quelli britannici!
Quella che mancò fu l’azione di comando. Anche l’aeronautica è trascinata nel gorgo, in pochi giorni vanno persi 1.000 aerei, di cui diverse centinaia distrutti al suolo. Il 4 gennaio 1941, a Bardia, accerchiata da 23 (ventitre!) carri inglesi, si arrendono 45.000 uomini con 400 cannoni, dopo una serie di combattimenti così “furiosi” che Montgomery ebbe a definirli “zuffe di cani”.
Gli inglesi proseguirono l’offensiva agevolati dai 706 nostri autocarri pesanti di cui si erano impossessati, e il 21 gennaio, disponendo di soli 12 carri armati, ma con un reggimento carri riequipaggiato con quelli italiani catturati, si presentano davanti a Tobruk dove, lo stesso giorno, si arrendono altri 32.000 nostri uomini.
Rotte militari di questo genere furono decisive nell’economia della guerra e sul morale del popolo, avviando reazioni a catena di sfiducia e di egoistico riflusso al privato. Osserva lo scrittore albanese Ismail Kadaré nel suo bellissimo “I tamburi della pioggia”: “quando gli uomini cominciano a guardarsi dal pericolo è perché hanno perduto ogni speranza di vittoria”.
Con quale spirito potevano battersi i nostri pur valorosi soldati in un contesto strategico contradditorio e guidati da uno Stato Maggiore professionalmente inesistente? E’ evidente come errori e sconfitte influenzino di riflesso altre situazioni e rendano i provvedimenti presi a rimedio sempre più problematici e difficilmente risolutivi.
Per l’esito infausto dell’offensiva in Grecia, si procedette, visto che Ciano era ancora nei favori del Duce, al licenziamento di Badoglio. Ricorda Duilio Susmel, che il maresciallo dimissionario (26 novembre 1940) in attesa della decisione definitiva, si prese una settimana di licenza che trascorse nella tenuta di un amico in Lombardia a giocare a bocce ed in piacevoli partite di caccia. Il paese era in guerra, in Albania continuava l’arretramento, i soldati combattevano nel fango e il capo di Stato Maggiore giocava a bocce e sparava agli uccelli!
Il disastroso andamento della campagna di Albania (prese a chiamarsi così, anziché di Grecia, perché ormai si combatteva sul nostro territorio) spinse la Jugoslavia ad un clamoroso voltafaccia, per cui si rese necessaria un’occupazione che era destinata ad immobilizzare decine di divisioni.
Lo stesso Hitler, nel suo testamento, ricorda quale pregiudizio abbiano portato le operazioni nei Balcani; provocarono nell’attacco alla Russia un ritardo di quattro settimane, settimane che forse costarono la guerra!
In febbraio, mentre Franco è a Bordighera a colloquio con Mussolini, la flotta inglese si presenta davanti a Genova e la cannoneggia violentemente. I soli grossi calibri delle corazzate sparano 1.055 colpi. Scrive Giovanni Artieri: “sapevano tutto della difesa, debolissima, della dislocazione degli obiettivi, dell’inesistenza di campi minati”. Non riuscimmo a reagire in alcun modo! E’ superfluo aggiungere come finì l’invito rivolto da Mussolini a Franco affinché partecipasse alla nostra guerra!
Nella primavera 1941, mentre in Europa centinaia di divisioni tedesche erano inutilizzate, e si delineava coll’intervento dell’Asse nei Balcani la successiva più grave dispersione di forze provocata dalla campagna all’Est, si compiva anche il destino dell’A.O.I, dove in breve tutte le nostre forze furono messe fuori combattimento.
Il generale Lettow Worbek, nel 1914-1918, con 2.000 tedeschi, resistette in Tanganica per quattro anni!
Il nostro viceré si arrese all’Amba Alagi praticamente senza combattere. Degno suo epitaffio fu il commento di Ciano nel diario “temeva più la vittoria tedesca che quella inglese”. “Una figura scialba” la definisce Giorgio Bocca; “fu pessimo comandante” dice Franco Baldini, “dimostrò una singolare incapacità di afferrare al volo la situazione”.
Sfuggì al duca che non muoversi ed ostinarsi a presidiare i lunghissimi confini dell’Impero era strategia assurda. Se l’Impero era destinato a cadere, le energie disponibili andavano spese subito, quando il momento propizio poteva offrire risultati insperati. “La condotta strategica delle operazioni”, riconosce il monarchico Altieri, “fu incoerente”.
Non esiste oggi alcun dubbio che il duca avrebbe potuto risalire il Nilo e comparire in Egitto nel luglio 1940; ciò avrebbe obbligato gli inglesi a distrarre forze dal fronte libico, rinunciando a qualsiasi attacco. L’unico nostro sforzo offensivo, che a ben guardare si tradusse nel ritirare le truppe dai confini che contavano, fu quello assurdo di conquistare la Somalia inglese, un territorio che il residente britannico a Berbera, la capitale, situa ad “appena dei piedi sopra l’orifizio anale dell’impero britannico”.
