sabato 17 maggio 2014

IL PIEMONTE È STATO IL "PADRE" DEL DEBITO PUBBLICO

IL PIEMONTE È STATO IL "PADRE" DEL

DEBITO PUBBLICO ITALIANO

AL SUD, INVECE, I BORBONE AVEVANO

I CONTI IN ORDINE

E UNA STRUTTURA ECONOMICA NETTAMENTE PIÙ AVANZATA


di

Nicola D’Antuono
 
Il “padre” dell’enorme debito pubblico italiano può essere considerato il regno dei Savoia, che alla vigilia delle guerre di indipendenza aveva i conti pubblici in dissesto e spesso comunicati in modo poco trasparente. Al Sud, invece, il Regno delle Due Sicilie era un esempio di virtuosità e di rigore di bilancio, come sottolineato anche dal famoso economista napoletano Giacomo Savarese, spettatore delle vicende legate al debito pubblico dei due principali regni italiani pre-unificazione. Di certo gli oltre 2.100 miliardi di euro di debiti (non le vecchie lire o i ducati ottocenteschi) della Repubblica Italiana di oggi non sono stati ereditati dai Savoia, ovvero dal Regno di Sardegna. Tuttavia, la gestione dei conti pubblici ha per più di un secolo e mezzo mantenuto quell’impronta, accollandosi così un’eredità decisamente scomoda.
Al Nord il Piemonte aveva le finanze fuori controllo, tanto che il debito pubblico aumentò del 565% nel decennio precedente all’unità d’Italia. I Savoia hanno quindi lanciato la politica della finanza allegra e la cultura del debito facile, oggi appannaggio della maggior parte delle potenze economiche occidentali. Per il Regno di Sardegna le guerre di indipendenza e successivamente l’unità d’Italia sono state senza dubbio il modo più semplice per sistemare i conti pubblici. D’altronde il Piemonte aveva una bilancia commerciale costantemente in rosso e ingombranti oneri legati al finanziamento delle proprie guerre (già dalla spedizione di Crimea, fortemente voluta da Cavour per poi spostare il focus delle potenze europee sulla “questione italiana”)
 
Nel 1848 il debito piemontese era di 168 milioni di lire, ma nel 1859 era balzato a 1,12 miliardi di lire per un incremento monstre del 565%. Questa montagna di debiti era pari quasi al 74% del pil. I Savoia pagavano interessi annui sul debito pari a 68 milioni di lire, circa tre volte in più di quello che pagava il Regno delle Due Sicilie. Al Sud i Borbone potevano contare su un’economia decisamente più grande e diversificata: il pil del regno napoletano era pari a 2,62 miliardi di lire, mentre quello dei piemontesi 1,61 miliardi di lire. Dal 1847 al 1859 il debito del regno napoletano era aumentato solo del 29,6% a 411,5 milioni di lire da 317 milioni.
Il rapporto debito/pil del Regno delle Due Sicilie era pari al 16,57%, un valore che oggi farebbe impallidire anche la Germania di Angela Merkel.
Il Regno di Sardegna le tentò tutte pur di oscurare i dati sui conti pubblici. Arrivò addirittura a non redigere più il bilancio statale, oltre che applicare ben 23 nuove tasse e vendere beni demaniali. Secondo uno studio dell’economista lucano Francesco Nitti, i Savoia possedevano un patrimonio pari a 27 milioni di lire di oro mentre il Regno delle Due Sicilie 443 milioni di lire di oro. Le sorti finanziarie della casa regnante piemontese erano finite nelle mani dei Rothschild, i banchieri più influenti dell’800 che furono anche determinanti per la sconfitta di Napoleone a Waterloo.
 
Ai Savoia, dunque, l’unica cosa da fare per evitare la bancarotta era quella di unirsi con chi aveva i conti in ordine. D’altronde lo stesso Vittorio Sacchi, economista piemontese, affermò che le finanze napoletane erano in perfetto ordine quando fu chiamato a redigere il bilancio pubblico dopo l’unificazione del 1861. Dalla Restaurazione del 1815 il regno borbonico aveva solo 5 tasse e le rendite pubbliche salivano da 16 milioni a 30 milioni di ducati grazie alla ricchezza generata dall’economia. Dal 1847 al 1859 al Sud non viene introdotto nemmeno una nuova tassa. Senza contare che il bilancio pubblico era decisamente trasparente e che non era stata effettuata alcuna vendita di beni demaniali. Dopo l’Unità il debito del Regno di Sardegna era diventato il debito del Regno d’Italia. In un libricino datato 1862, l’economista Savarese sottolineava che si trattava di "eredità luttuosa".
 
Fonte:
 
 
 




 
 
 

venerdì 16 maggio 2014

L'EROINA DI RIMINI (SANGUE ITALIANO)



