Da Zeev Sternhell, Né destra né sinistra. La nascita dell’ideologia fascista, Akropolis, Napoli 1984, pp. 15-20; 23-33; 37-38 (ed. or. Ni droite, ni gauche. L’ideologie fasciste en trance, Seuil, Paris 1983). Estratto da “Il Fascismo – Le interpretazioni dei contemporanei e degli storici“, Renzo De Felice.
Lo scopo di questo libro è di proporre un’analisi del fascismo che sia il riflesso della società francese. È quello di tentare di indicare e di comprendere le strutture di un fenomeno politico, di ritrovare la natura di un’ideologia, di rintracciare le caratteristiche di uno spirito e di un temperamento osservando la provetta francese. Il fatto è che la Francia, per uno studio del genere, offre delle condizioni particolarmente favorevoli: l’era fascista è stata, in questo paese, quella dei movimenti e delle ideologie, e non quella di un regime. Poiché è prima di aver conquistato il potere, prima che pressioni e compromessi li trasformino in gruppi governativi simili a tutti gli altri, che i movimenti e le idee offrono la loro immagine più fedele. La natura di un’ideologia politica è sempre più chiara nelle aspirazioni che nell’applicazione.
È in Francia che la destra radicale acquista più rapidamente le caratteristiche essenziali del fascismo; è sempre in Francia che questo processo arriva più rapidamente al suo termine — alla vigilia della grande guerra. La parola non esiste allora, ma il fenomeno è già lì, provvisto di un quadro concettuale ben solido. Per diventare una forza politica non aspetta altro che il fiorire delle condizioni socio-economiche propizie, cioè: una disoccupazione estesa, una classe media impoverita, dei piccolo-borghesi terrorizzati.
L’ondata delle idee fasciste in Francia non può essere messa sul solo conto della guerra. Ancor meno su quello dei successi di Mussolini in Italia o della ascesa del nazismo in Germania. Certamente, anche in Francia la guerra ha svolto il suo ruolo infinitamente importante di catalizzatore delle condizioni psicologiche, economiche e sociali favorevoli al mutamento del pensiero fascista in forza politica, ma essa non ha questo effetto di cesura, sia al livello degli uomini che a quello delle ideologie e dei movimenti, per quanto ci si diverta ad attribuirglielo.
Se non si può imputare alla guerra la nascita del fenomeno fascista, è essenzialmente perché, tutto sommato, il fascismo è nel contempo il risultato di una crisi della democrazia liberale e di una crisi del socialismo.
È una rivolta contro la società borghese, i suoi valori morali, le sue strutture politiche e sociali, il suo modo di vivere.
Il fascismo si presenta così come l’espressione di una rottura che reca tutti i segni di una crisi di civiltà.
Ecco perché il fascismo, nonostante si alimenti di differenti aspetti della crisi del marxismo, non potrebbe nemmeno essere considerato come una semplice immagine riflessa del marxismo, oppure la sua esistenza come una semplice reazione al marxismo: si tratta infatti di un fenomeno che possiede un proprio grado di autonomia, di indipendenza intellettuale.
Fascismo e marxismo hanno un punto in comune: entrambi vogliono la distruzione del vecchio ordine di cose, di cui sono dei prodotti, per rimpiazzarlo con strutture politiche e sociali diverse. È in questo che l’ideologia fascista è un’ideologia rivoluzionaria. Anche se non intende attaccare tutte le strutture economiche tradizionali, anche se intende colpire solo il capitalismo e non la proprietà privata e la nozione di profitto.
In una società borghese che pratica la democrazia liberale, un’ideologia che spinge l’esaltazione dello Stato fino a identificarlo con la nazione e afferma il primato del politico fino a concepire lo Stato come unico signore di tutta la vita sociale e di ogni valore spirituale, un’ideologia che si concepisce, in ultima analisi, come l’antitesi del liberalismo e dell’individualismo è un’ideologia rivoluzionaria.
Un’ideologia che preconizza una società organica non può essere che refrattaria al pluralismo politico, così come non può che rifiutare le forme più palesi dell’ingiustizia sociale.
La stessa nozione di fascismo richiama un certo numero di osservazioni. In effetti, poche parole del vocabolario politico hanno avuto un successo maggiore della parola « fascismo »; eppure poche nozioni della terminologia politica contemporanea si distinguono per dei contorni così vaghi e così discussi.
Impiegata nel suo senso più ristretto, la parola può semplicemente designare il regime politico italiano nel periodo fra le due guerre; ma, ed è diventato banale, può essere anche impiegata come invettiva politica: allora diventa l’ingiuria suprema, rivolta con facilità a qualsiasi avversario.
È così che pochissimi sono i leaders politici importanti del XX secolo che, in un momento o in un altro, non siano stati i fascisti di qualcuno. Meno numerosi ancora sono i movimenti politici ai quali l’epiteto ingiurioso non sia mai stato applicato. Che significa allora « fascismo »? E chi è fascista quando, per i comunisti, i socialisti sono dei « socialfascisti » e quando i conservatori italiani, gli Junker prussiani e le Croix de feu francesi sono a loro volta trattati da « fascisti » da quegli stessi che lo sono per i marxisti ortodossi?