In difensiva, eroica fu la nostra resistenza a Cheren, dove rifulse la tenacia del gen. Carnimeo. Fummo costretti a cedere solamente perché mancò nel momento decisivo qualche battaglione! L’aviazione italiana è scomparsa; per ordine del gen. Pinna gli aerei superstiti stanno di riserva a Massaua. Il responsabile del fronte, Gen. Frusci, non solo non rifornì di uomini Cheren (c’erano decine di migliaia di uomini inattivi all’Asmara, a Massaua, ad Addis Abeba, il Gen. Nasi offrì da Gondar 30.000 uomini) ma distrasse da Cheren truppe, la 44ma brigata ad esempio, né furono avviati come rinforzo i grossi calibri delle batterie di marina di massaua.
Dopo l’abbandono di Cheren, un reggimento fresco di granatieri di Sardegna, il 10°, fu inviato e schierato ad Adle Teclesan, su ottime posizioni, a difesa dell’Asmara, con una compagnia di mortai ed una di mitragliatrici. Ma, dopo un breve scambio di fucilate, l’intero reggimento alzò le braccia e si arrese. Pochi giorni dopo a Massaua si arrendono altri 10.000 uomini.
I nostri generali, alle elementari, non avevano letto degli Orazi e dei Curiazi?
Al sud, in Somalia, ci si schierò a difesa lungo il Giuba, fino a quando la pur prevedibile secca del fiume non permise il passaggio agli inglesi. La nostra linea di difesa era del resto sottilissima, dato che si erano trattenuti a Chisimaio, dove si arresero senza battersi, 14 battaglioni e 6 batterie di artiglieria. Queste forze presidiavano quello che avrebbe dovuto diventare il nostro grande porto sull’Oceano Indiano, ma che allora non era ancora nulla. Né ci si venga a dire che mancavano i carburanti per spostare queste truppe; solo a Mogadiscio gli inglesi trovarono 6.000 tonnellate di benzina!
Non c’è da meravigliarsi che al momento della caduta dell’Impero, due tra i generali più in vista, quel frusci di cui abbiamo visto sopra le prodezze e lo stesso capo di Stato Maggiore del duca d’Aosta, Claudio Trezzani, fossero prelevati in aereo e trasportati in America dove furono ospiti di Roosevelt alla Casa Bianca.
A dimostrazione di quanto ancora si sarebbe potuto fare, va segnalato che nel territorio degli Azebo-Galla, schieratisi con gli italiani fin dal 1935, i combattimenti proseguirono fino al 1943, quando ufficiali ed aerei inglesi ebbero ragione della resistenza.
Mancato sfruttamento delle ultime possibilità di vittoria
Risoltasi la campagna di Grecia, nel maggio ’41 fu occupata l’isola di Creta. La situazione nel mediterraneo migliorò, ma evidentemente mancava un respiro veramente strategico ai programmi di guerra dell’Asse. Mentre l’isola avrebbe potuto essere un ottimo trampolino di lancio per le operazioni verso Cipro, Suez e l’Iraq, dove era scoppiata una rivolta anti-inglese che apriva prospettive insperate, la sua occupazione rimase fine a se stessa.
Non si era neppure pensato del resto ad operare da una posizione come quella del Dodecaneso; Rodi, quasi a perpendicolo sopra il canale di Suez ed Alessandria, a pochi chilometri dal continente asiatico, a metà strada tra gli aerodromi dell’Italia meridionale e i pozzi petroliferi del medio oriente, avrebbe dovuto essere base aeronavale unitissima. Non se ne sentì mai parlare durante tutto il conflitto!
Doveva perlomeno risultare chiaro, a questo punto che il sogno di una guerra lampo era ormai tramontato e che per vincere era necessario mettere da parte ogni bizantinismo, ogni furbizia, per assumere uno schieramento chiaro, responsabile, e produrre tutto lo sforzo possibile. Rimanemmo invece sempre tranquillamente in attesa che i tedeschi vincessero la guerra per noi ed attenti a operare affinché essi non stravincessero. Eravamo ancora dell’opinione che gli equilibri europei non dovessero guastarsi pendendo troppo dal lato tedesco. Che si continuassero a costruire fortificazioni al confine francese e che in funzione antitedesca proseguissero le opere per munire “il vallo alpino”, un sistema fortificato su più fasce, a parere di Roatta, il più vasto da noi compiuto, appare oggi atteggiamento di una miopia imperdonabile.