SANGUE ITALIANO

La prima pattuglia nemica entra in Rimini da Porta Romana. Il lungo viale dei platani che immette nel sobborgo XX Settembre con sullo sfondo le macerie della bramantesca chiesa della Colonnella, taglia col suo rettilineo cumuli di rottami: tutto è diroccato, lo stadio civico, la chiesa dei Cappuccini, la chiesa di San Giovanni, le case, i palazzi, il convento dei Cappuccini, la chiesa di Santo Spirito. Sul quadrivio della via Flaminia, di dove si dipartono la via nazionale di San Marino, la via dei Trai e la via XX Settembre, dondola un semaforo sospeso lassù a mezz'aria non si sa come, tra le rovine di ogni cosa all'intorno. La pattuglia canadese esita incerta sulla direzione da prendere. Il cielo è solcato dal rombo dei velivoli e delle cannonate che vengono dal mare, dalle colline e dalla parte opposta della città; crepitano in distanza le mitragliatrici, l'aria acre velata di fumo e di polvere. All'intorno, in qualsiasi parte volgano lo sguardo, i Canadesi non scorgono se non calcinacci, non una casa in piedi; le macerie si stendono per chilometri; tutta la superficie di quella che era la vivace, elegante e ricca città adriatica è una sola, immensa, caotica distesa di pietre: a malapena si distinguono i tracciati di quelle che furono le vie principali. Mentre la pattuglia sta per imboccare a caso la via XX Settembre, un'ombra si muove dietro un cumulo di rovine: i Canadesi spianano le armi, pronti a sparare. Non è un'ombra, è una donna, una giovane donna. Ella alza le mani e i Canadesi la circondano. Una granata cade sui ruderi dello stadio sollevando un nugolo di rottami. Il terriccio e la polvere entrano nella bocca e negli occhi. Alla deflagrazione la ragazza è rimasta immobile a braccia levate. Un Canadese le rivolge la parola in un gergo a base di francese. La ragazza si sforza di comprendere e alla fine riesce a capire la domanda del soldato. Costui chiede da che parte si vada per raggiungere la via Emilia. L'interpellata, dopo un'impercettibile incertezza indica con la mano la via dei Trai. Il Canadese si consulta coi compagni e torna a guardare la ragazza. Costei gli fa cenno col braccio invitandolo a seguirla. Il gruppo allora s'incammina. La ragazza, una popolana sui 18 anni, bruna, dalle membra forti, e slanciate, lacera e sporca, cammina spedita. La lunga e diritta via dei Trai conduce in piazza Tripoli, al mare, non all'arco di Augusto e alla Via Emilia. La pattuglia, composta di una ventina di uomini, più due soldati tedeschi prigionieri, procede nel tragico scenario della città morta; i Canadesi tengono i fucili spianati, pronti a far fuoco; i due Tedeschi, al centro dei gruppo, mostrano i segni della lotta nei volti e sulle uniformi, ma camminano marzialmente. La popolana li sbircia, di sfuggita: pare ai Tedeschi che quello sguardo abbia un significato. Quale significato? La giovane riminese continua a camminare, gli alberi che fiancheggiano la via sono diverti, tronchi e fronde ingombrano il passaggio, giacciono sulle macerie delle case. La popolana si volge a guardare i due Tedeschi, i quali questa volta sono loro a sorridere. Ancora pochi passi, poi una tremenda esplosione lancia in aria macerie e persone, avvolgendole in una nube di terriccio, di calcinacci, di informi rottami. Una pausa tragica. Un attimo di terrificante silenzio. Poi il gemito dei feriti. Un uomo poi si raddrizza sulle natiche, si netta il sangue dal volto, si leva in piedi. E' ferito ma salvo. I Canadesi morti in gran parte, sfracellati dallo scoppio. I rimanenti agonizzano. Agonizza anche la popolana, che ha avuto le gambe amputate e il volto ferito dalla formidabile esplosione. L'uomo che fra tutti si è salvato, uno dei soldati tedeschi, si accosta alla moribonda: ella gli sorride con una smorfia e riesce a dire penosamente: «Sapevo che qui esisteva un campo di mine... perché vi aveva lavorato mio fratello... vi ho condotto gli Inglesi perché sono stata violentata da due Australiani... in una casa colonica dove ci eravamo rifugiati... ho seguito questa pattuglia... volevo vendicarmi ... non sapevo come ... la sorte mi ha favorito ... ». L'eroina sta dissanguandosi; il suo volto diventa cadaverico. Il soldato tedesco non può far nulla per lei se non raccoglierne l'ultima parola: «Ho vendicato il mio onore». Il soldato tedesco si china sulla morente e la bacia in fronte. Quando risolleva il capo la giovane eroina è spirata. Questo ci ha raccontato il soldato tedesco dopo aver raggiunto i propri camerati all'altra estremità della città morta. Il soldato, che dopo un anno di soggiorno in Italia si esprime abbastanza bene nella nostra lingua, così ha commentato il suo racconto: «La ragazza non aveva indosso alcuna carta o qualsiasi documento di riconoscimento. Non ho potuto quindi sapere il suo nome». E si è rammaricato, il soldato tedesco, di non averglielo chiesto prima che ella spirasse. Il nome dell'eroina rimarrà sconosciuto forse per sempre, e così la storia di questa guerra ricorderà il leggendario episodio come quello della eroina riminese. Dell'anonima ma fulgida eroina riminese.

 

 
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MONGIANA L'inizio della fine