Ancora oggi che opere notevoli si permettono di delineare il caso del fascismo in un modo che era completamente impossibile nel passato, non esiste ancora una definizione accettabile per tutti e riconosciuta come universalmente valida.
In relazione al socialismo e al comunismo, il fascismo resta ancora un campo relativamente poco esplorato. Il suo carattere estremamente eterogeneo non fa altro che offuscare a priori una nozione politica già sufficientemente ambigua. Nel periodo fra le due guerre, il fascismo — che è anche, ma non soltanto, una forma di nazionalismo esacerbato, quindi di particolarismo estremo — prolifera sia nei grandi centri industriali dell’Europa occidentale che nei paesi sottosviluppati dell’Europa orientale.
Ed esercita la sua attrazione sui contadini analfabeti così come sui primi intellettuali del periodo. Cosicché, non potendo richiamarsi a istanze sociali ben definite, il fascismo sembra mancare di consistenza, di superficie, se non di realtà. Inoltre, le sue radici intellettuali sono poco chiare e si prestano a confusione. È normale che ciò porti alcune persone a mettere seriamente in dubbio la possibilità di giungere a un concetto del fascismo che possegga tutte le qualità della precisione scientifica, e altre, poco inclini a misurarsi con le difficoltà, a negare l’esistenza stessa del fascismo, cosa che è assai meno ragionevole.
Ma queste difficoltà sono davvero inferiori per quanto riguarda la democrazia o il socialismo? Non sono inerenti, al contrario, a qualsiasi sforzo di concettualizzazione senza il quale non vi è una vera conoscenza storica? E i concetti stessi non sono troppo ampi per le parole che sono ritenute atte a comprenderli? E’ certo che non esiste un solo esempio di realtà storica che sia conforme a un « modello » o a un « tipo ideale » (nel senso weberiano del termine) di democrazia, di socialismo e di comunismo.
Il caso del fascismo non è diverso: l’Italia degli anni venti o trenta non può aspirare alla qualità di Stato fascista « ideale », né il Parti Populaire Francais, la British Union of Fascists o la Legione dell’Arcangelo Michele a quella di partito fascista ideale.
Certamente, nei confronti del comunismo e del socialismo, il fascismo ha una debolezza fondamentale: non possiede una origine unica che possa essere comparata al marxismo.
Se comunismo e socialismo presentano varianti regionali molto diverse, spesso opposte e antagonistiche, è però sempre all’interno della matrice marxista che queste varianti devono inquadrarsi. Una matrice del genere non esiste nel caso del fascismo ed è al ricercatore che è affidato il compito di trarre il denominatore comune, il minimum fascista, di cui sono partecipi non soltanto i diversi movimenti e ideologie politiche che si richiamano al fascismo, ma anche quelli che rifiutano l’epiteto ma tuttavia appartengono alla famiglia.
Per ciò che concerne l’ideologia fascista propriamente detta, le difficoltà sono ancora più considerevoli. Infatti, per moltissimi anni era luogo comune considerare il fascismo o come totalmente privo di un sistema di idee, oppure come mascherato, per i bisogni della causa, di una parvenza di dottrina che quindi non si sarebbe potuta prendere sul serio e alla quale non si sarebbe potuto dare il minimo d’importanza che si accorda di solito alle idee professate da ogni movimento politico.
Questo atteggiamento forse non era del tutto estraneo a un rifiuto fondamentale di vedere nel fascismo qualcosa di diverso da un incidente della storia europea: conferirgli una dimensione teorica sarebbe stato come riconoscergli nella storia del nostro tempo un peso e un’importanza che si era poco disposti a riconoscergli, sia a destra che a sinistra, per ragioni affini o opposte.
Ammettere che il fascismo era ben altro che una semplice aberrazione, un caso, se non un accesso di follia collettiva, e un fenomeno da spiegare semplicemente con la crisi economica; constatare che movimenti fascisti autoctoni esistevano praticamente in tutti i paesi d’Europa, che non erano una semplice imitazione, o una caricatura, del movimento italiano; ammettere che un corpo di dottrina non meno solido o logicamente sostenibile di quello dei partiti democratici o liberali sosteneva i gruppi armati di Roma e di Bucarest, di Parigi e di Londra, di Berlino e di Vienna; riconoscere infine che le idee professate non erano unicamente appannaggio di scarti della società sbucati dai bassifondi delle grandi capitali europee e manipolati dall’alta finanza internazionale, avrebbe dovuto esigere una revisione di tutta una serie di valori, di tutta una serie di ragionamenti. E questo si era restii a farlo.