Nulla era ancora compromesso, ma era urgente mettere alla frusta il paese, dimostrare che il regime aveva effettivamente costruito una mentalità diversa, combattiva. Positivi atteggiamenti di tal fatta rimasero però appannaggio di pochi; ricordiamo gli esempi di Guido Pallotta, Nicolò Giani e Teseo Tesei, l’ardimento dei reparti della X Mas, l’abnegazione dei paracadutisti della Folgore, dei carristi in Africa, degli alpini in Russia, il sacrificio dell’intera arma aeronautica, quello dei sommergibilisti e della Marina nell’ingrato compito di convogliare e scortare in Libia i rifornimenti.
Sostanzialmente però nulla si mosse. Non esisteva una struttura politica omogenea in grado di mobilitare il paese; gli errori militari si moltiplicarono, il fronte libico fu trascurato mentre decine di divisioni restavano inattive; continuò l’altalena dei congedi e dei richiami. Ma soprattutto nessun valido sforzo fu fatto per mobilitare il cosiddetto fronte interno; mancò qualsiasi tentativo di imprimere alle energie economiche e industriali della nazione la volontà di vincere. “Il Consiglio dei Ministri”, ricorda De Felice, “si riunì nei mesi della campagna di Grecia solo tre volte”. L’industria dimostrò tutta la propria riluttanza ad impegnarsi autonomamente e il regime tutta la propria debolezza politica nel non riuscire ad imbrigliarla, in particolare quella degli armamenti. E non è vero che non si fosse in grado di fare di più! Un paragone con lo sforzo fatto nella prima guerra mondiale può essere convincente: tra il 1913 e il 1919 le spese belliche assorbirono il 76% delle uscite statali e il 38% del reddito nazionale lordo. Negli anni cruciali del secondo conflitto, solamente il 20% della spesa pubblica e solo il 6% del reddito nazionale lordo. Una percentuale perfino più bassa di quella relativa a certi periodi di pace!
Un solo dato: si costruirono nel 1942 poche centinaia di aeroplani contro migliaia dei tedeschi e degli alleati. Quindi, non solo cattivo impiego delle risorse e dei mezzi disponibili (ad esempio la flotta che, torniamo a dirlo, in quanto tale non fu mai impiegata), ma anche autentica penuria di strumenti bellici, per mancanza di pianificazione produttiva, di direttive precise, di uomini giusti al posto giusto.
Una così sconclusionata azione politico-amministrativa ci portò ad essere protagonisti di avvenimenti importantissimi, sui quali però ci fu impossibile realmente influire. Se si era capita l’importanza della guerra per i destini dell’Europa e si era deciso di non essere assenti alla loro costruzione, era necessario appoggiarci pienamente all’alleato fin dall’inizio, quando, in una guerra breve, anche il nostro peso poteva essere determinante e uno sforzo generoso, nel quale bruciare coraggiosamente tutte le nostre risorse, poteva essere coronato dal successo.
Un conflitto lungo, condotto stancamente, in diffidente attesa di una vittoria da parte dell’alleato, vittoria che si sperava risicata, frutto di trattative, di compromessi non poteva che determinare il fallimento del nostro bluff, condotto senza buon senso e senza alcuna grinta.
Il conflitto si allarga
A fine giugno, senza informare Italia e Giappone, la Germania prende la decisione di “incidere l’ascesso comunista”.
Come se non avessimo già a sufficienza truppe in giro per il mondo, decidiamo di inviare subito al nuovo fronte il CSIR (Corpo di Spedizione Italiano in Russia) al comando del gen. Giovanni Messe, uno dei generali migliori della nostra guerra.
La guerra al comunismo fu evento importantissimo, sentito in tutta Europa, tant’è vero che grandiosa fu la partecipazione di volontari di tutti i paesi. Si offriva l’opportunità all’Asse di enunciare, con solennità, precisi impegni politici circa “l’ordine nuovo” che intendeva instaurare in Europa, una indicazione definitiva sugli scopi della guerra e sul futuro assetto mondiale.
Stupisce che uomini politicamente esperti della psicologia delle masse, come Mussolini e Hitler, portatori di una visione nuova del mondo, autenticamente rivoluzionaria, abbiano ceduto la mano, l’iniziativa, a decrepiti demagoghi conservatori quali Churchill e Roosevelt. Il 15 agosto a Placenta Bay, nelle gelide acque di terranova, essi diramarono una dichiarazione congiunta che prese il nome di “carta atlantica”: “La guerra viene combattuta senza mirare ad alcun ingrandimento territoriale e si esclude qualsiasi cambiamento che non sia in accordo con la volontà liberamente espressa dai popoli interessati. Sarà rispettato il diritto di tutti i popoli a scegliersi la forma di governo sotto la quale vivere e si ristabilirà l’autogoverno nelle nazioni che ne sono state private con la forza”. Al Museo nazionale di Washington migliaia di visitatori sostano riverenti di fronte a questa monumentale impostura.