L'inizio della fine: Mongiana

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giovedì 15 maggio 2014

La società salesiana e la leva obbligatoria dei risorgimento

La leva militare: un dramma dei primi anni settanta
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Le enormi spese che dovette affrontare don Bosco per l’esenzione dei chierici
Un’opera come quella salesiana che dagli umilissimi inizi di casa Pinardi nel 1846 alla morte di don Bosco nel 1888 era già diffusa in varie nazioni europee e sudamericane, doveva avere alle sue spalle un fondatore capace di attirare numerose schiere di giovani disponibili a consacrarsi all’educazione di quella “gioventù a rischio”, cui troppo pochi nella società civile e in quella ecclesiale si interessavano seriamente. A fondamento di una simile impresa vi era il “dito di Dio”, come don Bosco non esitava a dire al papa, alle autorità della Santa Sede, ai salesiani, ma vi erano anche la sua capacità di stimolare la beneficenza, tanto pubblica che privata, – unica risorsa su cui poteva e voleva contare – e il suo indefesso impegno in tale direzione. Ciò che poi per lui era un’impellente necessità di sopravvivenza, diventava sovente motivo di derisione da parte della stampa anticlericale, dei liberali ostili alla chiesa, dei governi massoni. Uno dei bisogni maggiori di liquidità si presentò a don Bosco ad inizio degli anni Settanta, paradossalmente proprio all’indomani dell’approvazione pontificia della sua congregazione (1869). L’epistolario lo conferma.
La legislazione 
Fino al 1869 nel neonato regno d’Italia era in vigore la legge del Regno di Sardegna del 1854, che permetteva ai vescovi di disporre di un certo numero di chierici, fissato annualmente per legge, esenti dalla ferma militare. Don Bosco più volte si era rivolto a qualche vescovo amico, che inseriva i chierici di Valdocco fra i propri seminaristi. Per tutti gli altri giovani, estratti a sorte nei comuni di residenza, era comunque sempre possibile farsi surrogare con il versamento di una cifra paragonabile allo stipendio annuale di un professore universitario. Con legge del 27 maggio 1869 tale privilegio venne abolito, anche se un decreto legge del giugno successivo consentiva di nuovo di affrancarsi dal servizio sempre mediante una grossa tassa, fissata in franchi 3200 (circa 12.000 Euro). A fronte di ciò, la Chiesa elevò la sua protesta, inascoltata.
Il dramma di Valdocco
Don Bosco si trovò immediatamente in difficoltà. Con sé aveva molto personale in età di leva. Doverne fare senza per il lungo periodo della ferma significava perdere molte forze vive nelle sue case. Ora se nel dicembre 1870 aveva già “alcuni sotto le armi” ed altri “in procinto di andarci” se non avesse pagato in tempi abbastanza ristretti i 3200 franchi richiesti, nel 1871 il problema si acuì al punto che il 30 aprile scriveva alla marchesa Uguccioni: “In brevissimo tempo abbiamo dovuto riscattare dieci chierici dalla leva militare colla enorme somma di franchi 32 mila [120 mila euro]. Vede che flagello”. Pochi mesi dopo, il 12 luglio 1871 supplicava un immediato aiuto economico alla signora Lucini di Bergamo: “abbiamo 14 chierici che sono colpiti dalla leva testé effettuata e si possono riscattare soltanto fino al 31 luglio del corrente luglio. Dopo, tutti sono militari, abolito ogni supplente”. Trovare denaro in contanti non era facile ma la beneficienza non venne mai meno, tanto che il 24 luglio comunicava a don Tribone di Genova: “Ho il piacere di significarle che di quattordici chierici che avevamo da riscattare, sette sono già stati riscattati, per gli altri speriamo nella misericordia di Dio”. Misericordia di Dio, ovviamente, da suscitare attraverso l’umile supplica ai suoi generosissimi benefattori: contesse Corsi, Brancadori, Callori, marchesi Fassati, Uguccioni, barone Ricci des Ferres ecc. Nel settembre le cose migliorarono, perché la somma richiesta per il riscatto era scesa a 2500 franchi (9500 Euro). La nuova legge dell’aprile 1872 rimise in vigore l’esenzione per i seminaristi, ma a determinate condizioni, quelle che don Bosco non era in grado di garantire, perché non era Ordinario di diocesi e la sua Congregazione non aveva alcun riconoscimento di fronte alla legge. Nell’agosto 1872 aveva da riscattare undici chierici; a fine ottobre 1873 quindici.
“Là c’è la Provvidenza”
Così don Bosco avrebbe potuto affermare con il Renzo manzoniano, anche se la Provvidenza non sempre era a basso costo. Il 26 settembre 1873 infatti scriveva alla contessa Callori: “La sua preziosa lettera andò a raggiungermi in Varazze e mentre la leggeva e considerava la carità che faceva pei nostri chierici, in quell’istante medesimo ricevo un dispaccio da Alessandria che mi annunzia un nostro chierico essere stato ritenuto nella prima categoria. Sia benedetto il Signore, dissi con Don Francesia: egli manda la spina e contemporaneamente la rosa”. A fine ottobre 1874 don Bosco venne a trovarsi nelle stesse condizioni di bisogno, per cui rilanciava il suo accorato appello all’avvocato torinese Galvagno: “Mi rincresce disturbare tanto sovente la S. V. Benemerita, ma mi trovo in bisogno eccezionale. Ho cinque chierici da riscattare dalla leva militare e non ho ancora un soldo ad hoc mentre [siamo] vicini all’epoca del riscatto. Potrebbe ella venirmi in ajuto? Ecco l’umile mia preghiera. Ogni chierico deve pagare fr. 2500 per passare dalla 1a alla 2a categoria [da cui si poteva essere esentati]“. Pochi giorni dopo, il 7 novembre, era la volta della contessa Teresa Corsi: “La contessa Corsi Gabriella mi portò franchi duecento che V. S. Ill.ma offre per il riscatto dei nostri chierici dalla leva militare. Non poteva essere cosa più opportuna; domani è giorno ultimo pel riscatto di uno di tali chierici ed a favore di quello fu tosto spedita la sua limosina… Di cinque chierici due sono già riscattati; preghi Dio che mi aiuti a trovare i mezzi per riscattare gli altri tre”. E l’indomani, probabilmente dopo una notte insonne, ecco un nuovo appello alla marchesa Bianca Malvezzi e così via.
E la ricompensa?
I religiosissimi benefattori di don Bosco si accontentavano di un semplice grazie, nutrito però di preghiere per il presente e per il futuro: “Dio saprà compensarla. Il Clero, la Chiesa, noi tutti le saremo riconoscenti e ci uniremo al chierico beneficato ad invocare costantemente le benedizioni del cielo sopra di Lei e sopra tutta la sua famiglia”. Negli anni successivi, fino alla Conciliazione del 1929, il problema si ripropose continuamente, ma don Bosco e i suoi primi successori (don Rua, don Albera, don Rinaldi) troveranno sempre il modo di risolverlo senza danneggiare le case salesiane, in cui la presenza di giovani educatori è essenziale.