Sotto questo aspetto, l’interpretazione marxista ufficiale del periodo fra le due guerre, secondo la quale il fascismo non sarebbe stato altro che una creatura del capitalismo monopolista, e la sua ideologia una semplice razionalizzazione degli interessi imperialisti, avrebbe costituito l’ostacolo maggiore a una comprensione globale del fenomeno. Per molto tempo, in effetti, l’idea secondo la quale il fascismo poteva essere un fenomeno di massa sostenuto da un’ideologia che rifletteva la realtà — e le contraddizioni — della società moderna era inconcepibile — quindi insostenibile — per chiunque rifiutasse di passare per un alleato «oggettivo » del fascismo.
Per molti anni, la ricerca non poteva che subire il contraccolpo di un atteggiamento che, pur tranquillizzando la coscienza di un settore importante dell’opinione pubblica, ha avuto come conseguenza quella di paralizzare i tentativi di una analisi più approfondita di un fenomeno capitale del nostro tempo.
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Per ciò che riguarda le origini del fenomeno studiato, gli ultimi anni del decennio 1880 costituiscono il punto di partenza necessario. È allora che appaiono pubblicamente i sintomi essenziali di un’evoluzione intellettuale senza la quale il fascismo non sarebbe mai stato capace di costituirsi; è sempre allora che si forma, per la prima volta, questa sintesi di un nazionalismo di nuovo tipo e di una certa forma di socialismo. Sintesi nella quale Georges Valois così come Pierre Drieu La Rochelle e Paul Marion, Mussolini, Gentile e Oswald Mosley, riconosceranno sempre l’essenza del fascismo. È in questi anni che il fenomeno fascista incomincia a prender forma.
Un’analisi di quest’epoca attesta nello stesso tempo le radici nazionali del fascismo francese, la sua indipendenza intellettuale in riferimento ad altri movimenti fascisti, e la qualità intrinseca del fascismo come categoria universale a cui si rifanno diversi movimenti nazionali. Questo periodo è testimone ugualmente della rapidità con la quale era maturata l’ideologia fascista, così come della continuità di questa parentela spirituale nella Francia e nell’Europa del XX secolo.
Certamente, mai il fascismo in Francia è giunto a impadronirsi del potere: la destra tradizionale qui era abbastanza potente per salvaguardare da sola i propri interessi. Accade d’altronde così ovunque in Europa: i fascisti non giungono mai a far vacillare veramente le fondamenta dell’ordine borghese. A Parigi come a Vichy, a Roma come a Vienna, a Bucarest, a Londra, a Oslo o a Madrid, i conservatori sanno perfettamente ciò che li separa dai fascisti e non sono vittime di una propaganda che mira ad assimilarli.
L’ammiraglio Horthy, i generali Antonescu e Franco, il re Vittorio Emanuele, i conservatori belgi e britannici, come il colonnello-conte La Rocque, il maresciallo Pétain e Pierre-Etienne Flandin, comprendono magnificamente che Szàlasi, Codreanu e José Antonio, Mussolini, Degrelle e Oswald Mosley, così come Doriot, Déat, Bucard, Drieu e Brasillach, sono una mentalità e delle forze che non trovano grazia ai loro occhi se non per il gioco delle circostanze. Infatti, né gli uni né gli altri hanno lasciato che la confusione continuasse. Ognuno si è sbarazzato dell’altro non appena l’opportunità se ne è presentata.
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Per gli uomini che nel periodo fra le due guerre entrano in rivolta contro l’ordine costituito, l’alleanza dei soreliani e dei maurrassiani resta il tipo ideale di sintesi, l’unica in grado di rompere l’accordo repubblicano, di far da contraltare alla collusione « dei capi rivoluzionari, dei politici e dei finanzieri ». Tradizionalmente, dal tempo dei blanquisti al tempo del boulangismo e fino agli awersari del Fronte Popolare, ex maurrassiani, ex socialisti ed ex comunisti, è così che si definisce ogni forma di difesa repubblicana.
Poiché aveva denunciato più violentemente di chiunque altro la socialdemocrazia, nella quale aveva riconosciuto la chiave di volta di un sistema basato sull’accettazione da parte del proletariato delle regole del gioco della democrazia liberale, Sorel, questo « vecchio lottatore proletario », appare, al momento del trionfo della socialdemocrazia, durante l’estate del 1936, come il profeta di ogni tentativo futuro di rompere questo accordo contro natura, per attirare « le truppe che oggi questo socialismo verboso, politico, corrotto, turba ».
È per mettere in pratica la sintesi socialista-nazionale che maurrassiani e sindacalisti rivoluzionari fondano nel dicembre del 1911 il Circolo Proudhon. Questo circolo è senza alcun dubbio una delle manifestazioni più significative dell’eredità trasmessa dall’anteguerra alla generazione che uscirà dalle trincee. Animato da Georges Valois, maurrassiano di origine anarchica che diventerà fascista, e dal sindacalista rivoluzionario Edouard Berth che, all’indomani della guerra, si avvicinerà al comunismo, il Cercle Proudhon raccoglie nazionalisti e sindacalisti per i quali «la democrazia è il più grande errore del secolo scorso » poiché ha permesso lo sfruttamento più vergognoso dei lavoratori, l’istituzione del regime capitalista e quindi la sostituzione delle «leggi dell’oro alle leggi del sangue ». E per questo, « se si vuoi conservare ed accrescere il capitale morale, intellettuale e materiale della civiltà, bisogna assolutamente distruggere le istituzioni democratiche ».