Programmi politici di autonomia, ripristino delle libertà negate dal comunismo, organi amministrativi tratti dalle nazionalità, avrebbero agevolato, dice il Gen. Messe, la penetrazione delle armate dell’Asse nei territori sovietici occupati.
* * * *
A fine anno il fatto cruciale di tutta la guerra.
Il Giappone, senza informare Germania e Italia, dà vita alla sua guerra parallela e si sceglie, anziché uno degli avversari già in campo contro i suoi alleati, uno nuovo, gli Stati Uniti. Questi, che già durante la “neutralità” erano schierati sostanzialmente contro l’Asse (a Placenta Bay, anche se al di fuori delle proprie prerogative presidenziali, tanto che fu costretto a negarlo, Roosevelt si era impegnato a “proteggere” le Azzorre ed a inviare un ultimatum al Giappone), misero in campo le loro enormi possibilità industriali e, per di più, rifornirono i sovietici di carri, aerei, camions, in quantitativi incredibili.
Il 7 dicembre 1941, giorno dell’attacco giapponese a Pearl Harbour, i corazzati tedeschi erano di fronte a Mosca. Un attacco del Sol Levante contro la coda del mostro sovietico, in Estremo Oriente, avrebbe risolto per sempre il problema del comunismo nel mondo.
La guerra, ad ogni modo, iniziò per i Giapponesi con una serie di brillanti successi e di riflesso lo scacchiere mediterraneo ne trasse giovamento. Era un’ultima occasione di fare finalmente sul serio, di uscire dal torpore, di giocare il tutto per tutto. Ancora una volta il fronte decisivo doveva essere per noi quello africano, che poteva offrire questa volta addirittura la possibilità di un aggancio con le truppe tedesche, che erano ormai giunte al Caucaso.
Occorreva innanzitutto approfittare della superiorità aeronavale raggiunta in Mediterraneo grazie agli affondamenti di navi inglesi ad opera dei nostri mezzi d’assalto e ad opera degli alleati germanici. Né i Britannici potevano contare su rimpiazzi, a causa dei disastri navali loro inflitti dai Giapponesi in Asia.
Concretare tale superiorità con l’occupazione di Malta, duramente martellata dall’aviazione e sottoposta a blocco, avrebbe permesso un adeguato rifornimento alle nostre truppe, ferme a El Alamein, ma disposte ad ogni sacrificio per raggiungere Alessandria, il Delta e il Canale.
La stessa preoccupazione di salvaguardare l’equilibrio residuo dell’alleanza, doveva spingerci a rafforzare al massimo il fronte africano, essendo esso un teatro d’operazioni secondario per la Germania.
Il tempo lavorava ormai contro di noi. Andava abbandonata qualsiasi tattica difensiva e ogni sacrificio di uomini, mezzi e materiali, andava inserito in un disegno univoco, coerente, ardito. Le risorse andavano impiegate in un sol punto, quello che poteva offrire possibilità decisive. Che senso poteva ormai avere occuparsi della “riserva centrale” (un gruppo di divisioni “a disposizione” nella Valle Padana) o delle divisioni costiere? Ogni automezzo, ogni cannone, doveva prendere la via dell’Africa. La stessa flotta andava impiegata, a supporto dell’Esercito in una grande battaglia di sfondamento ad El Alamein. Un simile impiego non era impensabile; gli alleati impiegarono molte volte i cannoni della flotta oltre che in appoggio ad operazioni di sbarco, anche a favore di truppe operanti non lontano dalla costa, come in Sicilia, Salerno, Anzio e Normandia.
Proprio in quei mesi, la nostra flotta si ritirò invece nei porti più lontani dalle operazioni di guerra. Non la si impiegò neppure al momento dell’invasione del territorio nazionale, cosicché, rinviandone di continuo l’intervento, fu possibile all’armistizio, l’8 settembre 1943, consegnare al nemico, dopo oltre tre anni di guerra, corazzate modernissime che non avevano mai sparato un colpo di cannone.
Ma lo Stato Maggiore era ormai pieno di riserve mentali; si preferiva avere a disposizione, nella penisola, truppe da opporre ai tedeschi (con quali risultati si vide poi!) piuttosto che “rischiare di vincere”.
Enormi furono pertanto le carenze nei rifornimenti destinati al fronte libico. Riconosce a questo proposito il Gen. Cavallero, il capo di Stato Maggiore succeduto a Badoglio, nel suo diario (vol. Ottobre 1941 – settembre 1942), che “le carenze di rifornimenti spesso lamentate non erano soltanto frutto dell’opera nemica, ma derivavano molto spesso che dall’Italia non molto partiva”. Solo il 10% degli automezzi disponibili, ad esempio, fu impiegato in Libia; oltre il 50% rimase inutilizzato in Italia, mentre il resto fu disperso in Francia, Slovenia, Croazia, Albania, Grecia e Russia. Il teatro di operazioni dell’Est fu quello nel quale, nell’estate 1q942, profondemmo la quasi totalità dei mezzi disponibili; per qualità senz’altro i migliori. Mussolini, che evidentemente aveva il complesso della Germania, voleva a tutti i costi non sfigurare. A chi si permise di criticare l’entità delle forze predisposte per l’invio al fronte russo, rispose: “Non possiamo essere inferiori alla Slovacchia!”.