Il martirio dei sacerdoti nella guerra civile -

Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
Comunicato n. 46/14 del 7 maggio 2014, Solennità di San Giuseppe
lapide
Pubblichiamo alcuni estratti dell’articolo Le atrocità partigiane in Italia di Alberto Fornaciari, pubblicato dalCentro Culturale San Giorgio. Per leggere il testo completo, cliccare qui
Premessa
Non sono uno scrittore, non ho velleità e non ho ambizioni di alcun genere; sono solo orgoglioso della libertà che ritengo di possedere e che mi fà parlare di quello che pochi hanno avuto il coraggio di dire sulle terrificanti verità della guerra civile in Italia. Voglio parlare delle vittime, di quelle per le quali non sono state installate lapidi di marmo, non sono stati alzati monumenti alla loro memoria e non sono state dedicate strade, piazze e scuole. Intendo parlare delle vite spezzate dalla ferocia dei partigiani comunisti nella nostra terra emiliana. Dopo l’8 settembre 1943, i comunisti hanno combattuto una loro «guerra privata» con scopi e finalità ben diversi da quelli che avevano animato i partigiani delle altre formazioni antifasciste, applicando, con disumana ferocia, una tecnica della guerra civile che è costata agli italiani e agli stessi antifascisti non comunisti un numero spaventosamente alto di vittime innocenti. Perché ho scritto queste pagine? Non certo per rinfocolare odî e rancori. Sono cattolico credente, cresciuto nell’Azione Cattolica; predico, nel limite delle mie possibilità, il perdono e l’amore. Sono contro tutte le guerre e tutte le violenze, ma credo sia giusto che anche queste vittime siano ricordate; ci sono ancora genitori e figli che piangono i loro cari dei quali era proibito parlare. I giovani non sanno e non hanno visto le barbarie della guerra. Ho parlato con un insegnante di cultura civica; insegna in una scuola professionale ed è dirigente di partito. È nato dopo la guerra, e non conosce, se non in parte, i fatti accaduti in quel periodo doloroso. Non ha avuto materiale per documentarsi; i tanti libri scritti sulla guerra civile sono di parte, distorcono la verità e tacciono su tanti episodi. Visione e interpretazione dei fatti sono solo di ispirazione partigiana. Debbo dare atto al senatore Giorgio Pisanò (1924-1997), che pur essendosi trovato dalla parte che ha perduto, nella sua Storia della guerra civile in Italia (1943-1945), presenta, elenca e documenta i fatti e i misfatti compiuti da entrambe le parti in lotta; credo sia uno dei pochi, se non l’unico in Italia, ad averlo fatto. A questa sua fatica attingerò in parte per il mio modesto lavoro. (…)
Emilia Romagna: 10.000 massacrati
Questo è il sanguinoso bilancio delle giornate che videro la fine della guerra civile in Emilia. Le stragi volute, organizzate ed eseguite da uomini del Partito Comunista portarono a 3.000 i massacrati nel bolognese, 2.000 nel reggiano, 2.000 nel modenese, 1.300 nel ferrarese, 600 nella provincia di Piacenza, 500 in quella di Ravenna, 200 nel forlivese e 600 nel parmense. Mentre in Piemonte e in Lombardia, la strage infuriò per pochi giorni, esaurendosi entro il mese di maggio, e mentre nella Venezia-Giulia la barbara ondata slava durò praticamente quaranta giorni e si arrestò allorché Trieste e Gorizia passarono sotto il controllo anglo-americano, la regione emiliana venne funestata ancora per lunghi mesi da atroci fatti di sangue. Causa principale di questo fenomeno fu la presenza, nella regione, di centinaia di vecchi esponenti comunisti. Con l’arrivo degli americani a Bologna, gli enti locali, i sindacati, le cooperative, gli organi di polizia, tutto passò nelle mani di uomini di fiducia del Partito Comunista. La conseguenza fu che il terrore, di pretta marca bolscevica, si abbatté sulle popolazioni. Antichi rancori, vendette personali e odio politico si fusero esplodendo in un’atroce, incredibile e inarrestabile catena di omicidi, stragi collettive e angherie senza nome. Nel modenese ebbe il suo epicentro nel «Triangolo della morte», cioè nella zona compresa tra i centri di Castelfranco Emiliano e Spilamberto nel modenese, e San Giovanni in Persiceto nel bolognese. «Nella provincia di Modena, i partigiani comunisti, arrestati e processati per omicidi e reati comuni, furono più di seicento. Molti furono condannati e finirono in galera. Moltissimi ripararono a Praga, tramite l’ufficio espatri clandestini della federazione comunista modenese» (…)
Sacerdoti seviziati e trucidati
Nei tristi mesi che precedettero e seguirono la liberazione, vari sacerdoti della nostra diocesi pagarono con il sacrificio della vita l’assurdità di una situazione dove l’odio dava la mano al tradimento e l’omertà alla paura. Così muoiono i preti, i ministri di Dio. Come il parroco di Crocette, un’assolata frazione di un migliaio di anime, a 3,5 km da Pavullo (Modena). A Crocette, don Luigi Lenzini, sessantenne, c’era da molto tempo e lo consideravano tutti per la sua parola decisa e il suo dire pane al pane e vino al vino. Tipo chiaro e nodoso, come certi quercioli che non piegano a nessun vento. Tardissimo – saranno state le 2,00 dopo mezzanotte – sentì bussare alla porta e andò alla finestra in camicia da notte. Gli dissero di scendere che avevano bisogno. Voci sconosciute e indistinte. Si scusò di non poter scendere per la vecchiaia e l’ora tardissima. Ma quelli non si diedero per vinti. Dopo aver insistito invano, si buttarono contro la porta della canonica; poi sfondarono una finestra ed entrarono. Quanti erano? Due o tre? Don Lenzini, che aveva intuito subito tutto, cercò di sgusciare per la canonica nella chiesa e si appiattì dietro l’altare maggiore. Ma qualcuno era pratico di tutto. Lo presero. «Lasciate almeno che mi vada a vestire». Niente! Lo trascinarono via com’era, in camicia. Il venerando sacerdote si raccomandava e qualcuno pare abbia udito i suoi lamenti nella notte. Fuori era caldo. Si allontanarono dal paese e lo spinsero a calci e urtoni in una vigna vicina. Lì lo sottoposero a torture che qui non abbiamo il coraggio di descrivere: il pudore ce lo impedisce. Poi gli levarono gli occhi e lo seppellirono, dopo averlo strangolato. Nella tragica vigna si vedeva una testa che emergeva dal terriccio smosso. Qualche giorno dopo se ne accorsero tutti e alcune persone pietose gli diedero sepoltura.
– Il canonico don Giuseppe Guicciardi era parroco sull’Appennino, a Mocogno (Modena), un paesetto a 2,5 km da Lama, a 800 metri sul livello del mare. Questo fatto capitò precisamente il 10 giugno 1945. Fu una sera. Il parroco andò ad aprire ad alcuni tizi, i quali, entrati, gli chiesero da mangiare, dicendo di essere affamati. Mise loro davanti quel che aveva in casa. Poi, quelli, mangiato che ebbero, chiesero vestiti, coperte e soldi; volevano anche un grammofono. E poiché il prete tergiversava, andarono di là nello studio e presero quei soldi che trovarono, il poco denaro della fabbriceria destinato ad un «ufficio». Rovistarono da ogni parte e portarono via quello che faceva loro comodo, anche la biancheria personale del parroco. Parevano sazi, ormai, e stavano per andarsene. Si avviarono all’uscio e il parroco già ne ringraziava Dio nel suo cuore, quando uno di loro, voltandosi improvvisamente, come per salutare, gli scaricò addosso una pistola, così a freddo. Il vecchio sacerdote cadde bocconi e non si mosse più. Uno di loro, sbattendo l’uscio, disse un po’ eccitato: «Perché l’hai fatto? Ce n’era proprio bisogno»? Ma l’assassino rispose: «I preti bisogna ucciderli tutti: uno alla volta; ma bisogna toglierli di mezzo»! E si perdettero nel buio con la refurtiva. La canonica di Mocogno è un po’ lontana dall’abitato centrale. La gente si accorse dell’efferato delitto solo la mattina dopo, perché la Messa non suonava come al solito. Fra le carte del santo parroco fu trovato una specie di diario in cui egli aveva offerto la propria vita al Papa, durante i tragici mesi del fronte, per la salvezza dei peccatori e la fine della guerra. Il suo assassino fu pescato, un giorno, mentre passava per strada. Individuato, i carabinieri lo inseguirono. Cercò prima di fuggire, poi tentò di liberarsene sparando su di loro, ma fu freddato prima che ne avesse il tempo. Indosso aveva ancora la camicia del povero parroco massacrato quella notte del 10 giugno!