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Al posto dell’ideologia borghese e come alternativa al socialismo democratico, il gruppo del Circolo Proudhon propone una nuova etica che favorisce la sintesi sindacalista e nazionalista fatta dai « due movimenti, sincronici e convergenti, l’uno all’estrema destra, l’altro all’estrema sinistra, [che] hanno iniziato la demolizione e l’assalto alla democrazia ».
La loro soluzione vuole quindi sostituirsi totalmente all’ordine liberale. Essa vuole essere creatrice di un mondo nuovo, forte, eroico, pessimista e puritano, basato sul senso del dovere e del sacrificio, un mondo in cui prevale una morale di guerrieri e di monaci; vuole una società dominata da una potente avanguardia, un’élite proletaria, un’aristocrazia di produttori alleata, contro la borghesia decadente, a una gioventù intellettuale assetata di azione. Non sarà necessaria che una piccola aggiunta a questa sintesi per prendere, giunta l’ora, il nome di fascismo.
Più o meno, la generazione del 1930 riprende, ampliandole, le preoccupazioni che furono quelle degli uomini del 1890. È vero che fra queste date i problemi fondamentali non erano assolutamente cambiati; la vittoria li aveva momentaneamente mascherati ma le crisi globali degli anni venti e trenta li avevano considerevolmente aggravati. In più, il carattere europeo se non planetario delle crisi — la crisi rivoluzionaria dei primi anni venti, la crisi economica e finanziaria della fine dello stesso decennio, la crisi internazionale continua e la corsa alla guerra durante tutti gli anni trenta — crea una tensione permanente che fa dire ad alcuni che « la crisi è nell’uomo » e ad altri che si è a una crisi delle vecchie cose, una crisi strutturale, una crisi « totale »: crisi del capitalismo, della società borghese, della democrazia liberale.
Gli uni e gli altri, ognuno a modo suo, si lanciano daccapo in una battaglia che prima di essi la generazione del 1890 aveva condotto: sin dalle prime scosse del boulangismo e fino all’agonia della III Repubblica, sono le strutture di una società, di un modo di vivere, di una determinata civiltà che sono messe in discussione.
Così, all’inizio del XX secolo, la Francia è un vero laboratorio di idee in cui si forgiano le sintesi originali del nostro tempo. È sempre in Francia che hanno luogo le prime battaglie che mettono il sistema liberale alle prese con i suoi avversari. Così, è in Francia che si opera questa prima sutura del nazionalismo e del radicalismo sociale che fu il boulangismo. È ancora qui che si vedono apparire sia i primi movimenti di massa di destra come la « Lega dei patrioti », la « Lega antisemitica » o il « movimento giallo », sia questo primo gauchisme, rappresentato da un Hervé o da un Lagardelle, che finirà per condurre i suoi militanti alle porte del fascismo.
Prodotti di una crisi del liberalismo, una delle più profonde che abbia conosciuto la coscienza europea, queste correnti di pensiero che si combattono e si intrecciano finiscono per reincontrarsi alla vigilia della guerra. Lo spirito fascista raggiunge allora la sua maturità. È in Francia infine che si manifesterà, con un’ampiezza paragonabile soltanto a quella italiana prima del 1918, un fenomeno senza il quale la comprensione del fascismo non è possibile: lo slittamento a destra di elementi socialmente avanzati ma fondamentalmente contrari alla democrazia liberale.
Ciò poiché in Francia il fascismo ha le sue origini e i suoi uomini, sia a destra che a sinistra, molto spesso più a sinistra che a destra. Certamente accade lo stesso altrove in Europa. Così, l’impegno del ministro laburista Oswald Mosley in Gran Bretagna, della pleiade di sindacalisti rivoluzionari italiani intorno a Mussolini, oppure l’accoglienza riservata al nazismo da parte di Henri de Man, presidente del partito operaio belga, concordano con le reazioni dei militanti doriotisti, degli uomini di Déat o di alcuni collaboratori di Bergery.
Eppure, da nessuna parte come in Francia si registrano dei cambiamenti di rotta così numerosi, spettacolari e anche naturalmente logici. La discendenza è lunga e continua dai radicali di estrema sinistra al tempo del boulangismo, a Déat e Doriot e alle migliaia di militanti socialisti e comunisti che gravitano intorno ad essi, passando per Sorci, Lagardelle o Hervé. Nessun altro partito comunista perde in favore di un partito fascista un tal numero di membri del suo ufficio politico quanti ne perde il PCF. Dal boulangismo alla collaborazione, la sinistra francese non ha mai smesso di alimentare le formazioni di destra e di estrema destra, i movimenti prefascisti o già pienamente fascisti. È questa una delle costanti della vita politica francese, così come uno degli elementi essenziali della spiegazione della genesi e della natura del fascismo in Francia.