La Slovacchia aveva mandato in Russia 2 divisioni. Noi vi mandammo 227.000 uomini, 16.700 automezzi, 4.470 motomezzi, 1.130 trattori d’artiglieria, 19 semoventi, 55 carri, 588 pezzi d’artiglieria, 380 anticarro, 52 pezzi contraerei, 220 mitragliatrici antiaeree. Ci si privò perfino di batterie tolte alla difesa contraerea delle nostre città, come se il fronte decisivo fosse per noi in Russia, come se la relativa debolezza dell’avversario sul teatro di guerra africano non consigliasse di far massa lì.
Quest’ultima catena di indecisioni e di errori segnò definitivamente le sorti della guerra. In pochi mesi seguirono la gloriosa, ma irrimediabile sconfitta di El Alamein, lo sbarco anglo-americano in Nord Africa, Stalingrado, la perdita definitiva dell’Africa settentrionale.
L’inevitabile fine
Come l’ora più calda della giornata è preparata dal caldo del mezzogiorno, così furono gli orientamenti politici e le decisioni del periodo precedente lo scoppio del conflitto e i gravissimi errori commessi nei primi mesi di guerra a determinare, come automatica, fatale conseguenza, la sconfitta.
Ecco perché, eventi militarmente pur importanti come la crisi del fronte russo dopo Stalingrado, la campagna di Tunisia, quella di Sicilia, non meritano di essere esaminati al fine dell’accertamento delle cause della sconfitta. Essi non potevano più influenzare le sorti del conflitto. In tale clima maturò la congiura in due tempi del 25 luglio e dell’8 settembre. Essa percosse un popolo disciplinato ma deluso, e Forze Armate il cui peso, rilevante se impiegato al momento opportuno, era stato mal dosato ed era ormai ininfluente.
Non incontrò la congiura resistenza alcuna nella dirigenza politico-militare dello Stato. Anzi proprio da essa presero vita gli episodi di dissociazione più gravi. Si erano riannodate le fila di tutto il gruppo già ingaggiato nel 1930, in funzione antitedesca, dal ministro della Real casa, duca Acquarone.
L’opportunismo, la sensazione che era ormai necessario abbandonare la barca che stava affondando, barca che peraltro a lungo aveva assicurato ogni comfort possibile, fecero da cemento ai due filoni della congiura, quello “fascista” e quello dei “militari”, tutti e due composti da “uomini del re”. Anfuso, nostro ambasciatore a Budapest, trovò a Roma Ciano, diventato ambasciatore presso il Vaticano “immerso fino al collo nella congiura fascista, compartimento stagno della congiura generale” e sempre a contatto con Bottai e coi generali dello S. M. Carboni e Castellano.
Sono i giorni in cui Ciano riferisce nel suo diario le parole di uno dei capi della congiura, Dino Grandi: “Non so come ho fatto a contrabbandarmi fascista per 20 anni”. In quel momento l’uomo, che si vantava di essere in frequente contatto col Re, era contemporaneamente presidente della Camera e ministro della Giustizia.
Oltre a Grandi, in prima fila, c’erano Bottai, De Vecchi, De Bono, Bastianini, Acerbo, Albini, Federzoni. Erano tutti uomini appartenenti a quel fascismo regime che De Felice oppone al fascismo movimento; che non si trattasse di autentici fascisti, ma di uomini semplicemente “di destra”, è dimostrato dal fatto che potessero proporre essi stessi un ricambio, la liquidazione del fascismo dal suo interno, accettando un antitetico ritorno al vecchio schema democratico. Dimostrarono questi uomini la più ampia disponibilità a trasferire se stessi, e quanto di meno significativo del fascismo, alla “nuova gestione” con la disinvoltura con la quale successivamente si fusero, senza scosse, coi sopravvissuti della monarchia e più tardi con gli affaristi della partitocrazia.
Né è il caso di insultarli, additandoli come voltagabbana, per aver trovato nel disfacimento sociale, provocato dalla democrazia, un ottimo brodo di coltura. La loro presenza, un tempo, nelle file del movimento fascista dimostra solo quanto poco attento sia stato questo, accettando di considerarli suoi uomini.