– Don Giuseppe Preci, sessantadue anni. A Montalto di Zocca (metri 800), di notte, c’è da avere del coraggio a starci, anche senza guerra e… dopo guerra! Confinato lassù, tra castagni e faggi, c’è da fare ad arrivarci da Zocca (Modena) in tre quarti d’ora in macchina. Il parroco, don Preci, era un tipino sottile e deciso, pronto ad ogni ora per il suo popolo. E quando lo vennero a destare, quella notte del 24 maggio 1945, perché andasse da un ammalato, non ci pensò due volte ad uscire. Si vestì e andò in chiesa a prendere i Sacramenti, il Viatico e l’Olio santo. Uscito sul sagrato, le due persone che lo avevano chiamato lo pregarono di fare presto. E lo pregarono di andare avanti. Il sacerdote ubbidì, sia pure a malincuore, e si raccomandò a Dio. Del coraggio ne aveva sempre avuto, lui. Ma una scarica di mitra lo fulminò. Cadde, e il suo sangue bagnò la stradicciola che prendeva dal sagrato. Il prete rimase lì con i Sacramenti, sotto gli abiti insanguinati, fino al mattino dopo.
– Piane di Monchio (Reggio Emilia). Il seminarista Rolando Rivi, di quattordici anni, prelevato la mattina del 10 aprile 1945 da una squadra di partigiani comunisti e assassinato due giorni dopo perché indossava l’abito talare. I suoi uccisori, identificati, vennero condannati a ventitre anni di carcere. (…)
Sacerdoti martiri nell’oblio
Desidero qui ricordare con venerazione e affetto i sacerdoti che durante la guerra civile in Italia (1943-1945), immolarono la vita per restare fedeli alla loro missione di apostoli di Cristo. Voglio ricordare quelli rimasti vittime della ferocia dei nemici della fede e della Patria, i partigiani comunisti. Così li definisce un volantino fatto stampare dai cattolici modenesi presso la tipografia Azzi di Pavullo l’8 agosto 1965. Ho raccolto e posto qui in elenco novantaquattro nomi, ma certo i sacerdoti uccisi da componenti le bande partigiane, o presunti tali, sono molti di più. Comunque, per questi che io riporto, c’è stato il silenzio assoluto! I giovani non debbono sapere; verrebbe demolita l’epopea costruita in questi anni intorno al movimento partigiano. A Modena, il 19 agosto 1984, si è ricordato, a Crocette di Pavullo, in occasione della festa della Madonna Assunta, patrona della parrocchia, don Luigi Lenzini, parroco della medesima, seviziato barbaramente e ucciso dai partigiani; ma nessuna autorità, né religiosa né civile, ha presenziato al rito. La stampa, compresa quella cattolica, non ne ha fatto cenno; silenzio assoluto anche dal settimanale diocesano Nostro Tempo…
Don Giuseppe Amatelo, parroco di Coassolo (Torino), ucciso a colpi di ascia dai partigiani comunisti il 15 marzo 1944 perché aveva deplorato gli eccessi dei guerriglieri rossi;
Don Gennaro Amato, parroco di Locri (Reggio Calabria), ucciso nell’ottobre 1943 dai capi della repubblica comunista di Caulonia;
Don Ernesto Bandelli, parroco di Bria, ucciso dai partigiani slavi a Bria, il 30 aprile 1945;
Don Vittorio Barel, economo del seminario di Vittorio Veneto, ucciso il 26 ottobre 1944 dai partigiani comunisti;
Don Stanislao Barthus, della Congregazione di Cristo Re (Imperia), ucciso il 17 agosto 1944 dai partigiani perché in una predica aveva deplorato le «violenze indiscriminate dei partigiani»;
Don Duilio Bastreghi, parroco di Cigliano e Capannone Pienza, ucciso la notte del 3 luglio 1944 dai partigiani comunisti che lo avevano chiamato con un pretesto;
Don Carlo Beghè, parroco di Novegigola (Apuania), sottoposto il 2 marzo 1945 a finta fucilazione che gli produsse una ferita mortale;
Don Francesco Bonifacio, curato di Villa Gardossi (Trieste), catturato dai miliziani comunisti iugoslavi l’11 settembre 1946 e gettato in una foiba;
Don Luigi Bordet, parroco di Hône (Aosta), ucciso il 5 marzo 1946 perché aveva messo in guardia i suoi parrocchiani dalle insidie comuniste;
Don Sperindio Bolognesi, parroco di Nismozza (Reggio Emilia), ucciso dai partigiani comunisti il 25 ottobre 1944;
Don Corrado Bortolini, parroco di Santa Maria in Duno (Bologna), prelevato dai partigiani il 1° marzo 1945 e fatto sparire;
Don Raffaele Bortolini, canonico della Pieve di Cento, ucciso dai partigiani la sera del 20 giugno 1945;
Don Luigi Bovo, parroco di Bertipaglia (Padova), ucciso il 25 settembre 1944 da un partigiano comunista poi giustiziato;
Don Miroslavo Bulleschi, parroco di Monpaderno (Diocesi di Parenzo e Pola), ucciso il 23 agosto 1947 dai comunisti iugoslavi;
Don Tullio Calcagno, direttore di Crociata Italica, fucilato dai partigiani comunisti a Milano il 29 aprile 1945;
Don Sebastiano Caviglia, cappellano della Guardia Nazionale Repubblichina, ucciso il 27 aprile 1945 ad Asti;
Padre Crisostomo Ceragiolo o.f.m., cappellano militare decorato al valor militare, prelevato il 19 maggio 1944 da partigiani comunisti nel convento di Montefollonico e trovato cadavere in una buca con le mani legate dietro la schiena;
Don Aldemiro Corsi, parroco di Grassano (Reggio Emilia), assassinato nella sua canonica, con la domestica Zeffirina Corbelli, da partigiani comunisti, la notte del 21 settembre 1944;
Don Ferruccio Crecchi, parroco di Levigliani (Lucca), fucilato all’arrivo delle truppe di colore nella zona su false accuse dei comunisti del luogo;
Don Antonio Curcio, cappellano dell’11° Battaglione Bersaglieri, ucciso il 7 agosto 1941 a Dugaresa da comunisti croati;
Padre Sigismondo Damiani o.f.m., ex cappellano militare, ucciso dai comunisti slavi a San Genesio di Macerata l’11 marzo 1944;
Don Teobaldo Daporto, arciprete di Castel Ferrarese, Diocesi di Imola, ucciso da un comunista nel settembre 1945;
Don Edmondo De Amicis, cappellano pluridecorato della Prima Guerra Mondiale, venne colpito a morte dai «gappisti», a Torino, sulla soglia della sua abitazione nel tardo pomeriggio del 24 aprile 1945, e spirò dopo quarantott’ore di atroce agonia;
Don Aurelio Diaz, cappellano della Sezione Sanità della Divisione «Ferrara», fucilato nelle carceri di Belgrado nel gennaio del 1945 da partigiani titini;
Don Adolfo Dolfi, canonico della Cattedrale di Volterra, sottoposto il 28 maggio 1945 a torture che lo portarono alla morte l’8 ottobre successivo;
Don Enrico Donati, arciprete di Lorenzatico (Bologna), massacrato il 23 maggio 1945 sulla strada di Zenerigolo;
Don Giuseppe Donini, parroco di Castagneto (Modena), trovato ucciso sulla soglia della sua casa la mattina del 20 aprile 1945. La colpa dell’uccisione fu attribuita in un primo momento ai tedeschi, ma alcune circostanze, emerse in seguito, stabilirono che gli autori del sacrilego delitto furono i partigiani comunisti;
Don Giuseppe Dorfmann, fucilato nel bosco di Posina (Vicenza) il 27 aprile 1945;
Don Vincenzo D’Ovidio, parroco di Poggio Umbricchio (Teramo), ucciso nel maggio 1944 sotto accusa di filo-fascismo;
Don Giovanni Errani, cappellano militare della Guardia Nazionale Repubblichina, decorato al valor militare, condannato a morte dal Comitato di Liberazione Nazionale di Forlì, salvato dagli americani e deceduto in seguito a causa delle sofferenze subite;
Don Colombo Fasce, parroco di Cesino (Genova), ucciso nel maggio del 1945 dai partigiani comunisti;
Padre Giovanni Fausti s.j., superiore generale dei gesuiti in Albania, fucilato il 5 marzo 1946 perché italiano. Con lui furono trucidati altri sacerdoti dei quali non si è mai potuto conoscere il nome;
Padre Fernando Ferrarotti o.f.m., cappellano militare reduce dalla Russia, ucciso nel giugno 1944 a Champorcher (Aosta) dai partigiani comunisti;
Don Gregorio Ferretti, parroco di Castelvecchio (Teramo), ucciso dai partigiani slavi e italiani nel maggio 1944;
Don Giovanni Ferruzzi, arciprete di Campanile (Imola), ucciso dai partigiani comunisti il 3 aprile 1945;
Don Achille Filippi, parroco di Maiola (Bologna), ucciso la sera del 25 luglio 1945 perché accusato di filo-fascismo;
Don Sante Fontana, parroco di Comano (Pontremoli), ucciso dai partigiani il 16 gennaio 1945;
Don Giuseppe Gabana, della Diocesi di Brescia, cappellano della 6ª Legione della Guardia di Finanza, ucciso il 3 marzo 1944 da un partigiano comunista;
Don Giuseppe Galassi, arciprete di San Lorenzo in Selva (Imola), ucciso il 1° maggio 1945 perché sospettato di filo-fascismo;
Don Tiso Galletti, parroco di Spazzate Sassatelli (Imola), ucciso il 9 maggio 1945 perché aveva criticato il comunismo;
Don Domenico Gianni, cappellano militare in Iugoslavia, prelevato la sera del 21 aprile 1945 e ucciso dopo tre giorni;