La volontà di rottura dell’ordine liberale è il filo conduttore che unisce la rivolta boulangista dei blanquisti, degli ex comunardi e dei radicali di estrema sinistra, a quella, fascisteggiante o già pienamente fascista, dei neo-socialisti, dei frontisti o degli uomini del partito popolare francese. Per gli uni e per gli altri, ciò che conta davvero non è la natura della rivoluzione, ma il fatto rivoluzionario. Per gli uni, così come per gli altri, la natura del regime che succederà alla democrazia liberale interessa molto di meno alla fine della stessa democrazia liberale.
Al centro di questo processo di slittamento da sinistra a destra si trova sempre la rimessa in discussione globale dell’ordine costituito. Dal momento che, se, in tutta l’Europa, l’estrema sinistra rappresenta la forza rivoluzionaria tradizionale, appare chiaro che questo carattere sovversivo del socialismo resta soprattutto teorico. Ognuno a suo tempo e a suo modo, i diversi movimenti socialisti prendono la strada della socialdemocrazia, che è quella del compromesso con l’ordine costituito. In Francia, l’affare Dreyfus non fa altro che confermare quest’evoluzione suggellando l’alleanza del socialismo e del centro borghese per la difesa dell’ordine liberale. Scegliendo la collaborazione con la borghesia liberale, il socialismo francese, nel suo insieme, getta le basi di una politica che non si smentirà più per tutto il XX secolo.
Questo slittamento da sinistra a destra, tre generazioni lo ripeteranno, in seguito. Alla fine degli anni 1880, blanquisti, diversi comunardi e radicali d’estrema sinistra si lanciano nel boulangismo perché vi vedono innanzitutto il mezzo per abbattere la repubblica borghese e liberale. Il regime, di cui questa fu la prima grande battaglia, conta allora i possibilisti fra i suoi difensori. Per la prima volta in Europa, la destra del movimento socialista si allea con il centro liberale. Il sistema delle alleanze fra i moderati, così come il processo d’integrazione della socialdemocrazia nel sistema liberale, verrà istituito da allora in poi per più di 50 anni.
Allo stesso modo si effettua in quel tempo, per il tramite della rivolta boulangista e nazionalista degli ultimi anni del secolo, una sintesi del radicalismo sociale e del radicalismo nazionale. I gauchistes dell’epoca — un Rochefort, un Granger, un Roche, un Laisant, un Naquet — se la prendono con gli abusi della società borghese, e i nazionalisti di Déroulède e gli uomini della « Lega dei patrioti » vanno all’assalto delle debolezze della democrazia parlamentare. Tutti, in ogni caso, si trovano facilmente d’accordo nel designare il liberalismo come il nemico prioritario.
La seconda generazione di transfughi ha iniziato il suo mutamento prima della grande guerra. Per alcuni di loro, la guerra nelle sue cause o conseguenze non cambierà nulla a un processo di slittamento, per altri non farà che accelerarlo, e null’altro. Quattro nomi sono rappresentativi di questo secondo gruppo: Sorel, Berth, Lagardelle e Gustave Hervé. Arturo Labriola e Robert Michels rappresentano i contestatori stranieri, coloro che prendono parte al lavoro teorico fatto dal gruppo del « Mouvement Socialiste ». Diretta da Lagardelle, questa rivista resta una delle migliori che siano mai state pubblicate in Europa, e l’influenza dei suoi collaboratori sull’evoluzione dell’estrema sinistra sindacalista è considerevole.
La teoria del socialismo etico sviluppata dalla scuola sindacalista rivoluzionaria domina all’epoca questa rivolta, diretta nel contempo contro la democrazia liberale e la socialdemocrazia. La sintesi soreliana delle due forze che si oppongono alla democrazia liberale, socialismo e nazionalismo, precede la guerra e si effettua senza alcuna relazione con essa. Il socialismo soreliano è in sé già una forma di revisionismo che ha appena constatato il fallimento del determinismo marxista: la società industriale non si evolve come dovrebbe, la polarizzazione non si produce e il proletariato perde la sua combattività.
Nulla è più spregevole agli occhi di Sorel dell’ortodossia marxista, simboleggiata da Kautsky, dell’immobilismo di questa sinistra che trova nel rispetto di un marxismo paralizzato, ossificato nelle sue vecchie formule, di che scusare la propria impotenza. Di fronte a Kautsky, Sorel preferisce già il partito di Bernstein: a dire il vero, è con l’autore di Réflexions sur la violence che inizia il processo di superamento del marxismo che culmina con Au-delà du marxisme di Henri de Man e in Perspectives socialistes di Marcel Déat. Questo processo di superamento, di cammino al di là del marxismo, conduce infatti spesso fuori — e ben lontano — dal marxismo.