Quanto ai militari, si è già detto di Badoglio, Roatta, Carboni. Di Ambrosio, il nuovo capo di Stato Maggiore, vogliamo solo ricordare che il giorno in cui fu annunziato l’armistizio, era assente da Roma perché doveva seguire il trasloco di certi mobili, che da Torino venivano sfollati nella sua villa di campagna. Ci pare che anche qualche nome di ammiraglio vada citato: Pavesi “artefice”della resa di Pantelleria, difesa da 40 batterie e 12.000 uomini; arresosi senza che il nemico nemmeno avesse iniziato lo sbarco. Brivonesi, messo sotto processo per i fatti del 9 novembre 1940, quando volse le terga al nemico rendendosi responsabile dell’affondamento di 7 navi e 2 caccia appartenenti al convoglio affidatogli. Tale referenza gli valse la qualifica di custode di Mussolini, prigioniero alla Maddalena. Maugeri, decorato dagli USA per i preziosi servizi resi nel periodo antecedente l’8 settembre. Leonardi, comandante della piazzaforte di Siracusa-Augusta all’epoca dello sbarco anglo-americano in Sicilia. Questo complesso fortificato munito di 6 poderose batterie, le più potenti del Mediterraneo, capaci di colpire con cannoni da 381 in torre binata, fino a 35 km, era difeso da 17 batterie contraeree e da un treno blindato. Le batterie e persino il treno, che poteva semmai essere allontanato, furono fatti saltare quando ancora il nemico era lontanissimo, e nemmeno una minima avvisaglia di combattimento si era avuta. Non vennero invece fatte saltare le attrezzature portuali, che agevolarono poi le operazioni di sbarco e di rifornimento nemiche. Supermarina definisce in una relazione questi fatti “strenua resistenza”!; quanto al treno, fu “sopraffatto e poi fatto saltare”! In quegli stessi giorni 300-400 aerei venivano distrutti al suolo.
I personaggi politici e militari, che nulla avevano fatto per vincere la guerra, si trovarono ad un certo punto di fronte alle conseguenze della loro insipienza ed all’interrogativo su come farne uscire il paese.
La possibilità di uscire dal conflitto “all’italiana”, capovolgendo le alleanze, fu tentata. Ricorda Giovanni Artieri che il generale Castellano, presentatosi a Lisbona al Gen. Bedel Smith, capo di Stato Maggiore di Eisenhower ed al generale brigadiere Strong “assicurò che gli Italiani volevano un immediato capovolgimento della loro politica, cioè l’abbandono dell’alleanza germanica e l’allineamento ad Inglesi e Americani”. Un memorialista britannico, con sarcasmo, definisce la proposta di Castellano “una nuova combinazione”; “I due ufficiali alleati credevano che Castellano fosse venuto a firmare la resa. Non tardarono molto a capire che il generale italiano desiderava firmare un’alleanza”.
Ma l’unica via di uscita concessa, era quella della resa senza condizioni.
L’unico ostacolo a concluderla fu rimosso dal colpo di stato del 25 luglio. Mussolini infatti si era sì reso conto che la guerra era persa, ma gli va riconosciuto uno stile. Dette infatti miglior prova di sé nella seconda parte del conflitto, quando si adattò a confidare, con amaro realismo, unicamente nelle possibilità dell’alleato, si preoccupò di non mancare agli impegni presi ed affrontò virilmente le conseguenze dei propri errori. Non avrebbe mai consentito il mancare alla parola data, il ritirarsi da una alleanza, col pretesto che proseguire la lotta non era più materialmente possibile, per poi schierarsi, immediatamente, contro l’alleato di ieri, violando ogni senso dell’onore e della dignità nazionale.
Poteva l’incerta prospettiva di evitare alla Nazione qualche danno in più, bilanciare la disistima che un simile agire ci avrebbe accollato?
A parte il fatto che la resa, i danni al paese li accrebbe, l’8 settembre contribuì in effetti a diffondere nel mondo la fama che abbiamo, di commedianti, parolai e sleali, di popolo sul quale, insomma, non si può far conto.
Con Mussolini la Nazione sarebbe stata guidata verso il prevedibile epilogo di una sconfitta con onore. Senza Mussolini avemmo danno e beffe; ci trovammo a marciare sulla strada della vergogna e del tradimento.
Quanto ciò sia vero e sufficiente una testimonianza a dimostrarlo, quella del Gen. Westphall. Il 7 settembre il ministro italiano della Marina, ammiraglio conte De Courten (di quale loggia?), si recò dal Feldmaresciallo Kesselring per comunicargli che la flotta italiana sarebbe salpata l’8 e il 9 da La Spezia “per affrontare la flotta britannica del mediterraneo”. “La flotta italiana – disse con le lacrime agli occhi – avrebbe vinto o sarebbe stata distrutta”. Illustrò quindi nei particolari il preteso piano di battaglia.
Un comportamento di tal fatta, e quelli purtroppo numerosi che ne furono corollario, non risultò “pagante” nemmeno nei confronti degli anglo-americani. Esso generò, com’è logico, solo diffidenza e disistima. Uno storico inglese così commenta la nostra disinvoltura: “Casa Savoia e il suo esercito non hanno mai finito una guerra dal lato in cui l’hanno cominciata, se non quando la guerra è durata tanto a lungo perché essi mutassero due volte”.