Don Giovanni Guicciardi, parroco di Mocogno (Modena), ucciso il 10 giugno 1945 nella sua canonica dopo sevizie atroci da chi, col pretesto della lotta di liberazione, aveva compiuto nella zona una lunga serie di rapine e delitti, con totale disprezzo di ogni legge umana e divina;
Don Virginio Icardi, parroco di Squaneto (Aqui), ucciso il 4 luglio 1944, a Preto, da partigiani comunisti;
Don Luigi Ilarducci, parroco di Garfagnolo (Reggio Emilia), ucciso il 19 agosto 1944 da partigiani comunisti;
Don Giuseppe Jemmi, cappellano di Felina (Reggio Emilia), ucciso il 19 aprile 1945 perché aveva deplorato gli «eccessi inumani di quanti disonorano il movimento partigiani»;
Don Serafino Lavezzari, seminarista di Robbio (Piacenza), ucciso il 25 febbraio 1945 dai partigiani, insieme alla mamma e a due fratelli;
Don Luigi Lenzini, parroco di Crocette di Pavullo (Modena), trucidato il 20 luglio 1945. Nobile, autentica figura di martire della fede. Prelevato nottetempo da un’orda di criminali, strappato dalla sua chiesa, torturato, seviziato, fu ucciso dopo lunghissime ore di indescrivibile agonia, quale raramente si trova nella storia di tutte le persecuzioni. Si cercò di soffocare con lui, dopo che le minacce erano risultate vane, la voce più chiara, più forte e coraggiosa che, in un’ora di generale sbandamento morale, metteva in guardia contro i nemici della fede e della patria. Il processo, celebrato in una atmosfera di terrore e di omertà, non seppe assicurare alla giustizia umana i colpevoli, mandanti ed esecutori, i quali, con tale orribile delitto, non unico, purtroppo, hanno gettato fango, umiliazione e discredito sul nome della Resistenza italiana. Ma dalla gloria all’Eternità, come nella fosca notte del martirio, don Luigi Lenzini fà riudire le ultime parole della sua vita, monito severo e solenne, che invitano a temere e a stimare soltanto il giusto Giudizio di Dio;
Don Giuseppe Lorenzelli, Priore di Corvarola di Bagnone (Pontremoli), ucciso dai partigiani il 27 febbraio 1945, dopo essere stato obbligato a scavarsi la fossa;
Don Luigi Manfredi, parroco di Budrio (Reggio Emilia), ucciso il 14 dicembre 1944 perché aveva deplorato gli «eccessi partigiani»;
Don Dante Mattioli, parroco di Corazzo (Reggio Emilia), prelevato dai partigiani rossi la notte dell’11 aprile 1945;
Don Fernando Merli, mensionario della Cattedrale di Foligno (Perugia), ucciso il 21 febbraio 1944, presso Assisi, da iugoslavi istigati dai comunisti italiani;
Don Angelo Merlini, parroco di Fiamenga (Foligno), ucciso il medesimo giorno dagli stessi, presso Foligno;
Don Armando Messuri, cappellano delle Suore della Sacra Famiglia in Marino, ferito a morte dai partigiani comunisti e deceduto il 18 giugno 1944;
Don Giacomo Moro, cappellano militare in Iugoslavia, fucilato dai comunisti titini a Micca di Montenegro;
Don Adolfo Nannini, parroco di Cercina (Firenze), ucciso il 30 maggio 1944 da partigiani comunisti;
Padre Simone Nardin o.s.b., dei benedettini olivetani, Tenente cappellano dell’ospedale militare Belvedere in Abbazia di Fiume, prelevato dai partigiani iugoslavi nell’aprile 1945 e fatto morire tra sevizie orrende;
Don Luigi Obid, economo di Podsabotino e San Mauro (Gorizia), prelevato da partigiani e ucciso a San Mauro il 15 gennaio 1945;
Don Antonio Padoan, parroco di Castel Vittorio (Imperia), ucciso da partigiani l’8 maggio 1944 con un colpo di pistola in bocca e uno al cuore;
Don Attilio Pavese, parroco di Alpe Gorreto (Tortona), ucciso il 6 dicembre 1944 da partigiani dei quali era cappellano, perché confortò alcuni prigionieri tedeschi condannati a morte;
Don Francesco Pellizzari, parroco di Tagliolo (Aqui), chiamato nella notte del 10 maggio 1945 e fatto sparire per sempre;
Don Pombeo Perai, parroco dei SS. Pietro e Paolo di città della Pieve, ucciso per rappresaglia partigiana il 16 giugno 1944;
Don Enrico Percivalle, parroco di Varriana (Tortona), prelevato da partigiani e ucciso a colpi di pugnale il 14 febbraio 1944;
Don Vittorio Perkan, parroco di Elsane (Fiume), ucciso il 9 maggio 1945 da partigiani mentre celebrava un funerale;
Don Aladino Petri, parroco di Pievano di Caprona (Pisa), ucciso il 2 giugno 1944 perché ritenuto filo-fascista;
Don Nazzareno Pettinelli, parroco di Santa Lucia di Ostra di Senigallia, fucilato per rappresaglia partigiana il 1º luglio 1944;
Don Umberto Pessina, parroco di San Martino di Correggio, ucciso il 18 giugno 1946 da partigiani comunisti;
Seminarista Giuseppe Pierami, studente di Teologia della Diocesi di Apuania, ucciso il 2 novembre 1944, sulla Linea Gotica, da partigiani comunisti;
Don Ladislao Pisacane, vicario di Circhina (Gorizia), ucciso da partigiani slavi il 5 febbraio 1945 con altre dodici persone;
Don Antonio Pisk, curato di Canale d’Isonzo (Gorizia), prelevato da partigiani slavi il 28 ottobre 1944 e fatto sparire per sempre;
Don Nicola Polidori, della Diocesi di Nocera e Gualdo, fucilato il 9 giugno 1944 a Sefro da partigiani comunisti;
Don Giuseppe Preci, parroco di Montalto (Modena). Chiamato di notte col solito tranello, fu ucciso sul sagrato della chiesa il 24 maggio 1945;
Don Giuseppe Rasori, parroco di San Martino in Casola (Bologna), ucciso la notte del 2 luglio 1945 nella sua canonica, con l’accusa di filo-fascismo;
Don Alfonso Reggiani, parroco di Amola di Piano (Bologna), ucciso da marxisti la sera del 5 dicembre 1945;
Don Giuseppe Rocco, parroco di Santa Maria, Diocesi di San Sepolcro, ucciso da slavi il 4 maggio 1945;
Padre Angelico Romiti o.f.m., cappellano degli allievi ufficiali della Scuola di Fontanellato, decorato al valor militare, ucciso la sera del 7 maggio 1945 da partigiani comunisti;
Don Leandro Sangiorgi, salesiano, cappellano militare decorato al valor militare, fucilato a Sordevolo Biellese il 30 aprile 1945;
Don Alessandro Sanguanini, della Congregazione della Missione, fucilato a Ranziano (Gorizia) il 12 ottobre 1944 da partigiani slavi per i suoi sentimenti di italianità;
Don Lodovico Sluga, vicario di Circhina (Gorizia), ucciso insieme al confratello;
Don Luigi Solaro, di Torino, ucciso il 4 aprile 1945 perché parente del federale di Torino Giuseppe Solaro, anch’egli trucidato;
Don Emilio Spinelli, parroco di Campogialli (Arezzo), fucilato il 6 maggio 1944 dai partigiani sotto accusa di filo-fascismo;
Padre Eugenio Squizzato o.f.m., cappellano partigiano ucciso dai suoi il 16 aprile 1944 fra Corio e Lanzo Torinese perché impressionato dalle crudeltà che essi commettevano, voleva abbandonare la formazione;
Don Ernesto Talè, parroco di Castelluccio Formiche (Modena), ucciso insieme alla sorella l’11 dicembre 1944;
Don Giuseppe Tarozzi, parroco di Riolo (Bologna), prelevato la notte sul 26 maggio 1945 e fatto sparire. Il suo corpo fu bruciato in un forno da pane, in una casa colonica;
Don Angelo Taticchi, parroco di Villa di Rovigno (Pola), ucciso dai partigiani iugoslavi nell’ottobre 1943 perché aiutava gli italiani;
Don Carlo Terenziani, prevosto di Ventoso (Reggio Emilia), fucilato la sera del 29 aprile 1945 perché ex cappellano della milizia;
Don Alberto Terilli, arciprete di Esperia (Frosinone), morto in seguito a sevizie inflittegli dai marocchini, eccitati da partigiani, nel maggio 1944;
Don Andrea Testa, parroco di Diano Borrello (Savona), ucciso il 16 luglio 1944 da una banda partigiana perché osteggiava il comunismo;
Mons. Eugenio Corradino Torricella, della Diocesi di Bergamo, ucciso il 7 gennaio 1944 ad Agen (Francia) da partigiani comunisti per i suoi sentimenti d’italianità;
Don Rodolfo Trcek, diacono della Diocesi di Gorizia, ucciso il 1° settembre 1944 a Montenero d’Idria da partigiani comunisti;
Don Francesco Venturelli, parroco di Fossoli (Modena), ucciso il 15 gennaio 1946 perché inviso ai partigiani;
Don Gildo Vian, parroco di Bastia (Perugia), ucciso dai partigiani comunisti il 14 luglio 1944;
Don Giuseppe Violi, parroco di Santa Lucia di Madesano (Parma), ucciso il 31 novembre 1945 da partigiani comunisti;
Don Antonio Zoli, parroco di Morra del Villar (Cuneo), ucciso dai partigiani comunisti perché, durante la predica del Corpus Domini del 1944, aveva deplorato l’odio tra fratelli come una maledizione di Dio.
Conclusione
I giovani imparino a trarre lezione dalla Storia e ascoltino Colui che ha offerto la propria vita su di una Croce; imparino ad amarsi e sulla terra regnerà la pace.