Eppure, il socialismo concepito in termini etici elaborato da Sorel, Michels, Arturo Labriola, costituisce un rapporto essenziale, poiché sta per svolgere un ruolo molto importante nell’evoluzione della sintesi socialista-nazionale, alla vigilia del 1914 così come nel periodo fra le due guerre. Ben presto sembra che una visione del socialismo in termini di valori universali, indipendenti dalle condizioni storiche concrete, una concezione del socialismo in termini vitalisti, intuitivi, nietzschiani e bergsoniani, eserciti un’influenza specifica nell’evoluzione dell’ideologia marxista.
In effetti, il socialismo soreliano insiste sin dall’inizio sulla dimensione etica del marxismo, mette l’accento sul contenuto morale del pensiero marxiano in qualità di strumento di analisi storica e di trasformazione sociale. Sorel non esita a criticare globalmente l’aspetto determinista del marxismo, di cui deplora il lato materialistico e meccanicistico. Più approfondisce la sua critica della volgarizzazione marxista, di quell’ortodossia che considera d’altronde come la meno concordante e la meno fedele alle intenzioni intime di Marx, più si eleva con una violenza sempre crescente contro la derivazione socialdemocratica alla Jaurès.
In realtà, questo socialismo subisce una metamorfosi. Nonostante il suo legame formale col sindacalismo operaio, evolve verso un tentativo di rigenerazione morale della società nel suo insieme e di salvataggio della civiltà, molto più che verso un movimento di liberazione della classe operaia. Il revisionismo soreliano costituisce in effetti un revisionismo idealista e il suo linguaggio laburista non cambia volto alla cosa. La facilità con la quale si compie lo slittamento di Sorel verso il nazionalismo e l’antisemitismo qualche anno appena dopo le Réflexions dimostra quanto fosse superficiale questo laburismo anti-intellettualistico.
In realtà, questo socialismo etico è alimentato da apporti nietzschiani e bergsoniani, così come subisce l’influenza di Gustave Le Bon, di Croce e di Pareto. Esaminando da vicino la teoria dei miti di Sorel, ci si rende conto che secondo essa il socialismo è ben più che un movimento operaio, il socialismo non è soltanto la creazione di una classe ben determinata della società moderna, ma uno sforzo ideologico verso un ordine umano diverso.
Il rinnovamento spiritualista ed etico, che è una necessità per il marxismo d’inizio secolo, così come lo sarà negli anni trenta, costituisce una svolta cruciale. In effetti, esso permette di concepire il socialismo indipendentemente dalla classe operaia: si dimostra che può esserci un socialismo senza proletariato. Per i sindacalisti rivoluzionari, per i contestatori, nel periodo fra le due guerre, il socialismo appare in definitiva di natura più pedagogica che economica e logicamente indifferente all’antagonismo fra le classi. Ne risulta, in ultima analisi, che la relazione fra socialismo e proletariato non è essenziale.
Come non tutti i movimenti operai sono socialisti, non tutti i socialisti sono proletari, e il socialismo non fa parte necessariamente di una struttura sociale determinata. Esiste un socialismo di sempre, un socialismo « eterno », ripeteranno gli uomini della generazione fra le due guerre, un socialismo per tutti gli uomini, per tutti i tempi. Sin dal momento in cui essi, come un tempo i sindacalisti rivoluzionari, perdono la fede nelle virtù rivoluzionarie del proletariato, si volgono verso la sola forza storica che è ancora suscettibile di servire come agente di rigenerazione morale e di trasformazione sociale.
Giunto il momento, la nazione prende il posto del proletariato, e il passaggio logico dal sindacalismo rivoluzionario al socialismo nazionale si compie in modo assolutamente naturale. Nel momento in cui diviene chiaro che il proletariato non possiede né i mezzi, né l’energia, né la volontà per svolgere il ruolo di salvatore dei valori eroici, è sostituito da quella che sembra essere la grande forza in ascesa, la nazione, in tutte le sue classi riunite.
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La conclusione è dunque semplice: poiché democrazia e borghesia sono incastonate l’una nell’altra, poiché la democrazia costituisce l’arma offensiva più efficace che sia stata mai inventata dalla borghesia, è necessario per stroncare la società borghese distruggere la democrazia. La democrazia, dicono un Lagardelle, un Sorel, un Berth o un Hervé, non solo non serve al socialismo — come crede Jaurès —, ma ne è il nemico mortale. Così come, diranno Maurras e Valois, mette in pericolo di morte la nazione. Socialismo e nazionalismo scoprono così il loro comune nemico la cui scomparsa è indispensabile alla loro stessa esistenza.