Con tali premesse, è comprensibile come la “cobelligeranza” coi nuovi alleati, assumesse da subito aspetti insultanti.
La realtà dei fatti al Sud fu molto diversa dalle panzane diffuse oggi dai documentari del nostro massonico Stato Maggiore; ricorda Agostino degli Espinosa: “i nostri soldati dovettero servire in qualità di facchini, conducenti di salmerie, artieri, manovali. Migliaia e migliaia di giovani italiani vennero impiegati in questi lavori umili, spesso in sottordine a personale militare di colore”.
Quanto deleteria sia stata per l’Italia l’opera dei congiurati del 25 luglio e dell’8 settembre ci è testimoniato dalle stesse fonti storiche alleate: è dimostrato, tra l’altro, che la guerra fu portata sulla penisola proprio a causa della resa. Scrive il colonnello britannico Sheppard, che al gen. Eisenhower fu comunicato, nel luglio 1943, che per fine novembre sarebbero state ritirate dal Mediterraneo e passate in Inghilterra a disposizione per lo sbarco sul continente quattro divisioni americane e tre britanniche, oltre a tre gruppi di bombardieri pesanti USA. Fin dalla metà di ottobre, stessa sorte avrebbe subito l’80% dei mezzi da sbarco. Del generale USA Marshall, che seguiva le direttive del suo ministro della guerra Henry Stimpson, il generale inglese Alexander dice: “non si rende assolutamente conto dei tesori che giacciono ai nostri piedi nel mediterraneo”. Gli USA infatti, non avevano nessuna intenzione di combattere in Italia e insistettero perché tutto lo sforzo alleato gravasse contro la Germania. Le divisioni di Eisenhower avrebbero potuto essere rimpiazzate, tutt’al più, nel giugno 1944.
Era evidente, per tutto ciò, oltre che per il fatto che gli alleati avevano scelto la Sicilia, rinunciando al più strategico promettente sbarco in Sardegna, che l’invasione della penisola non era prevista. Grazie alla resa invece, le truppe anglo-americane furono invogliate a tentare la risalita dall’Italia.
Anche se l’operazione non si rivelò così facile come gli alleati avevano sperato, per il popolo italiano fu un flagello; ad esso si aggiunse l’opera degli antifascisti, che aggravarono il bilancio dei lutti e delle devastazioni, con l’attizzare la guerra civile.
Tragici risultati di una politica di compromessi
Dopo una serie d’incontri con sparring-patner del calibro dell’Etiopia, della Spagna, dell’Albania, salimmo sul ring per un incontro serio, atteso, perché l’Italia a quel tempo faceva titolo, ma soprattutto per l’importanza della posta in palio. La guerra 1940-1945 fu un gigantesco scontro di potenze, la vittoria di un gruppo o dell’altro avrebbe deciso l’avvenire europeo per decenni. Non si trattava di una guerra d’altri tempi il cui esito si concretava nello spostamento di un confine.
Era davvero la lotta del sangue contro l’oro.
Si trattava d’imporre al mondo un modello di sviluppo piuttosto che un altro. Si trattava di garantire alle future generazioni di europei la libertà dal soffocamento mercantile e materialista, un nuovo afflato spirituale, una diversa giustizia tra gli Stati, forme autenticamente sociali, non emarginanti, di partecipazione popolare.
Gravissimo fu pertanto presentarsi ad un appuntamento del genere con una dirigenza politica solo formalmente compatta, ed uno Stato Maggiore, ad essere buoni, inetto. Quando le guerre si fanno, esigono la decisa volontà di vincere, una visione chiara degli scopi da perseguire e dei mezzi da approntare.
La Germania ci dette questo esempio di compattezza politica e di buona funzionalità militare. Lo stesso Hitler creò, affidandone la direzione a Todt, il ministero per l’armamento e per il munizionamento. “Gli fu possibile determinare mensilmente – scrive E. P. Schramm – l’orientamento della produzione e l’entità di qualsiasi tipo di arma o munizione. Lo Stato Maggiore, forniva solamente, mese per mese, elenco delle forniture avute nel mese precedente, situazione, consumi, fabbisogni”. Ma tutto ciò era possibile, dipendeva, dall’aver interamente la situazione, uomini e strumenti di produzione, sotto controllo.
Da noi in Italia si sarebbe, purtroppo dovuto improvvisare.
Non siamo quindi d’accordo con la tendenza ad assolvere gli alti gradi delle FF.AA. implicati negli aspetti più bui della storia di quegli anni. Non accettiamo cioè di considerare, come fa certa storiografia, vittime del regime i protagonisti sul campo della sconfitta. La loro insipienza danneggiò, contemporaneamente, paese e regime.