martedì 13 maggio 2014

In difesa di Ponzio Pilato


Rutilio Sermonti

Da romano quale mi vanto di essere, desidero assumere la difesa di Ponzio Pilato, quell’ottimo uomo e onorato funzionario, che viene ingiustamente vituperato, come ormai da secoli accade per l’azione sottile dell’ebraismo rabbinico, che – facendo scempio delle risultanze evangeliche – cerca di liberarsi dell’accusa di deicidio scaricandola sui Romani, e su quello in particolare.

Cominciamo col porre in chiaro che, all’epoca del processo a Gesù, la Giudea non era provincia romana, bensì “federata”.
Il rappresentante del proconsole di Cesarea (come era il procuratore Pilato) aveva quindi giurisdizione politico-militare soltanto sui delitti di infedeltà a quel “foedus”, mentre, per tutti gli altri, e a maggior ragione quelli di sacrilegio contro la legge mosaica, la Competenza esclusiva era dell’autorità locale ebraica, e cioè del Sinedrio. Infatti, quando le guardie del Sinedrio (non i soldati romani!) arrestarono Gesù, cercarono di farlo condannare da Pilato con l’accusa di sedizione contro Roma.
Pilato interrogò accuratamente l’imputato, e la sua sentenza fu: “Io trovo quest’uomo immune da colpa”. Mi sembra un’assoluzione, o sbaglio? E anche in seguito, insistendo gli ipocriti accusatori che Egli si sarebbe proclamato re, chi rispose loro: “Ma il suo regno non è di questa Terra”? Fu proprio Ponzio Pilato.
E la narrazione evangelica continua.
Quando sentì che il presunto delitto di sedizione politica, a carattere continuativo, sarebbe iniziato in Galilea, Pilato (probabilmente ben lieto in cuor suo di liberarsi di quegli austeri scocciatori), esattamente applicando il rito vigente, si dichiarò incompetente per territorio e rimise la causa al tetrarca di Galilea, Erode Antipa.
Ebbene – registra l’evangelista – quando anche Erode dichiarò Gesù innocente “da quel giorno Pilato ed Erode, che erano prima in pessimi rapporti, divennero amici”.
Quindi, la convinzione dell’innocenza del Cristo coinvolgeva Pilato anche sentimentalmente, al punto che la comune appartenenza al “partito innocentista” valeva anche a cancellare una precedente personale antipatia.
Ma il procuratore non si fermò li.
Si impegnò per salvare Gesù anche al di là del proprio dovere istituzionale tanto da compromettere il proprio “cursus honorum”, al quale si sa quanto i Romani tenessero.