Con la rivolta contro l’ordine stabilito e la presa di coscienza del dato nazionale, la terza fonte alla quale si alimenta il fenomeno dei transfughi — lo si è già visto per Sorel — è una certa forma di a-marxismo, di anti-marxismo e, infine, di revisionismo post-marxista. Il socialismo nazionale, senza il quale non esiste fascismo, emerge sin dalla fine degli anni 1880, e la tradizione si perpetua in modo continuo fino alla seconda guerra mondiale. Perché, e questo è un fatto cui si accorda generalmente poca attenzione, le correnti opposte alla ortodossia marxista furono fino ad allora, in seno al socialismo francese, molto potenti.
Solo dopo essere affondato nella collaborazione il socialismo a carattere « nazionale » sarà definitivamente screditato, e la sua legittimità ha cominciato a essere messa in dubbio solo molto tardi, verso il 1930, allorché l’epiteto di « neo-socialista » è affibbiato dalla sinistra della SPIO alle idee sviluppate da Marcel Déat in Perspectives socialistes. Si è dovuto attendere il 1933 perché il gruppo della Vie socialiste, sotto la leadership nominale di Renaudel, intimo collaboratore di Jaurès, ma in effetti condotto e dominato da Déat, fosse escluso dalla « Vecchia Casa ».
La sinistra socialista non è la sola ad alimentare le formazioni fasciste o fascisteggianti: anche il centro liberale fa la sua parte, tanto nella persona di Bertrand da Jouvenel quanto in quella di Gaston Bergery. I due « giovani Turchi » del radicalismo — il primo sarà l’economista ufficiale di Jacques Doriot e il secondo ambasciatore del maresciallo Pétain — svolgono un ruolo che è lungi dall’essere trascurabile nella formazione di un certo spirito fascista. Ricordiamo solamente gli apporti di Jouvenel al versante pianificatore e tecnocratico del fascismo e quello di Bergery all’idea che bisogna fare la guerra alla borghesia liberale nel proprio ambito e non la « guerra ideologica » ai dittatori.
Eppure, è sempre la revisione del marxismo a costituire la dimensione ideologica più significativa del fascismo. D’altronde, per molti versi, si potrebbe scrivere la storia del fascismo come quella di un incessante tentativo di revisione del marxismo, di una tensione permanente verso un neo-socialismo. Da Sorel a Déat e a Henri de Man, la cui influenza sul socialismo francese è considerevole, si fa costantemente luce un medesimo fenomeno: la volontà di superare il marxismo.
Ma, per riprendere il titolo dell’opera più importante dell’autore belga, andare « al di là del marxismo » finisce col condurre al di fuori del marxismo. L’opera di Georges Sorel — così come quella di Arturo Labriola e dei sindacalisti rivoluzionari italiani — non è niente altro che un superamento « da sinistra » del marxismo, mentre quella di Déat e di Henri de Man è una revisione del marxismo da parte della destra. Le soluzioni proposte dagli uni e dagli altri sono radicalmente diverse, ma i motivi fondamentali sono identici. Proprio come i risultati politici nei quali sfociano le due forme di revisione.
In effetti, dall’inizio del secolo, la grande questione in base alla quale si dividono gli ortodossi e i dissidenti, di destra o di sinistra, è sempre la stessa: è il marxismo classico ancora capace di svolgere il ruolo di fattore di trasformazione sociale? Resta esso il fattore privilegiato di spiegazione e di analisi storica? Permette di prevedere il futuro? Nel caso dei revisionisti di sinistra, come nel caso di tutti quelli che vengono da destra, la risposta è, a livelli diversi, negativa.
È così che Sorel, a metà di una carriera già molto feconda, scrive nel 1906 le Réflexions sur la violence, che restano ancora oggi un classico del revisionismo, ma di un revisionismo di sinistra, volontaristico e vitalista. Cinque anni più tardi, Sorel ispira la creazione del Circolo Proudhon, e i suoi scritti dell’epoca sono già francamente fascisti. Il processo di slittamento verso il fascismo si compie così prima della grande guerra e senza alcun rapporto con essa. Giunge a conclusione nel momento in cui, nello spirito di Sorel e dei sindacalisti rivoluzionari di Francia e d’Italia, si matura la convinzione che il marxismo non da una vera risposta alla crisi del capitalismo e che il proletariato non è il portatore della rivoluzione.
Progressivamente, e non soltanto in teorici come Sorel o come Berth, ma anche in militanti autentici come Janvion, nasce l’idea secondo la quale il fattore rivoluzionario, quello che abbatterà finalmente la democrazia liberale, è la nazione e non il proletariato. Contemporaneamente a Sorel pervengono a questa stessa conclusione i sindacalisti rivoluzionari in Italia: essi si gettano nella guerra con ardore, non per furore patriottico, come spesso si pensa, ma perché vedono in essa una macchina rivoluzionaria. Ora, la guerra costituisce un conflitto fra nazioni e non tra classi: è così che la nazione diventa l’agente privilegiato della rivoluzione, e il sindacalismo rivoluzionario italiano, la colonna vertebrale dell’ideologia fascista.