Tuttavia a nessun altro che a Mussolini, può essere imputata in ultima analisi la cattiva scelta di tali altissimi gradi militari, come è evidente la sua responsabilità nel non essersi saputo assicurare un appoggio pieno, nemmeno dalle gerarchie del partito e dalla burocrazia statale.
Non si può certo accusare Mussolini, dopo tutta una vita spesa onestamente al servizio della nazione, di aver volontariamente condotto l’Italia alla catastrofe. L’infausto risultato, fu determinato dall’aver egli sempre eluso il problema del chiarimento con le forze che lo affiancavano, senza condividerne gli obiettivi. Sopravvalutò la propria abilità politica, pensando di essere sempre in grado di controllare persone ed eventi. Ma questa volta non si trattava di imbrigliare la monarchia, di calmare le frange più estremiste del partito, o di farsi mediatore tra forze sindacali ed industria. La posta in gioco era enorme. Mussolini se ne rese conto anche se tardivamente, ma la realtà italiana, politica ed economica, era quel che era, ed i tempi di guerra non sono tempi di riforme; fu costretto perciò ad agire fruendo di quel che il momento offriva. Non fu in grado di condurre una guerra in piena regola, con tutte le sue implicazioni strategiche ed economiche. Dovette accontentarsi di fare una guerra politica; per non far crollare un faticoso, instabile equilibrio, si mosse con circospezione, ma in maniera tanto sottile e contraddittoria, che fu concesso automaticamente spazio anche a coloro che avevano obiettivi diametralmente opposti ai suoi, e che poterono approfittare delle smagliature offerte dai suoi tatticismi.
Lustri di assurdo accentramento del potere avevano impedito al partito il ricambio, e sclerotizzato ogni apporto di energie nuove. Mussolini giunse al punto di occupare contemporaneamente otto ministeri. Giovanni Giuriati, argutamente, commenta: “come si può immaginare che una sola bacchetta basti a dirigere otto orchestre specializzate nell’eseguire musiche diverse?” e di conseguenza: “un certo numero di organismi amministrativi rimase praticamente senza guida; le persone che sostituivano Mussolini nei singoli incarichi, esercitavano il comando senza assumere la correlativa responsabilità. Mussolini, addossandosi altre ai compiti direttivi anche quelli esecutivi, cessò di essere il capo di una rivoluzione”.
Il partito si era fuso con lo Stato, ma lo stato non era diventato fascista. Non solo il partito rimase completamente esautorato e, come ricorda il De Felice, “privo di autonomia e di iniziativa politica rispetto allo Stato”, ma si fece spazio in esso addirittura agli ex-avversari, si giunse alla follia delle iscrizioni praticamente obbligatorie.
Ed ecco che ci si trovò nel momento cruciale della guerra, in situazioni che non consentivano via di uscita.
Come poter far manifestare al popolo le ragioni di un contorto, machiavellico disegno? Come porre rimedio agli errori iniziali? Come ridar vita ad istituzioni ormai imbalsamate? Come ristabilire l’efficienza e il prestigio delle FF.AA., compromesso dagli insuccessi della guerra parallela e dagli errori strategici e politici che ne avevano guidato l’impiego? Era credibile che si potessero capovolgere le sorti di quella guerra che poteva davvero essere vinta, ma, quando era il momento di farlo, non si era voluto combattere?
Una triste serie di risposte negative, che spiegano l’accettazione passiva da parte del duce degli eventi che precedettero il 25 luglio, e la forza d’animo con la quale, dopo l’8 settembre, quando tutto era perso, accettò di recitare quella parte che era giusto fosse da lui consegnata completa alla Storia.
* * * *
Un ammaestramento politico si può trarre da queste vicende: quello della pericolosità di associarsi a persone o gruppi con legami di fedeltà di tipo internazionalista, si tratti di partiti, centrali finanziarie, ambienti sionisti, logge massoniche.
La collaborazione offerta da simili elementi ad un disegno ovviamente contrastante con il loro reali obiettivi, non può che nascondere la strumentalizzazione o il sabotaggio e condanna inevitabilmente al fallimento.
Meglio quindi pochi passi avanti, nell’assoluta chiarezza delle idee, e nella sicura gradualità, piuttosto che chinare il capo a quei condizionamenti, che assicurano grandi, ma illusori, balzi in avanti.
Meno facciata quindi, e più sostanza!
Nessuna paura, per noi oggi quindi, di apparire isolati a causa di un’intransigenza e di un’opposizione al sistema, veramente liberi e totali. Solo così, ponendo precisi confini tra l’ingannevole discorso democratico e quello alternativo degli uomini liberi, sarà possibile ottenere credibilità, costruire fiducia e consenso.
Articolo tratto da L’UOMO LIBERO N. 7 ANNO II
http://www.italiasociale.net/storia11/storia100311-1.html
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