Consideriamo l’episodio della pasqua ebraica nella sua vera luce, coerentemente ai rievocati precedenti.
Era tradizione che, in quel giorno, il popolo potesse graziare un condannato a morte.
I condannati erano due: Gesù Nazareno e un certo Barabba, ladrone da strada e assassino.
Pilato sapeva bene che Gesù era molto popolare (non poteva essergli sfuggita la domenica delle palme, proprio in Gerusalemme), e sapeva anche che il sinedrio lo odiava per quello e per la sua severa accusa contro la maggioranza di Farisei e Sadducei.
Si illuse quindi che, ricorrendo al popolo, egli sarebbe riuscito – senza violare la legge – a strappare il perseguitato dalle grinfie del suoi nemici.
Sottovalutava l’astuzia o la perfidia dei vertici ebraici, che, prevedendo la sua mossa, avevano provveduto a far affluire per tempo nella non grande piazza una folta schiera di loro servitori e clienti, con istruzioni ben precise:
Accadde così che, contro ogni logica, il risultato della “consultazione popolare” fu “Libera Barabba!”, sebbene Pilato fosse ricorso anche all’astuzia di far comparire il suo protetto in pubblico conciato in modo “teatralmente” idoneo (dice bene Sisto) a muovere a compassione.

Pilato, allora, costatata l’impossibilità di smuovere la marmaglia lì sotto dal proprio partito preso, grida “io sono innocente del sangue di questo giusto.”
Affermazione, quella, certo inconciliabile con l’ipotesi che egli stesso lo avesse condannato poco prima a morte e spiegabile soltanto col fatto che la condanna fosse stata pronunziata da “altri”, e che lui, Pilato, fosse – com’era – giuridicamente impotente ad impedirne l’esecuzione.

Potete del resto passare alla lente d’ingrandimento i quattro vangeli, e non vi troverete il minimo cenno, non dico a una condanna di Cristo pronunziata da Pilato, ma neppure di una sua minima espressione che non fosse in Sua difesa, mentre più volte il testo dichiara che il Sinedrio, ad ogni costo, “voleva la sua morte”.
Fu dunque il sinedrio, non Pilato, il giudice che condannò Gesù, e su questo non possono sussistere dubbi, essendo addirittura …Vangelo.

E arriviamo alla famosa “lavata di mani”.
Si tratta di una patente mistificazione, che nessuno sembra avvertire.
E le mistificazioni non sono mai casuali.
Sta di fatto che solo pochi secoli dopo il fatto, al pubblico gesto di Pilato si attribuiva generalmente e pacificamente il significato di disinteressarsi, di tirarsi fuori vilmente e alibisticamente, tanto da usare comunemente l’espressione “lavarsene le mani” nel senso di estraniarsi da qualcosa, di sfuggire a una responsabilità.
E’ un grossolano falso.
Per un romano del primo secolo, il lavaggio delle mani (acqua lustrale) era un atto di purificazione.

Orbene, ci si purifica da qualcosa di indegno, di sporco, di impuro.
E, se il gesto viene volutamente compiuto in modo pubblico, in presenza di altre persone, come Pilato volle che fosse, esso implica un’offesa gravissima alle medesime, una esplicita dichiarazione che il contatto con loro ci abbia contaminato, trattandosi di cosa ignobile, come certamente appariva a Pilato il complotto dei Farisei e loro complici contro il “giusto” Nazareno.

Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum – ordinò fosse scritto sulla tabella infissa al patibolo, e quando i sinedriali gli chiesero di modificarlo in “preteso re” fu irremovibile: “Quello che ho scritto, ho scritto!”.
È poco noto, ma la cosa, unita all’inaudito sfregio della catinella, procurò al procuratore un petulante ricorso ebraico all’imperatore, che valse al nostro la rimozione dall’incarico, essendosi giudicata prevalente la ragion di Stato che si mantenessero buoni rapporti con le autorità locali dei “federati”.

Ci vollero altri quarant’anni perché Domiziano facesse quel che il modesto Pilato aveva, quel giorno tremendo, tanta voglia di fare!
Hanno fatto di lui il simbolo dell’indecisione, della pusillanimità, dell’incoerenza, mentre i suoi atti furono ineccepibili sia giuridicamente che umanamente.
Vorrei proprio vedere, al suo posto, quelli che usano con disprezzo il verbo “pilateggiare”.
Hanno fatto di lui l’aguzzino del Signore, quando egli lo difese persino quando i Santi Apostoli lo avevano abbandonato.

Perciò non condivido le idee di coloro che vorrebbero affibbiare a quel nostro degno antenato anche la taccia di positivista ante litteram oppure di sciocco.
Essi risentono, si rifletta, della figura spregevole di Pilato confezionata dai veri deicidi.
Gesù – della cui statura sovrumana il Romano aveva chiaramente avuto, se non conoscenza, almeno sentore – si dichiara a lui testimone della verità.
E Pilato, come qualunque persona di una certa levatura, che non avesse assistito alla predicazione nei tre anni decorsi, gli chiese a quale verità alludesse.
Non mi sembra proprio che occorra attribuire il silenzio di Gesù, piuttosto che alla materiale impossibilità di spiegare tutto a un pagano con una frase, o allo stato di estrema prostrazione fisica in cui si trovava, a un tacito rimprovero, né di dare alla domanda posta un senso… pirandelliano.
Non mi risulta punto, infatti, che vi fosse la pena capitale per una mancanza di riguardo verbale a un qualsiasi funzionario dell’impero, né che i Romani, che hanno insegnato il diritto a tutto il mondo, sparassero pene di morte isteriche a casaccio.
No, il perché del silenzio di Gesù lo sa solo Lui e così continui ad essere.

Quel che mi preme, è correggere l’ingiusto giudizio negativo su Ponzio Pilato, cittadino romano, e questo proprio alla luce dei vangeli.

Non si tratta di una mia peregrina opinione, dato che, nel calendario dei Cristiani Copti, il 25 giugno è dedicato a un Santo di nome Ponzio Pilato.

estratto da Raido n. 26 – Contributi per il Fronte della Tradizione

http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=23369