Il revisionismo « di sinistra » non andrà oltre la guerra. Negli anni che seguono l’armistizio fiorirà una forma molto diversa di revisionismo, più vicina a prima vista alla tradizione Bernstein, ma in effetti improntata già di tutt’altro spirito. Un revisionismo « pianificatore », « tecnocratico », « manageriale », che concepisce tra il capitalismo tradizionale e la rivoluzione proletaria una terza strada: saranno i famosi regimi intermedi di cui parlerà Marcel Déat.
Tuttavia tutte le varianti del revisionismo si muovono in uno stesso quadro concettuale che ne costituisce il denominatore comune e ne assicura la continuità di andatura: il rifiuto del materialismo. Il materialismo liberale e borghese è tanto biasimato quanto il materialismo marxista e proletario: su questo punto sono d’accordo, dall’inizio del secolo in poi, tutti i contestatori senza eccezione.
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I movimenti fascisti — tutti i movimenti fascisti — partecipano di una stessa genealogia: una rivolta contro la democrazia liberale e la società borghese, un rifiuto assoluto di accettazione delle conclusioni inerenti alla visione del mondo, alla spiegazione dei fenomeni sociali e delle relazioni umane di tutti i sistemi di pensiero detti « materialisti ». L’ondata fascista appare come una delle escrescenze della crisi del marxismo e della crisi del liberalismo, come una delle conseguenze delle enormi difficoltà che incontrano sia il marxismo che la democrazia liberale, davanti alle realtà del XX secolo.
Emerge così, dalla realtà storica del mezzo secolo che precede la seconda guerra mondiale, l’essenza del fascismo: una sintesi di nazionalismo organico e di socialismo anti-marxista, un’ideologia rivoluzionaria fondata sul rifiuto tanto del liberalismo quanto del marxismo e della democrazia. In ciò che ha di essenziale, l’ideologia fascista costituisce un rifiuto del «materialismo» — il liberalismo, il marxismo e la democrazia non rappresentano che le due facce dello stesso male « materialista » — e si vuole generatrice di una rivoluzione spirituale totale.
L’attivismo fascista, innamorato dell’elitismo, preconizza un potere politico forte, libero dagli impicci della democrazia: emanazione della nazione, lo Stato rappresenta la società in tutte le sue classi radunate. Il pianismo, il dirigismo economico, il corporativismo costituiscono un elemento di primaria importanza nel pensiero fascista, in quanto traducono in termini concreti la vittoria del politico sull’economico e pongono tutte le leve di comando dell’economia e della società fra le mani dello Stato.
Ideologia di rottura per eccellenza, il fascismo significa il rifiuto di una certa cultura politica associata all’eredità del XVIII secolo e della rivoluzione francese, e intende gettare le basi di una nuova civiltà. Una civiltà comunitaria, anti-individualistica, la sola capace di assicurare la perennità di una collettività umana in cui siano perfettamente integrati tutti gli strati e tutte le classi della società.
Il contesto naturale di questa collettività armonica, organica, è la « nazione ». Una nazione che goda di un’unità morale che il liberalismo e il marxismo, entrambi fattori di dissociazione e di guerra, non potrebbero mai assicurarle. Sono queste le componenti maggiori del « minimo comun denominatore » fascista: il fascismo attinge in effetti la sua forza dalla sua universalità, dal suo carattere di prodotto di una crisi di civiltà.
La storia del fascismo è anche sotto molti aspetti la storia di una volontà di ammodernamento, di ringiovanimento e di adattamenti di sistemi e di teorie politiche, ereditati dal secolo precedente, alle necessità e agli imperativi del mondo moderno. Conseguenza di una crisi generale i cui sintomi appaiono chiaramente sin dalla fine del secolo scorso, il fascismo si struttura attraverso tutta l’Europa. I fascisti sono tutti perfettamente convinti del carattere universale della corrente che li guida, e la loro fiducia nell’avvenire è sin da allora irremovibile.
Tuttavia, se l’ondata fascista si estende all’insieme dell’Europa, le sue conseguenze non sono dappertutto le stesse. Bisogna non perdere il senso delle proporzioni e non dimenticare che, se la destra rivoluzionaria riporta una vittoria eclatante in Germania e in Italia, non avviene lo stesso in Francia, dove dal boulangismo fino a Vichy, incontestabilmente essa non costituisce che una corrente minoritaria.
I rivoluzionari e i contestatori svolgono un ruolo di un’importanza capitale nella formazione di una certa sensibilità, di una certa mentalità, molto largamente diffusa, ma devono attendere l’estate del 1940 per vincere l’ultima di questa lunga serie di battaglie. Conviene dunque tenere sempre presente il fatto che, da una parte, la pressione esercitata dalla destra radicale ha un grande peso nella vita politica francese, ma che, d’altra parte, la società francese oppone alla pressione di questa corrente rivoluzionaria una resistenza che non ha riscontro né oltre Reno né oltr’Alpe.
da ASSOCIAZIONE CULTURA FASCISTA
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